31 dicembre 2007

Marta Sordi: aperturismo o vera integrazione?

Non aperturismo ma capacità di riconoscere il genio degli altri. Gli antichi latini hanno un'altra lezione da impartire a noi ciechi multiculturalisti moderni
di Roberto Persico
Marta Sordi è professore emerito di Storia antica dell'Università Cattolica di Milano. Le sue pubblicazioni sul mondo greco e su quello romano, sugli etruschi e sul cristianesimo dei primi secoli riempiono gli scaffali di una libreria. Oggi una grave malattia alle ossa limita un po' la sua mobilità. Talvolta, quando la invitano a un convegno, si limita a mandare un intervento. Lei, però, sopporta la sua sofferenza non solo con cristiana rassegnazione, ma con una letizia che è il segno di una fede profonda. E se la carne è debole, lo spirito è sempre quello, lucido e battagliero, pronto ad appassionarsi per la storia a cui ha dedicato una vita, con lo stesso entusiasmo con cui, tantissimi anni fa, ha cominciato. Così quando Tempi le ha chiesto un'intervista ha acconsentito prontamente.

Professoressa Sordi, lei ha speso tutta la vita a studiare le vicende dei greci e dei romani. Che cosa può dire di averne ricavato?

Moltissimo. La scoperta del metodo storico, all'università, col professor Alfredo Passerini, è stata una svolta per la mia vita, non solo sul piano culturale, ma anche per la mia fede. Sul piano culturale, perché arrivai all'università spinta da un'antica passione per gli etruschi, ma allora a Milano non c'erano cattedre di etruscologia, così finii per specializzarmi in storia greca, e mi incantò il metodo: la possibilità di leggere le fonti antiche, scoprendo attraverso un'attenta valutazione di ogni sfumatura la realtà che ci sta dietro. Per esempio, Passerini ci insegnò a riscoprire l'autentica figura di Tiberio negli scritti di Tacito. Tacito è fieramente avverso a Tiberio, e ne presenta un ritratto fortemente negativo. Ma una lettura attenta permette di distinguere i fatti da quelle che sono interpretazioni dello storico, e di scoprire così, al di là del filtro di chi riferisce, la figura di un grande imperatore. Tutto il mio lavoro di studiosa della storia antica è stato fedele a questa lezione: la possibilità di risalire, grazie a una lettura attenta, e tutte le volte che è possibile comparata, delle fonti, al dato contemporaneo che ne è all'origine. Certo, il metodo storico non attinge a una certezza assoluta, però può raggiungere una certezza probabile, cioè che può essere provata.

Prima accennava al fatto che questa scoperta è stata determinante anche per la sua vita personale.
Certo, per la mia convinzione religiosa. Io sono cresciuta nella fede cattolica, e non l'ho mai abbandonata. Ma la scoperta del metodo storico è servita a rafforzarla, a renderla consapevole. Un primo passo in questa direzione era già avvenuto al liceo. Io ho frequentato il liceo scientifico italiano a Bucarest, dove ci eravamo trasferiti per ragioni di lavoro del babbo proprio negli anni della guerra, tra il 1941 e il 1945. A Bucarest avevamo un professore di filosofia crociano, che ci spiegava tutto in termini di immanentismo, ma in maniera molto rispettosa di chi invece, come me, credeva nella trascendenza di Dio: ecco, nel confronto con le posizioni di quel professore mi convinsi della razionalità di quelli che la tradizione cristiana chiama preambula fidei, la certezza razionale dell'esistenza di Dio, della sua trascendenza e del suo carattere personale. Ma all'università, grazie al metodo storico, mi si aprirono davanti quelli che potrei chiamare i preambula fidei della fede cristiana in senso specifico, della fede nella divinità di Gesù.

Ci vuole spiegare meglio?
Guardi, ricordo una discussione con una compagna non credente, che una volta mi disse: «Ma come fai proprio tu che sei una storica a credere a queste cose?». Proprio perché sono una storica, risposi, sono portata a credere alla verità della pretesa di Cristo di essere Dio. Certo, la fede non può essere ridotta a un'operazione storiografica, è un salto qualitativo. Però lo studio storico, puntuale dei Vangeli ce ne mostra la storicità, l'attendibilità, ci mostra che quel Gesù di Nazareth è davvero esistito ed è stato un uomo con determinate caratteristiche. Riconoscerne la pretesa divina, ripeto, è un'altra cosa, però lo studio storico dei Vangeli favorisce, direi prepara il salto dell'adesione di fede: o quell'uomo, quell'uomo concreto, realmente esistito, che i Vangeli ci mostrano, era un ciarlatano, un pazzo, o era quel che diceva di essere, era Dio. È estremamente illogico affermare, come tanti fanno, che Cristo sia stato un grande profeta, un riformatore e quant'altro, e negare che fosse Dio: se non è quel che diceva di essere non sta in piedi nemmeno il resto. Il cristianesimo è una religione che ha un fondamento storico, non è semplicemente credere in Dio ma che Dio si è incarnato in una persona storica. La storicità dei Vangeli, accertabile col metodo storico, è una sorta di preambulum alla fede in Cristo.

I suoi studi, però, non si sono limitati alle origini cristiane.
Perché è sbagliato, artificiale separare il cristianesimo e la civiltà che ne è seguita dal mondo classico. C'è una continuità evidente tra la civiltà antica e il cristianesimo: il mondo antico si apre, accoglie il cristianesimo. Roma è il luogo in cui il cristianesimo si diffonde non solo perché l'impero, come si è sempre osservato, offriva le strade e la sicurezza attraverso cui il messaggio cristiano poteva viaggiare, ma soprattutto perché la mentalità romana era pronta ad accogliere quel messaggio. Sono segni impressionanti di questa attesa quelli che poi saranno chiamati i canti dell'Avvento del mondo romano, la quarta egloga di Virgilio e il carme 64 di Catullo. Il primo saluta il prossimo avvento di una nuova era, nella quale «sarà cancellato l'antico delitto». Il secondo canta la nostalgia per il mondo degli eroi, cioè per un mondo in cui gli dèi vivevano insieme agli uomini, distrutto dal nostro peccato, «e la luce si è spenta», conclude. Il mondo romano aveva in sé, potremmo dire, i preambula fidei, cui mancava solo la religione. Ma anche in questa molti (il citato Catullo per esempio, ma non solo) parlavano già del divino, la divinità: stavano già superando la concezione degli dèi omerici per aprirsi all'idea di un Dio unico. Il cristianesimo è dilagato perché il mondo antico era un mondo in attesa di qualche cosa.

Per questo dobbiamo recuperare la continuità con quel mondo.
Per questo e non solo. Un altro aspetto che sarebbe assolutamente da recuperare è quell'atteggiamento che si potrebbe definire multiculturale dei romani, i quali erano sempre pronti ad accogliere tutto quel che di buono trovavano presso altri popoli. Sottolineo: quel che trovavano di buono, diversamente dall'apertura indiscriminata dei giorni nostri, che considera tutto equivalente. I romani ebbero un senso fortissimo dell'importanza di acquisire tutto quel che di buono trovavano presso altri popoli, e non si facevano problemi a riconoscerlo. Quel che prendevano da altri lo riconoscevano come merito altrui. È proprio qui tra l'altro che fa leva sant'Ambrogio in una famosa risposta a Simmaco. Questi aveva immaginato una personificazione di Roma che chiedeva che le fossero lasciati gli dèi che le avevano dato tante vittorie: «Non mi pento di convertirmi anche se in tarda età», fa rispondere pressappoco Ambrogio alla medesima Roma, «perché, come ho sempre fatto, sto abbracciando una concezione migliore». Questa è stata la grande caratteristica dei romani, che li differenzia nettamente dai greci, che invece non si seppero aprire: la capacità di accogliere tutto ciò che riconoscevano migliore.

A proposito di greci, finora non ne abbiamo parlato. Cosa dobbiamo conservare della loro eredità?
La democrazia. La democrazia è un'invenzione greca, e in particolare ateniese, come rivendica con orgoglio Pericle nel grande discorso che Tucidide gli mette in bocca nel secondo libro de La guerra del Peloponneso. E ha due caratteristiche che non dovremmo dimenticare. La prima è che è una democrazia meritocratica: tutti sono uguali, non c'è differenza dovuta alla ricchezza o alla nascita, ma non tutti hanno le stesse competenze, e le cariche fondamentali vanno distribuite secondo la competenza. La seconda è l'obbedienza alle leggi, e soprattutto alle leggi non scritte, quelle degli dèi. È questo il fondamento che rende possibile una società democratica. Per i greci però questa era limitata ai cittadini, e la cittadinanza dipendeva strettamente dalla nascita. Uno straniero non poteva diventare cittadino: questa è stata la debolezza di Atene. Roma invece seppe passare dall'urbs alla civitas, dalla città su base etnica a quella fondata sull'adesione a valori condivisi, a un ordinamento comune.

Le sta proprio a cuore questa predisposizione degli antichi romani all'integrazione.
Perché è il cuore della tradizione occidentale. Come spiega Claudio, imperatore del I secolo, quando introduce alcuni galli, nemici sconfitti da meno di un secolo, nel novero dei senatori: «I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso, di origine sabina, fu accolto contemporaneamente tra i cittadini romani e nel patriziato, mi esortano ad agire con gli stessi criteri nel governo dello Stato, trasferendo qui quanto di meglio vi sia altrove. Cos'altro costituì la rovina di spartani e ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini». E Sallustio ne La congiura di Catilina spiega che la caratteristica di Roma sta nell'aver fatto una civitas di gente diversa, grazie alla concordia. Concordia è un concetto giuridico/politico che caratterizza tutta la vicenda di Roma. Indica che genti diverse possono convivere (e arricchirsi reciprocamente) quando riconoscono un comune ordinamento, quando accettano le stesse leggi. Roma nasce da un incontro fra diversi (i romani in senso proprio, i sabini, gli etruschi) che imparano gli uni dagli altri il meglio e che sono riuniti dall'obbedienza a una norma comune. Anche il mito della fondazione di Roma da parte di Enea, cioè di uno straniero, allude a questo. Roma porta questa struttura nel suo Dna. La nostra cultura dovrebbe reimpararla.

«Tempi» num. 48 del 29 novembre 2007

Nessun commento: