Codice antichissimo, spirito del tempo, tic mediatico
Di Claudio Magris
Di Claudio Magris
Pietro Nenni e Karol Wojtyla sono i grandi esempi. Ma la giustizia non può dipendere dal perdono e dai sentimenti
All’inizio dei Tre moschettieri, D’Artagnan chiede scusa per una piccola goffaggine, aggiungendo che un guascone quando ha chiesto scusa ritiene di aver già fatto il doppio del necessario. L’intrepido spadaccino sa che la doverosa capacità di riconoscere i propri torti non è untuoso sentimento di inferiorità, bensì risoluta attitudine a chiudere i conti, pagando se necessario il proprio debito, per poi gettarselo alle spalle, pronti a reagire se qualcuno scambia quel gesto di giustizia per debolezza. Chiedere perdono è meno gratificante di perdonare, perché chi perdona si pone al di sopra di chi viene perdonato come un giudice o un sovrano che concedono una grazia.
Il perdono cristiano invece non è ambiguo, perché nasce dal sentimento fraterno della comune fragilità, che tocca ora l’uno ora l’altro, chiamandoli a turno a scusarsi a vicenda; il confessore che assolve non è un uomo più degno di chi si confessa, ma è solo l’impersonale incaricato di una funzione ed è questa la grandezza liberatoria di quel sacramento. Così come esiste una versione supponente del perdonare, ne esiste una parodia, oggi divenuta un vero e proprio tic mediatico: non c’è genitore di un figlio appena ammazzato da un rapinatore, magari ancora ignoto al quale giornali, radio e televisioni non chiedano subito mettendogli il microfono in bocca se perdona l’assassino, una farsa sferzata già anni fa, ad esempio, da Lorenzo Mondo e Marina Corradi. Barbarica è inoltre la tendenza ad attribuire un qualche peso giuridico al perdono dei parenti di una vittima facendone quasi dipendere la concessione o meno della grazia al colpevole.
I sentimenti sono più importanti della legge ma non hanno a che vedere con quest’ultima; un genitore che perdona l’assassino del figlio può essere sublime ma ciò non può influire sul numero di anni che l’assassino secondo il codice deve passare in galera. Mescolare visceralmente codice e pappa famigliare significa regredire alla barbarie pre-civile degli Atridi, che già la tragedia greca luminosamente trascende: il matricida Oreste viene assolto non dai parenti, bensì dal libero Areopago di Atene, la polis che s'innalza al di sopra dei legami di sangue. La regressione più incivile, sotto questo profilo, è costituita dalla consuetudine— vigente ad esempio in alcuni degli Stati Uniti — di far assistere i parenti della vittima all’esecuzione del colpevole, trasformando così la giustizia in una animalesca vendetta, una degradazione indegna dell’Occidente. Se perdonare nel modo giusto è difficile, lo è altrettanto chiedere perdono. Non basta superare le resistenze dell’orgoglio, del vano amor proprio e anche della giusta fierezza, come il giovane D’Artagnan. In primo luogo le scuse vanno fatte da posizioni di forza altrimenti sono legittimamente sospette.
Anche saper porgere le scuse è un dono. Giovanni Paolo II, per esempio, lo possedeva per istinto vitale. Ha saputo chiedere perdono, scandalizzando alcuni timorati e benpensanti prelati conservatori, in modo ardito, riconoscendo addirittura, a proposito dell’antisemitismo che certi errori della chiesa hanno contribuito nei secoli a porre le premesse che hanno reso possibile l’orrore. Lo ha fatto senza imbarazzo e con forza e senza preoccuparsi delle critiche di chi lo rimproverava di aver detto troppo o troppo poco, con la robusta tranquillità di chi non conosce, in alcuna situazione, il disagio e, fatto quello che sentiva di dover fare, se ne infischia delle reazioni e manda tutti a quel paese. Il suo successore — come, per altre ragioni, il suo predecessore Paolo VI — non ha avuto quel dono nella stessa misura. Lo dimostra il tiramolla successivo alle famose dichiarazioni di Regensburg, quell’altalena di precisazioni, rettifiche e riprese, segnali contradditori che del resto spesso caratterizzano le intelligenze profonde e problematiche, come quella di Benedetto XVI.
Fino a che punto ci si deve sentire responsabili per colpe non personali, ma perpetrate dalla parte cui si appartiene, chiesa, patria, partito, comunità, sistema economico e sociale? Quando si ebbe notizia del vile attacco dell’Italia mussoliniana alla Francia già atterrata dai tedeschi, Pietro Nenni, esule in Francia, sentì il dovere di chiedere scusa ai propri vicini di casa, anche se non aveva nulla da rimproverarsi e anzi, quale antifascista in esilio, meritava la loro solidarietà e amicizia. Devo porgere scuse per il lager italiano installato sull’isola di Arbe durante la Seconda guerra mondiale o pretenderle da qualche sloveno o croato che non era ancora nato al tempo delle foibe? Certamente non possiamo distaccarci dalla nostra patria né nel bene né nel male, diceva Croce, e dobbiamo assumere nella nostra coscienza tutto il retaggio e il peso della sua e nostra storia; ciò vale anche nei confronti di realtà non meno importanti di cui siamo e ci sentiamo parte integrante, come può essere una religione, un sistema politico con la sua ideologia, una società con le sue leggi e i suoi meccanismi.
Le scuse stanno diventando anche una mania, pure per misfatti sempre più antichi; presto ci sentiremo in colpa per l’invasione della Gallia da parte di Giulio Cesare. Sotto il fuoco di tali richieste, si trovano forze politiche e uomini considerati, a torto o a ragione, discendenti anche lontani del comunismo. Questi ultimi, in generale, non hanno peraltro quel dono di saper chiedere scusa con fermezza ed è perciò che, più questi chiedono venia per il passato, più si chiede loro di battersi il petto per colpe di antenati—o presunti tali — sempre più remoti. Ma sino a quando bisogna risalire con i complessi di colpa? Brown o Sarkozy dovrebbero scusarsi per l’infame guerra dell’oppio, imposto a cannonate nell’Ottocento al popolo cinese? L’impunita strage di Bophal, in cui per condizioni criminosamente illegali di lavoro in una fabbrica multinazionale sono morte molte più persone che nell’infame strage dell’11 settembre, deve essere messa in conto al sistema capitalista o magari ad Adam Smith, come i gulag a Marx?
L’accanimento sul comunismo giustamente e fortunatamente sconfitto misconosce fra l’altro il fatto che esso ha significato, per milioni di uomini, un ideale e una speranza di riscatto universale, valori in sé cui si può—e forse si dovrebbe —restare fedeli anche quando la storia ha dimostrato la fallacia intrinseca non solo alla sua perversione totalitaria, ma pure il sistema politico comunista in sé. Una volta, in una discussione con me, Giuliano Ferrara mi ha rimproverato di non aver conosciuto il dolore di chi aveva creduto nel «dio che è fallito» ovvero nel comunismo ed è stato ferito dal disinganno. Ma quel dolore dimostra appunto la nobiltà di quelle speranze; è per questo che, quando nel 1991 sul Cremlino è stata ammainata la bandiera rossa, Piero Ostellino — difficilmente etichettabile quale comunista— ha parlato, in un forte articolo sul «Corriere », del rispetto e della commozione che quell’ammainabandiera destava nel cuore e nella mente anche di chi non era né era mai stato comunista.
È questa la differenza tra comunismo e nazismo, la cui caduta nessuno che non fosse nazista poteva salutare con commosso rispetto. Nemmeno Guareschi era comunista, ma è significativo che a incarnare l’umanità più calda e schietta sia, nei suoi libri, Peppone, più buono —e anche più patriota— di don Camillo. Il paradiso dei lavoratori merita di essere demistificato dalla risata di Moni Ovadia, che ne smonta il pomposo palcoscenico ed evoca con irriverente e amorosa pietas ebraica i milioni di vittime senza nome del terrore staliniano, raccogliendo con altrettanta pietas quella fede nell’umanità che la maggior parte di quelle vittime aveva appreso dal comunismo e che la fine di quest’ultimo non può trascinare con sé nel nulla. Un vecchio proverbio ammonisce a non gettar via il bambino insieme all’acqua sporca quando si vuota il bagno.
Il perdono cristiano invece non è ambiguo, perché nasce dal sentimento fraterno della comune fragilità, che tocca ora l’uno ora l’altro, chiamandoli a turno a scusarsi a vicenda; il confessore che assolve non è un uomo più degno di chi si confessa, ma è solo l’impersonale incaricato di una funzione ed è questa la grandezza liberatoria di quel sacramento. Così come esiste una versione supponente del perdonare, ne esiste una parodia, oggi divenuta un vero e proprio tic mediatico: non c’è genitore di un figlio appena ammazzato da un rapinatore, magari ancora ignoto al quale giornali, radio e televisioni non chiedano subito mettendogli il microfono in bocca se perdona l’assassino, una farsa sferzata già anni fa, ad esempio, da Lorenzo Mondo e Marina Corradi. Barbarica è inoltre la tendenza ad attribuire un qualche peso giuridico al perdono dei parenti di una vittima facendone quasi dipendere la concessione o meno della grazia al colpevole.
I sentimenti sono più importanti della legge ma non hanno a che vedere con quest’ultima; un genitore che perdona l’assassino del figlio può essere sublime ma ciò non può influire sul numero di anni che l’assassino secondo il codice deve passare in galera. Mescolare visceralmente codice e pappa famigliare significa regredire alla barbarie pre-civile degli Atridi, che già la tragedia greca luminosamente trascende: il matricida Oreste viene assolto non dai parenti, bensì dal libero Areopago di Atene, la polis che s'innalza al di sopra dei legami di sangue. La regressione più incivile, sotto questo profilo, è costituita dalla consuetudine— vigente ad esempio in alcuni degli Stati Uniti — di far assistere i parenti della vittima all’esecuzione del colpevole, trasformando così la giustizia in una animalesca vendetta, una degradazione indegna dell’Occidente. Se perdonare nel modo giusto è difficile, lo è altrettanto chiedere perdono. Non basta superare le resistenze dell’orgoglio, del vano amor proprio e anche della giusta fierezza, come il giovane D’Artagnan. In primo luogo le scuse vanno fatte da posizioni di forza altrimenti sono legittimamente sospette.
Anche saper porgere le scuse è un dono. Giovanni Paolo II, per esempio, lo possedeva per istinto vitale. Ha saputo chiedere perdono, scandalizzando alcuni timorati e benpensanti prelati conservatori, in modo ardito, riconoscendo addirittura, a proposito dell’antisemitismo che certi errori della chiesa hanno contribuito nei secoli a porre le premesse che hanno reso possibile l’orrore. Lo ha fatto senza imbarazzo e con forza e senza preoccuparsi delle critiche di chi lo rimproverava di aver detto troppo o troppo poco, con la robusta tranquillità di chi non conosce, in alcuna situazione, il disagio e, fatto quello che sentiva di dover fare, se ne infischia delle reazioni e manda tutti a quel paese. Il suo successore — come, per altre ragioni, il suo predecessore Paolo VI — non ha avuto quel dono nella stessa misura. Lo dimostra il tiramolla successivo alle famose dichiarazioni di Regensburg, quell’altalena di precisazioni, rettifiche e riprese, segnali contradditori che del resto spesso caratterizzano le intelligenze profonde e problematiche, come quella di Benedetto XVI.
Fino a che punto ci si deve sentire responsabili per colpe non personali, ma perpetrate dalla parte cui si appartiene, chiesa, patria, partito, comunità, sistema economico e sociale? Quando si ebbe notizia del vile attacco dell’Italia mussoliniana alla Francia già atterrata dai tedeschi, Pietro Nenni, esule in Francia, sentì il dovere di chiedere scusa ai propri vicini di casa, anche se non aveva nulla da rimproverarsi e anzi, quale antifascista in esilio, meritava la loro solidarietà e amicizia. Devo porgere scuse per il lager italiano installato sull’isola di Arbe durante la Seconda guerra mondiale o pretenderle da qualche sloveno o croato che non era ancora nato al tempo delle foibe? Certamente non possiamo distaccarci dalla nostra patria né nel bene né nel male, diceva Croce, e dobbiamo assumere nella nostra coscienza tutto il retaggio e il peso della sua e nostra storia; ciò vale anche nei confronti di realtà non meno importanti di cui siamo e ci sentiamo parte integrante, come può essere una religione, un sistema politico con la sua ideologia, una società con le sue leggi e i suoi meccanismi.
Le scuse stanno diventando anche una mania, pure per misfatti sempre più antichi; presto ci sentiremo in colpa per l’invasione della Gallia da parte di Giulio Cesare. Sotto il fuoco di tali richieste, si trovano forze politiche e uomini considerati, a torto o a ragione, discendenti anche lontani del comunismo. Questi ultimi, in generale, non hanno peraltro quel dono di saper chiedere scusa con fermezza ed è perciò che, più questi chiedono venia per il passato, più si chiede loro di battersi il petto per colpe di antenati—o presunti tali — sempre più remoti. Ma sino a quando bisogna risalire con i complessi di colpa? Brown o Sarkozy dovrebbero scusarsi per l’infame guerra dell’oppio, imposto a cannonate nell’Ottocento al popolo cinese? L’impunita strage di Bophal, in cui per condizioni criminosamente illegali di lavoro in una fabbrica multinazionale sono morte molte più persone che nell’infame strage dell’11 settembre, deve essere messa in conto al sistema capitalista o magari ad Adam Smith, come i gulag a Marx?
L’accanimento sul comunismo giustamente e fortunatamente sconfitto misconosce fra l’altro il fatto che esso ha significato, per milioni di uomini, un ideale e una speranza di riscatto universale, valori in sé cui si può—e forse si dovrebbe —restare fedeli anche quando la storia ha dimostrato la fallacia intrinseca non solo alla sua perversione totalitaria, ma pure il sistema politico comunista in sé. Una volta, in una discussione con me, Giuliano Ferrara mi ha rimproverato di non aver conosciuto il dolore di chi aveva creduto nel «dio che è fallito» ovvero nel comunismo ed è stato ferito dal disinganno. Ma quel dolore dimostra appunto la nobiltà di quelle speranze; è per questo che, quando nel 1991 sul Cremlino è stata ammainata la bandiera rossa, Piero Ostellino — difficilmente etichettabile quale comunista— ha parlato, in un forte articolo sul «Corriere », del rispetto e della commozione che quell’ammainabandiera destava nel cuore e nella mente anche di chi non era né era mai stato comunista.
È questa la differenza tra comunismo e nazismo, la cui caduta nessuno che non fosse nazista poteva salutare con commosso rispetto. Nemmeno Guareschi era comunista, ma è significativo che a incarnare l’umanità più calda e schietta sia, nei suoi libri, Peppone, più buono —e anche più patriota— di don Camillo. Il paradiso dei lavoratori merita di essere demistificato dalla risata di Moni Ovadia, che ne smonta il pomposo palcoscenico ed evoca con irriverente e amorosa pietas ebraica i milioni di vittime senza nome del terrore staliniano, raccogliendo con altrettanta pietas quella fede nell’umanità che la maggior parte di quelle vittime aveva appreso dal comunismo e che la fine di quest’ultimo non può trascinare con sé nel nulla. Un vecchio proverbio ammonisce a non gettar via il bambino insieme all’acqua sporca quando si vuota il bagno.
«Il Corriere della sera» del 16 dicembre 2007
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