di Bernard Henri Levy
Innanzitutto, le cose. Il sacro orrore delle cose. Un’attrezzatura di maschere, corazze, parasole, oggetti instabili, una bolla soffocante e al tempo stesso sovra-ossigenata, chiusa e sovra-esposta, che funzionava come una serra e lo preservava dalla grande contaminazione delle cose. Non solo, come è stato detto, i virus, i germi, i batteri. Ma la vita stessa come un germe. Il vivo come un batterio. La materia, gli oggetti, l’aria che respirava non appena si avventurava fuori del suo caro Neverland, divenuti fonte d’infezione, pestilenza, ossessione macabra, scuola del cadavere. I dandy erano così. Intendo dire i grandi dandy. I fondatori della tradizione. Barbey. Beau Brummel. Wilde e il suo Dorian Gray. Tacchi rossi per danzare al di sopra di un mondo di miasmi e di umori. Belletti e artifici per sfuggire al De Profundis di un baratro definitivamente parassitato. Senza parlare di Baudelaire che, del suo disgusto per la natura e le sue mostruose proliferazioni, aveva fatto il principio della propria estetica, della propria politica. Michael Jackson era il loro erede. Michael Jackson, con i suoi dischi in vinile, i latex, la casa mausoleo, i terrori profilattici e anche, beninteso, i saltelli da danzatore geniale assediato da ogni parte dalla luce, era l’ultimo di questi grandi dandy. Aggiungete la cura morbosa che, pare, dedicava al proprio corpo. La storia della cassa a ossigeno dove si preparava, instancabilmente, per chissà quale toilette funeraria. Non è morto per una overdose di farmaci, ma per aver voluto non solo inventare, ma inocularsi un vaccino contro la vita. Poi gli altri. Veramente gli altri. Non più le cose, ma gli umani. Il loro contatto. La loro prossimità maligna e ripugnante. La presenza stessa dell’altro, il suo odore, il suo sguardo immediatamente scrutatore - da cui lo proteggevano solo le lenti scure degli occhiali - vissuti come un’offesa, una minaccia, la causa di tutte le violenze, la loro origine. L’inferno? Sì, l’inferno. Un Jackson sartriano, stavolta. Oppure, il che è lo stesso, un Jackson cataro. Un Jackson di cui il minimo paradosso non è, quando scrive «We are the world», quando rende popolare quel che bisogna pur chiamare l’umanitario contemporaneo, di vedere l’umanità come fallimento, gli uomini come piaghe e la loro società come male necessario, compromesso obbligato, accomodamento degradante al quale un artista non può consentire che controvoglia. Questa reincarnazione di Peter Pan pensava sinceramente, per esempio, che i bambini fossero concepiti senza contatto. Questo adulto incompiuto nutriva il folle sogno - e, in un certo senso, lo esaudì - di concepire i propri figli senza contatto, quasi senza madre. Questo misantropo, questo mutante, fu uno degli ultimi umani a credere agli antichi teoremi dell’inconveniente d’esser nato. E a viverli. Generazione, corruzione... Desiderio privo di concupiscenza... Il che, sia detto en passant, rende perlomeno assurdi i processi di stregoneria istruiti contro di lui negli ultimi dieci anni della sua vita e che furono una persecuzione senza fine. Michael Jackson non voleva essere un bambino ma un santo. O un angelo. E gli angeli, come sappiamo, non hanno sesso. O l’hanno soltanto nell’immaginazione dei perversi che a essi attribuiscono i propri fantasmi. Poi infine, se stesso. Il proprio corpo, il proprio volto, visti come minacce ancora più grandi, come luoghi di ogni pericolo. Il nemico intimo ma spietato, che la vita intera non sarà sufficiente per annientarlo o domarlo. Anche qui, si sfiora appena la singolare avventura di Michael Jackson, si sbaglia sulla folle metamorfosi che egli impresse al suo volto, non si capisce nulla delle operazioni di chirurgia a ripetizione che egli si inflisse di continuo, se riduciamo tutto a un fatto di pigmenti: razza, anti-razza, odio di sé, mal-essere, sentirsi a disagio nella propria pelle, bla bla. Guardate le sue foto. Osservate l’epidermide, effettivamente sempre più bianca, ma come passata nella calce viva. Il naso ormai quasi inesistente, le labbra divorate dall’interno, i pomelli smagriti come quelli di una maschera jivaro o di una testa di Giacometti. Scrutate i suoi tratti assottigliati, la pelle ruvida, gli occhi che sembrano stare al loro posto come un anello al dito di uno scheletro. Considerate il restringimento - un filosofo direbbe questa époché - di un viso ridotto alla sua più semplice inespressione e diventato il proprio sosia. Il viso non è forse la firma stessa dell’essere umano? La sua verità? La maniera in cui si espone e si esprime? Il segno della singolarità di ciascuno, della sua inestimabile unicità? Eh sì. È sempre questo, un volto. Ed è proprio per questo che la terza tappa, il modo di torturare, mortificare, profanare e, alla fin fine, cancellare il proprio volto deve leggersi come l’ultima stazione di un lungo, terribile calvario. Infatti, giunti a tale stadio, quando si è deciso di sfuggire al regno delle cose, poi di uscire dai ranghi degli umani, poi di divenire un umano senza volto, non rimane molta scelta. O si reinventa l’umano, si diviene realmente trans-umano, l’operazione Ogm (organismo geneticamente modificato) riesce. Oppure si muore.
«Corriere della Sera» del 30 giugno 2009
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