23 dicembre 2007

Misura e rigore in due colonne

Elzeviro: stile e tradizione della Terza pagina
di Natalino Irti
Queste righe appaiono sotto la rubrica «Elzeviro», e in una pagina che, a dispetto di ogni ordine numerale, si definisce «terza». Forse i giovani lettori poco o punto sanno di quel nome e di questa singolarità aritmetica. Elzeviro ha radice in una famiglia di tipografi olandesi, gli Elzevier, che inventarono caratteri di stampa e misure editoriali (il «dodicesimo»). La parola è poi venuta a indicare un articolo di giornale, che, collocato a sinistra nella pagina, ferma un’unità di pensiero, di riflessione critica, di abbandono narrativo. Essenziale è l’unità: tutto va scritto ed esaurito nel giro breve dell’articolo. Nessun rinvio ad altro testo; nessuna integrazione dall’esterno. Questa unità, o autosufficienza tematica, esige uno stile suo proprio: che è lo stile, appunto, del genere letterario «elzeviro», quale ormai si è precisato e determinato nell’arco di un secolo. La misura di righe, lo svolgimento conchiuso, esigono asciutta sobrietà e concisione espressiva. È l’arduo equilibrio, che rese celebri gli elzeviristi di questo giornale, da Emilio Cecchi a Pietro Pancrazi, da Manara Valgimigli a Giorgio Pasquali: studiosi eminenti in campi diversi, eppur capaci di flettere rigore scientifico e scrupolo accademico alla duttilità e scioltezza dell’elzeviro. Ed Elzeviri fu il titolo di un libro, che nel 1945 raccolse le pagine finissime di Attilio Momigliano, tutte o quasi tutte comparse sul Corriere della Sera. Si scopre qui l’intima connessione fra spazio tipografico, scelta del tema, e stile della prosa. Le due colonne orientano verso uno od altro tema, che possa svolgersi in una misura così definita, e dunque né esiga largo respiro né cada nell’aridità di semplice notizia. L’elzeviro ha un fraterno compagno nell’essai, ma non ne condivide la larghezza di trattazione e il disteso andamento. La prosa dell’essai è più generosa e aperta, può anche concedersi sviamenti e sentieri laterali. Contenuto e stile, come sempre, fanno tutt’uno, e perciò la prosa dell’elzeviro ha carattere fra critico e narrativo, tra informare e commentare, tra vedere le cose e riflettere intorno ad esse. La storia dell’elzeviro è strettamente congiunta con la storia della «terza pagina»: che era davvero «terza» negli esili fogli del giornalismo novecentesco, e che rimane «terza», per una sorta d’identità tra luogo e contenuto, anche nei ricchi e variopinti quotidiani del nostro tempo. «Terza pagina» ed «elzeviro» sono simbolo di una civiltà letteraria, che non ripudia l’oggi, ma insieme raccoglie la tradizione del passato e le attese del domani. Le due colonne possono slargarsi o ridursi, invadere le altre o ritrarsi in se stesse: sempre costituiscono il segno di una meditante milizia, di una raccolta riflessione, in cui spazio tipografico, tema, e stile si provano a raggiungere l’equilibrio della forma. L’elzeviro esprime sempre una tensione verso la forma, quando forma sia intesa, non come ornato e prezioso recipiente, ma come unità di parola e pensiero, come risposta culturale a un dato fatto o episodio storico. Qui la forma è disciplina linguistica, che rifiuta la parola generica, reprime la faticosa prolissità, e costringe l’autore alla frase ferma e conclusiva. Che è anche atto di onestà nei confronti del lettore, a cui l’articolo si porge nella sua fragile e vulnerabile unità. Le due colonne hanno un che di esile e di pudico, una discrezione tipografica, che non tollera titoli chiassosi o invadenti. Il lettore deve cercarle e trovarle, come voci amiche in una folla rumorosa e distratta. Ed esse sempre, o quasi sempre, non deludono l’attesa.
«Corriere della sera» del 18 dicembre 2007

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