La crisi della sinistra italiana
Di Angelo Panebianco
Anatomia di una crisi
Di Angelo Panebianco
Anatomia di una crisi
Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le elezioni europee, con i pessimi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più accesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una domanda: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimento della fiducia liberale nella capacità di autoregolazione dei mercati, i partiti socialisti (e affini) non riescono ad approfittarne? Non dovrebbero essere proprio i partiti socialisti, antichi alfieri dell'intervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politico degli elettori in questo tempo di crisi?
Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generalema anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici.
Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi.
Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino.
In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader.
Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale?
O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.
La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni.
Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generalema anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici.
Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi.
Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino.
In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader.
Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale?
O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.
La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni.
«Corriere della sera » del 30 giugno 2009
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