31 dicembre 2007

Perché Mussolini volle sfidare l’antica Roma

Ideologie «Fascismo di pietra» di Emilio Gentile
di Dino Messina
Il 9 maggio 1936, quando Benito Mussolini annunciò nel celebre discorso davanti a una folla tripudiante la «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», il processo di costruzione dello Stato totalitario era arrivato al suo apice. Nel nuovo modello di civiltà un ruolo notevole veniva attribuito al mito della Roma antica. In esso non erano importanti soltanto le parole e i riti, ma anche la costruzione di un’immagine totalmente diversa da quella dell’Italietta liberale e in cui i destini universali della Terza Italia dovevano rispecchiarsi. Il regime, ci racconta Emilio Gentile in questo nuovo e avvincente saggio uscito da Laterza, non era soltanto retorica, ma anche pittura, scultura, architettura, urbanistica. Sicché, come dice il titolo del volume dello studioso che si conferma il vero erede italiano di George Mosse, si può parlare di un Fascismo di pietra. Attento, come lo fu lo storico tedesco, agli aspetti dell’estetica del potere che vanno letti in maniera multidisciplinare e trasversale, superando quando è il caso, come la migliore storiografia ha dimostrato, gli stereotipi di destra e sinistra e superando anche alcuni luoghi comuni, secondo cui il fascismo sarebbe stato soltanto vuota retorica. Non si capisce il fascismo, afferma Gentile, se non si comprende il suo mito della romanità, attraverso il quale costruire una nuova civiltà imperiale, che non aveva nulla da invidiare a quella di Augusto. Non si trattò soltanto di una fabbrica di cartapesta, perché questa ideologia fascista venne letteralmente pietrificata e oggi possiamo vederla e, perché no, ammirarla nei palazzi dell’Eur, negli spazi e nelle statue del Foro Italico, all’origine Foro Mussolini, nei tanti edifici che non solo a Roma rappresentano il segno più forte dell’architettura italiana novecentesca. All’inizio di un percorso di lettura ricco di sorprese, scopriamo innanzitutto che il fascismo non nacque con il culto della romanità. Roma era assente nel programma del 1919 e in quello del 1920, la stessa «marcia» del 28 ottobre 1922 si svolse nel segno del disprezzo per la capitale, sede, come scriveva una giovane camicia nera toscana, «della vecchia Italia indolente, del Vaticano, delle ambasciate, dei pezzi grossi, della porchetta arrosto e del tira a campà». Sentimenti simili doveva nutrire Mussolini nel 1923, quando disse che la città andava «voronofizzata», alludendo al celebre medico Serge Voronoff che faceva cure ringiovanenti somministrando ormoni di scimmia. La cura Voronoff per Mussolini era il piccone. Così durante il suo regime Roma fu sventrata per dare spazio alle vestigia antiche, e ricostruita. Centocinquantamila persone appartenenti alle classi più umili furono trasferite dal centro alla periferia. Sicché un viaggiatore francese come Emil Schreiber poteva scrivere già nel 1932 che la Roma medievale e rinascimentale, come l’avevano conosciuta i turisti prima del fascismo, era scomparsa. Guai a pensare tuttavia che il culto fascista di Roma fosse un culto passatista. Perché storia e archeologia erano il serbatoio per attingere materiali finalizzati alla costruzione di una ideologia e di uno Stato proiettati nel futuro. Allo stesso modo, osserva Gentile, «al mito fascista della nuova romanità aderirono non soltanto architetti e artisti che avevano il culto della tradizione, ma anche i più giovani fautori dell’architettura razionale e di un’estetica della nuova romanità fascista, che fosse ispirata da una dinamica e spregiudicata modernità». Lo stesso Mussolini in più di un’occasione si schierò pubblicamente «in favore dell’architettura razionale e incitò gli artisti a creare uno stile fascista che fosse assolutamente moderno, anche se spesso cedette, specialmente dopo la conquista dell’impero, alle pressioni dei sostenitori del classicismo». Gli artisti e gli architetti protagonisti di questa rivoluzione visiva si chiamavano Enrico Del Debbio, Mario De Renzi, Adalberto Libera, Gaetano Minnucci, Luigi Moretti, Giuseppe Pagano, Mario Ridolfi, Mario Sironi. Su tutti svettava Marcello Piacentini, «uno dei maggiori artefici della Roma mussolinea». Il fascismo avanzava dunque attraverso leggi e discorsi, nei mass media e nelle liturgie collettive e si imponeva anche con la rivoluzione urbanistica. Uno degli strumenti di questa nuova estetica del potere furono le Mostre della rivoluzione fascista, che rappresentavano «eventi di culto, concrete esperienze di sacralizzazione della politica». Il vertice fu raggiunto con i lavori per l’esposizione universale del 1942. Evento atteso e mai avvenuto. Tuttavia nel quartiere dell’Eur ancora oggi possiamo studiare la prima realizzazione di quella nuova Roma imperiale, proiettata nel futuro, che doveva fare concorrenza alla vecchia capitale.
«Corriere della sera» del 4 dicembre 2007

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