Pene torturanti
di Giuseppe Anzani
Teoria virtuosa della pena, certezza della pena, tragedia della pena concreta, certezza della tragedia. Rileggete adagio questa sequenza, respirando dopo ogni virgola: è il percorso sapienziale- demenziale del nostro sistema punitivo. Tra le più ricorrenti professioni di fede civica, tra le più condivise espressioni di etica retributiva, campeggia da qualche tempo la «certezza della pena». E non si fatica a capire il perché, per chi pensa che la devianza dipende dalla «sterilizzazione degli elementi infetti». Ma non ci si dà più cura di capire da dove è entrato il virus, e quant’è pandemico, e come si guarisce, e se quanto si fa lo sconfigge o lo rafforza.
Certezza della pena, ma sì, è diventato ormai un motto da convocazione di massa in piazza, alla bisogna. Da bravi, servono catene, pietre aguzze, staffili? O basterà plaudire, da cittadini che tengon nette le mani, al lavoro degli addetti? Sta di fatto che serpeggia un umore che pare un volontariato da ausiliari della pena, se si potesse. Certezza si vuole, ma certezza di che cosa, infine? Che cos’è la pena, verbalizzata nei codici e nelle sentenze; e che cos’è la pena scodellata sulla pelle dei reclusi delle carceri italiane? Anche i giudici non lo sanno. Non glielo fanno sapere, tengono inutile che lo sappiano. I giudici quando devono condannare alla galera dicono «visti gli articoli» e certamente gli articoli li hanno visti e li sanno a memoria e sanno che dicono proprio così, e quando dicono «reclusione» è reclusione. Ma i giudici che cos’è la reclusione non l’hanno mai vista. E invece quelli che l’hanno vista, nell’Italia civilissima di Verri e Beccaria, non possono tenerla oggi più civile delle scudisciate sulla pubblica piazza, ma peggior barbarie prolungata se è divenuta tortura quotidiana di ammasso di corpi in scatole blindate.
Alla breve: leggiamo dalle statistiche aggiornate che oggi ci sono 63mila detenuti, e che si trovano rinchiusi nello spazio di 43mila posti. Dunque sono spinti a forza, in spazi inesistenti, compressi, condivisi. Spazi godibili 'a turno', secondo quanto ci vanno informando le cronache dei turni di passaggio a terra e dei turni di riposo in branda, fra loro non compatibili. Spazi coatti esposti alla coazione aggressiva, spazi rinchiusi alla condivisione di una promiscuità assurda, spazi di bestie nei quali il profilo umano finisce in fioca invocazione, compatibile a stento con la voglia di vita.
Io non cerco neppure più di leggere 'vita' (gioia di vita, o persino patimento che tende alla vita come doloroso traguardo di una gioia da raggiungere) di fronte alla obliqua imprecazione della morte che nei primi mesi di quest’anno ha eguagliato tutti i suicidi in carcere dell’anno scorso.
Torna dunque il soprassalto della concretezza, insieme con il fremito della coscienza scossa. E chiede di rimeditare anzitutto la proporzione fra condanna (o solo accusa, per metà gente) e prigione così, proprio per la sua tragica serietà. Metà dei carcerati è affetta da epatite, il 30% è tossicodipendente, il 10% malata di mente e il 5% ha l’Hiv. Il rapporto fra la pena torturante per questi infelici, e la loro infelicità raddoppiata nella crudeltà dell’attuale caienna dice che questa non è giustizia. Per un canile, gli animalisti chiederebbero riforme. Non è un sistema penitenziario questo, è una inciviltà.
Certezza della pena, ma sì, è diventato ormai un motto da convocazione di massa in piazza, alla bisogna. Da bravi, servono catene, pietre aguzze, staffili? O basterà plaudire, da cittadini che tengon nette le mani, al lavoro degli addetti? Sta di fatto che serpeggia un umore che pare un volontariato da ausiliari della pena, se si potesse. Certezza si vuole, ma certezza di che cosa, infine? Che cos’è la pena, verbalizzata nei codici e nelle sentenze; e che cos’è la pena scodellata sulla pelle dei reclusi delle carceri italiane? Anche i giudici non lo sanno. Non glielo fanno sapere, tengono inutile che lo sappiano. I giudici quando devono condannare alla galera dicono «visti gli articoli» e certamente gli articoli li hanno visti e li sanno a memoria e sanno che dicono proprio così, e quando dicono «reclusione» è reclusione. Ma i giudici che cos’è la reclusione non l’hanno mai vista. E invece quelli che l’hanno vista, nell’Italia civilissima di Verri e Beccaria, non possono tenerla oggi più civile delle scudisciate sulla pubblica piazza, ma peggior barbarie prolungata se è divenuta tortura quotidiana di ammasso di corpi in scatole blindate.
Alla breve: leggiamo dalle statistiche aggiornate che oggi ci sono 63mila detenuti, e che si trovano rinchiusi nello spazio di 43mila posti. Dunque sono spinti a forza, in spazi inesistenti, compressi, condivisi. Spazi godibili 'a turno', secondo quanto ci vanno informando le cronache dei turni di passaggio a terra e dei turni di riposo in branda, fra loro non compatibili. Spazi coatti esposti alla coazione aggressiva, spazi rinchiusi alla condivisione di una promiscuità assurda, spazi di bestie nei quali il profilo umano finisce in fioca invocazione, compatibile a stento con la voglia di vita.
Io non cerco neppure più di leggere 'vita' (gioia di vita, o persino patimento che tende alla vita come doloroso traguardo di una gioia da raggiungere) di fronte alla obliqua imprecazione della morte che nei primi mesi di quest’anno ha eguagliato tutti i suicidi in carcere dell’anno scorso.
Torna dunque il soprassalto della concretezza, insieme con il fremito della coscienza scossa. E chiede di rimeditare anzitutto la proporzione fra condanna (o solo accusa, per metà gente) e prigione così, proprio per la sua tragica serietà. Metà dei carcerati è affetta da epatite, il 30% è tossicodipendente, il 10% malata di mente e il 5% ha l’Hiv. Il rapporto fra la pena torturante per questi infelici, e la loro infelicità raddoppiata nella crudeltà dell’attuale caienna dice che questa non è giustizia. Per un canile, gli animalisti chiederebbero riforme. Non è un sistema penitenziario questo, è una inciviltà.
"Avvenire" del 26 luglio 2009
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