Che cosa dicono gli adolescenti “marziani”, quelli che non vivono il sesso “come una tessera di accumulo-punti”, e dei loro coetanei “confusi” si chiedono “che adulti saranno?”
di Marianna Rizzini
Poi ci sono i marziani. I marziani, rispetto a molti loro coetanei adolescenti, sembrano usciti da un passato in cui l’adolescenza non era ancora un’anticamera scomoda da divorare e accorciare con un sesso ansioso, accumulato a caso, ma uno scivolo lento fatto di cotte pazzesche, delusioni feroci, amori impossibili, pulsioni violente e non conosciute, piacere solitario, dipendenza dai primi baci, scoperte fisiche imbranate, felicità minuscole e tempi morti. Per contrasto con l’accelerazione delle vite dei loro compagni di scuola, ossessionati dal sesso e già stufi del sesso a quindici anni, i marziani sembrano presi per sbaglio non solo dalle adolescenze più lente dei loro fratelli maggiori, ma addirittura da quelle lentissime dei nonni e dei bisnonni. Sembrano allo stesso tempo “antichi” e troppo moderni, venuti in visita da un futuro in cui sono già dei quasi-adulti, più o meno affettivamente maturi. I marziani non sono casti (e se lo sono non hanno l’ansia di obliterare la verginità). Non sono frustrati, non sono isolati. Escono, si pettinano, si vestono, si truccano, guardano le ragazze, guardano i ragazzi, chattano su Facebook, hanno prime e seconde esperienze. Ma non vedono il sesso come un’attività seriale, da praticare con chi capita dove capita, magari perché non ci si può tirare indietro (pena il sentirsi esclusi, soli, abbandonati, derisi, senza mèta). Come gran parte dei loro coetanei, molti marziani hanno avuto presto le prime esperienze, e spesso senza troppa consapevolezza, ma dicono: ora cerco anche altro. Sono quelli per cui il sesso fa parte, grosso modo, della categoria “amore”, e se amore è una parola troppo grande o prematura lo chiamano “trasporto”, “voler bene”, “coinvolgimento emotivo” – illusorio o reale, duraturo o no, ma è comunque qualcosa che rende diversa dalle altre la persona con cui si fa l’amore o con cui si pensa che si farà l’amore. I marziani non nascondono la timidezza o la sofferenza, non anelano alla collezione di conquiste, si permettono momenti di noia non riempita da una tresca, e non si sentono inadeguati se non bevono quattro cocktail a stomaco vuoto per far diventare gli altri una massa indistinta di persone “bombabili” o “scopabili”.
I loro professori si domandano se sia giusto o sbagliato che da settembre, nelle scuole di Roma, vengano installati distributori di preservativi e se sia giusto o sbagliato che in quelle di Milano, con moto contrario, vengano eliminate, per i minori di sedici anni, le lezioni di educazione sessuale della Asl, giudicate troppo “crude” da alcuni genitori e insegnanti. I marziani intanto osservano da fuori se stessi e i destinatari di questi provvedimenti. Chiedono attenzione e parole per chi “non capisce”. Mattia, sedici anni, non sa “che adulti saranno quelli che alla mia età non capiscono neanche perché stanno ogni sabato con uno o una diversa, in dieci minuti, senza provare niente o soffocando quello che provano per non essere scaricati”.
Roberto, sedici anni anche lui, soffre “come un cane” per una ragazza che l’ha lasciato. Non ha voglia di guardarne altre, ora, mentre con gli amici va nei parchi di notte, nell’estate un po’ noiosa della sua città, nell’afa del nord-est. Si sente diverso da quelli “sempre insoddisfatti che pensano di stare meglio cercando una donna nuova ogni giorno, in giro e su Internet”. Si sente diverso pure dalla sua migliore amica, “che cambia un ragazzo a settimana, e dice ‘voglio il principe azzurro’ ma poi non lo cerca”. Alla fine Roberto sospira: “Sarà che i maschi tendono ad attaccarsi”. Alberto, invece, riusciva ad avvicinare le ragazze soltanto nel paesino sull’Adriatico dove andava con i suoi in agosto, “perché lì si creava una condizione in cui si parlava senza tirarsela”. Con una delle sedicenni “che non se la tiravano” ha avuto la sua prima esperienza. Sua madre si era accorta che quell’estate il figlio “aveva successo con le donne” e gli diceva: “Ricordati che non esiste solo il sesso”. Lui pensava “una cosa è l’amore, un’altra è il sesso”. Oggi vorrebbe “una con cui poter anche parlare, possibilmente”.
Maria ha sedici anni e conta i tredici mesi passati con il suo ragazzo. Trova “deprimente per le donne” l’andare a letto “ossessivamente” con chiunque e dovunque. Quando ha conosciuto il ragazzo, Maria era “in un periodo di passaggio”. “Lui, un po’ più grande di me, faceva politica nella scuola che ho cambiato dopo la bocciatura che mi ha fatta stare malissimo. La mia prima storia era finita. Ed era finito anche il periodo in cui mi sentivo single e provavo a uscire con qualcuno. Ci siamo messi insieme e siamo ancora insieme”.
Maria vuole tenere i piani separati: amici di qua, lui di là. “Con gli amici mi comporto in modo diverso che con lui, forse più scherzoso. Ho sedici anni e voglio crescere anche come persona, a parte la coppia”. Dalle sue amiche Maria ha sentito raccontare esperienze di due tipi: la storia estiva, “da non rimpiangere ma finita lì”, e la storia più lunga con il primo con cui hanno fatto l’amore. A scuola, invece, e nelle piazze del suo quartiere, al capolinea del metrò di Milano, Maria ne ha viste e sentite tante, di “ragazze che a quattordici anni fanno sesso con uno per moda. Non usano precauzioni. Sanno che esiste la pillola, il cerotto, ma non vanno al consultorio. E non c’è questo grande uso del preservativo”. Secondo Maria chi, a quindici anni, ha una vita sessuale “confusa”, e magari “per farsi coraggio si porta la bottiglia di vodka da casa e la scola tutta prima di entrare in un locale, così risparmia pure”, lo fa “per ribellione verso i genitori”. O “perché non sa che cosa fare e magari nessuno in casa ha mai parlato davvero con lei o con lui, né ha mai detto ‘leggi questo libro’”. Quest’estate Maria andrà qualche giorno in una città straniera con il ragazzo, pagandosi la vacanza con un lavoretto fatto per sua madre.
Adriana è medico ginecologo. Non sarebbe d’accordo con Sara sulla questione “dialogo in casa”. Secondo Adriana non è che in casa non si parla, ma in generale si parla “male”, scambiando la confidenza per la presenza. Adriana è “arrabbiata con le madri” che portano le figlie di tredici-quattordici anni in ambulatorio per poter dire “così non ci pensiamo più”: “Le prescriva la pillola così siamo più tranquilli, mi dicono. Come fossero gatte che si portano dal veterinario per farle sterilizzare. Dicono anche ‘tanto mi racconta tutto’, ‘tanto c’è un buon rapporto’. Le mamme si fanno raccontare tutto, ma forse perché sono nostalgiche del loro passato. O forse si fa fatica a insegnare un minimo di cultura degli affetti. Venisse una ragazzina a chiedermi la pillola perché pervasa da una passione, sarei anche contenta, sarebbe evidente il suo desiderio. Ma di ragazzine travolte da passione non ne ho viste”.
Chi aveva l’età di Sara tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta non poteva tanto facilmente partire con il ragazzo o la ragazza, e avere una vita “adulta” da adolescente. Doveva magari passare dalla trafila delle vacanze studio in Inghilterra, prima, e delle vacanze della maturità con gli amici, poi. Durante le vacanze studio era praticamente impossibile che un adolescente facesse l’amore con qualcuno, ammesso che davvero ci pensasse e non lo dicesse solo per darsi le arie – “stasera mi faccio quella”. La sorveglianza era strettissima: ragazzi in un’ala del college, ragazze nell’altra. Si facevano fulminee corse nel buio, con i cartoni di pizza gommosa in mano, per raggiungere l’altra ala prima che il vigilante di turno si accorgesse dei transfughi, ma la trasgressione consisteva nel fumare sigarette, chiacchierare fino alle tre di notte abbracciati, al massimo appartarsi per qualche bacio sotto un albero, nel gelo dell’estate britannica. Si vociferava, a volte, di qualche spagnolo temerario che “aveva dormito con la francese” o di qualche ammiratissima svedese “che era andata di sopra con il tedesco”, ma erano notizie talmente rare da sembrare leggende metropolitane. I più erano ancora in fase “primo bacio” oppure, ingolfati di hamburger e patatine, erano paghi dei giochi elettronici e delle prime manie musicali. Durante il viaggio di maturità le “prime volte” erano frequenti, ma i ragazzi e le ragazze erano (in media) più grandi e, a diciotto o diciannove anni, ormai più attrezzati psicologicamente. Molti sognavano e non realizzavano l’accumulo di conquiste, molti aspiravano a un generico amore estivo che potesse rendere meno angosciante l’inverno desiderato e terribile del passaggio dalla scuola al “nulla”: l’università o il lavoro, questi sconosciuti. Le isole greche parevano luna park con traghetti pieni di olandesi biondissimi e tedesche bellissime, e le mandrie di soli maschi cercavano i gruppi di ragazze sole con cui creare coppie: a te piace quella, a me l’altra, abbordiamole in spiaggia per stasera.
Parevano mirabilia le prime cene “da grandi”, a lume di candela sul porticciolo, con il ragazzo che versava il vino, bevanda fino ad allora schifata come una medicina. In assenza di cellulari, ci si augurava che il vino non ottundesse il barlume di lucidità rimasto per andare a recuperare l’amica dopo cena, un po’ perché sennò quella restava sola, un po’ perché non era scontato il voler far succedere qualcosa immediatamente, con uno conosciuto il giorno prima. All’alba, nelle stanzette affittate in extremis sui tetti, posto letto senza acqua calda, nugoli di amiche viaggiatrici si raccontavano la prima quasi-notte con quello della cena, in spiaggia ad aspettare il sorgere del sole. C’era chi faceva l’amore per la prima volta, chi non lo faceva per niente, chi aveva avuto un primo ragazzo in città, alla vigilia della partenza, e non pensava che a lui. I ragazzi dicevano “hello” appena passava una ragazza con i tacchi, ma poi bisognava ingegnarsi per abbordarla in modo da non apparire bisonti. Non era detto che il fare l’amore fosse la tappa finale, e tutto quello che arrivava era una specie di lotteria vinta. C’erano quelli che ci provavano subito, scansati come la peste, quelli troppo timidi, tollerati come un male necessario, e quelli che ci sapevano fare e si divertivano a mettere in piedi una bella serata. E a vedere, oggi, le orde di quattordici-quindicenni che non vedono l’ora di dirsi “non vergini” per togliersi il peso e poi “scopare a ripetizione senza capire perché e con chi” (per dirla con le parole del sedicenne Mattia, quello che si chiede anche “che adulti saranno?”), a molti ex adolescenti degli anni Ottanta-Novanta viene da dire “peccato”. Peccato che ben pochi ragazzi abbiano voglia di inventarsi una bella serata. Peccato che ben poche ragazze se la aspettino.
Camilla, in modo ancor più “marziano” di Maria, frequenta un ragazzo da un po’ ma non è ancora successo niente. Si vedono, vanno in centro con gli amici a bere una birra, chiacchierano e hanno capito di piacersi. Camilla dice: “Cerco di conoscerlo meglio prima di lasciarmi andare. E non è perché sono religiosa, cioè sono religiosa ma non bigotta, al sesso fatto solo dopo il matrimonio non so se ci credo. Voglio solo che la ragione mi aiuti a capire chi ho davanti, prima che l’emozione mi faccia prendere una cantonata per uno che magari neanche mi piace fino in fondo. Non voglio avere una storia in cui mi prendo in giro”. Camilla dice “che non ci sono più i genitori di una volta” e che “bisogna saper decidere da soli che cosa è giusto fare”. Giulio è “preoccupato” quando sente di “ragazzine quattordicenni che, per fare le maliarde, appena escono con uno gli dicono: ‘Tiralo fuori, fammi vedere’”. Ragazze che “orecchiano dalle amiche qualcosa sul sesso e lo mettono in pratica per sentirsi accettate, e giudicano sfigati quelli timidi”. Giulio ora vuole “una con cui andare d’accordo, oltre alla passione fisica”. Un paio di anni fa non era così, dice. Racconta di aver “quasi distrutto una famiglia” per aver “portato a letto due cugine, nel paese dove andavo in vacanza in Sicilia con i miei. Mi divertivo a tenere in braccio una e a mandare i bacetti all’altra, e quando sono stato con l’altra facevo il contrario. Ho fatto soffrire tutte e due. Con la prima sono stato la notte di Ferragosto, ma il giorno dopo già pensavo a sua cugina e l’ho lasciata. Un pomeriggio sua cugina mi ha accompagnato a casa dopo una partita di calcetto. Ho fatto la doccia, e dopo lei era ancora lì. L’ho fatta salire in camera e ci sono stato. Adesso non lo farei. Non mi rendevo conto”.
Angelo ha diciotto anni, ha avuto una ragazza. Ma si sentiva a disagio, “c’era qualcosa che non quadrava”. Dice di aver “scoperto di essere gay”. Non vuole “andare per locali e seguire uno a caso nel bagno”. Vorrebbe “un ragazzo a cui telefonare la sera, non uno per una notte e basta. Uno con cui andare al cinema o fare un viaggio”. Federico, diciassette anni, non ne può più degli amici con cui esce: “Devono per forza trattare male le ragazze, portarsele a letto e poi cancellarle, farle piangere dicendo ‘non ti amo e neanche mi piaci tanto’, farle innamorare e poi buttarle via. Secondo me hanno paura di fare qualche errore e di perdere una persona a cui vogliono bene, oppure non vogliono arrivare a vedere che cosa succede quando fai l’amore sempre con la stessa ragazza, quella con cui vai anche a fare una passeggiata”.
Adele ha ottantasette anni. Si considera “moderna” ma dice che, a guardare “i quindici-sedicenni di oggi che hanno già fatto tutto”, le viene in mente suo marito Giuseppe. Giuseppe, nei primi mesi di matrimonio, la prendeva in giro: “Calma, non puoi consumare la passione tutta in una volta”. Adele dice che oggi nessuno “si concede il lusso di una passione vissuta giorno per giorno, con una persona. Non è detto che, come una volta, debba essere l’unica persona per tutta la vita, ma quello che vedo mi sembra triste”. Adele ha conosciuto Giuseppe a sedici anni. Lui ci ha messo un anno a dichiararsi. Lei aveva il batticuore ogni volta che lo vedeva alle prove dell’operetta, e faceva finta di svenire sul palco della compagnia del paese, dove entrambi recitavano per diletto. Tutti avevano capito che Giuseppe voleva chiedere la mano di Adele, ma Adele si sentiva insicura perché lui già aveva avuto qualche donna.
Un giorno Giuseppe ha lasciato un guanto a casa di Adele, dove andava a trovarla per il té, in presenza dei genitori di lei. Come nei libri che Adele leggeva con sua sorella, innamorata di un marinaio, ogni volta Giuseppe diceva “sono venuto a riprendere il guanto” e ogni volta lo lasciava lì. L’ultima volta Giuseppe ha chiesto al padre di Adele se poteva sposarla. Come il giovane Mattia, Adele si chiede che adulti saranno gli adolescenti che oggi “con gli occhi vuoti, vivono il sesso come una tessera di accumulo-punti”. Li vede “girare nel nulla” e si chiede che cosa succederà quando un giorno si troveranno faccia a faccia con “un se stesso che non conoscono”.
I loro professori si domandano se sia giusto o sbagliato che da settembre, nelle scuole di Roma, vengano installati distributori di preservativi e se sia giusto o sbagliato che in quelle di Milano, con moto contrario, vengano eliminate, per i minori di sedici anni, le lezioni di educazione sessuale della Asl, giudicate troppo “crude” da alcuni genitori e insegnanti. I marziani intanto osservano da fuori se stessi e i destinatari di questi provvedimenti. Chiedono attenzione e parole per chi “non capisce”. Mattia, sedici anni, non sa “che adulti saranno quelli che alla mia età non capiscono neanche perché stanno ogni sabato con uno o una diversa, in dieci minuti, senza provare niente o soffocando quello che provano per non essere scaricati”.
Roberto, sedici anni anche lui, soffre “come un cane” per una ragazza che l’ha lasciato. Non ha voglia di guardarne altre, ora, mentre con gli amici va nei parchi di notte, nell’estate un po’ noiosa della sua città, nell’afa del nord-est. Si sente diverso da quelli “sempre insoddisfatti che pensano di stare meglio cercando una donna nuova ogni giorno, in giro e su Internet”. Si sente diverso pure dalla sua migliore amica, “che cambia un ragazzo a settimana, e dice ‘voglio il principe azzurro’ ma poi non lo cerca”. Alla fine Roberto sospira: “Sarà che i maschi tendono ad attaccarsi”. Alberto, invece, riusciva ad avvicinare le ragazze soltanto nel paesino sull’Adriatico dove andava con i suoi in agosto, “perché lì si creava una condizione in cui si parlava senza tirarsela”. Con una delle sedicenni “che non se la tiravano” ha avuto la sua prima esperienza. Sua madre si era accorta che quell’estate il figlio “aveva successo con le donne” e gli diceva: “Ricordati che non esiste solo il sesso”. Lui pensava “una cosa è l’amore, un’altra è il sesso”. Oggi vorrebbe “una con cui poter anche parlare, possibilmente”.
Maria ha sedici anni e conta i tredici mesi passati con il suo ragazzo. Trova “deprimente per le donne” l’andare a letto “ossessivamente” con chiunque e dovunque. Quando ha conosciuto il ragazzo, Maria era “in un periodo di passaggio”. “Lui, un po’ più grande di me, faceva politica nella scuola che ho cambiato dopo la bocciatura che mi ha fatta stare malissimo. La mia prima storia era finita. Ed era finito anche il periodo in cui mi sentivo single e provavo a uscire con qualcuno. Ci siamo messi insieme e siamo ancora insieme”.
Maria vuole tenere i piani separati: amici di qua, lui di là. “Con gli amici mi comporto in modo diverso che con lui, forse più scherzoso. Ho sedici anni e voglio crescere anche come persona, a parte la coppia”. Dalle sue amiche Maria ha sentito raccontare esperienze di due tipi: la storia estiva, “da non rimpiangere ma finita lì”, e la storia più lunga con il primo con cui hanno fatto l’amore. A scuola, invece, e nelle piazze del suo quartiere, al capolinea del metrò di Milano, Maria ne ha viste e sentite tante, di “ragazze che a quattordici anni fanno sesso con uno per moda. Non usano precauzioni. Sanno che esiste la pillola, il cerotto, ma non vanno al consultorio. E non c’è questo grande uso del preservativo”. Secondo Maria chi, a quindici anni, ha una vita sessuale “confusa”, e magari “per farsi coraggio si porta la bottiglia di vodka da casa e la scola tutta prima di entrare in un locale, così risparmia pure”, lo fa “per ribellione verso i genitori”. O “perché non sa che cosa fare e magari nessuno in casa ha mai parlato davvero con lei o con lui, né ha mai detto ‘leggi questo libro’”. Quest’estate Maria andrà qualche giorno in una città straniera con il ragazzo, pagandosi la vacanza con un lavoretto fatto per sua madre.
Adriana è medico ginecologo. Non sarebbe d’accordo con Sara sulla questione “dialogo in casa”. Secondo Adriana non è che in casa non si parla, ma in generale si parla “male”, scambiando la confidenza per la presenza. Adriana è “arrabbiata con le madri” che portano le figlie di tredici-quattordici anni in ambulatorio per poter dire “così non ci pensiamo più”: “Le prescriva la pillola così siamo più tranquilli, mi dicono. Come fossero gatte che si portano dal veterinario per farle sterilizzare. Dicono anche ‘tanto mi racconta tutto’, ‘tanto c’è un buon rapporto’. Le mamme si fanno raccontare tutto, ma forse perché sono nostalgiche del loro passato. O forse si fa fatica a insegnare un minimo di cultura degli affetti. Venisse una ragazzina a chiedermi la pillola perché pervasa da una passione, sarei anche contenta, sarebbe evidente il suo desiderio. Ma di ragazzine travolte da passione non ne ho viste”.
Chi aveva l’età di Sara tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta non poteva tanto facilmente partire con il ragazzo o la ragazza, e avere una vita “adulta” da adolescente. Doveva magari passare dalla trafila delle vacanze studio in Inghilterra, prima, e delle vacanze della maturità con gli amici, poi. Durante le vacanze studio era praticamente impossibile che un adolescente facesse l’amore con qualcuno, ammesso che davvero ci pensasse e non lo dicesse solo per darsi le arie – “stasera mi faccio quella”. La sorveglianza era strettissima: ragazzi in un’ala del college, ragazze nell’altra. Si facevano fulminee corse nel buio, con i cartoni di pizza gommosa in mano, per raggiungere l’altra ala prima che il vigilante di turno si accorgesse dei transfughi, ma la trasgressione consisteva nel fumare sigarette, chiacchierare fino alle tre di notte abbracciati, al massimo appartarsi per qualche bacio sotto un albero, nel gelo dell’estate britannica. Si vociferava, a volte, di qualche spagnolo temerario che “aveva dormito con la francese” o di qualche ammiratissima svedese “che era andata di sopra con il tedesco”, ma erano notizie talmente rare da sembrare leggende metropolitane. I più erano ancora in fase “primo bacio” oppure, ingolfati di hamburger e patatine, erano paghi dei giochi elettronici e delle prime manie musicali. Durante il viaggio di maturità le “prime volte” erano frequenti, ma i ragazzi e le ragazze erano (in media) più grandi e, a diciotto o diciannove anni, ormai più attrezzati psicologicamente. Molti sognavano e non realizzavano l’accumulo di conquiste, molti aspiravano a un generico amore estivo che potesse rendere meno angosciante l’inverno desiderato e terribile del passaggio dalla scuola al “nulla”: l’università o il lavoro, questi sconosciuti. Le isole greche parevano luna park con traghetti pieni di olandesi biondissimi e tedesche bellissime, e le mandrie di soli maschi cercavano i gruppi di ragazze sole con cui creare coppie: a te piace quella, a me l’altra, abbordiamole in spiaggia per stasera.
Parevano mirabilia le prime cene “da grandi”, a lume di candela sul porticciolo, con il ragazzo che versava il vino, bevanda fino ad allora schifata come una medicina. In assenza di cellulari, ci si augurava che il vino non ottundesse il barlume di lucidità rimasto per andare a recuperare l’amica dopo cena, un po’ perché sennò quella restava sola, un po’ perché non era scontato il voler far succedere qualcosa immediatamente, con uno conosciuto il giorno prima. All’alba, nelle stanzette affittate in extremis sui tetti, posto letto senza acqua calda, nugoli di amiche viaggiatrici si raccontavano la prima quasi-notte con quello della cena, in spiaggia ad aspettare il sorgere del sole. C’era chi faceva l’amore per la prima volta, chi non lo faceva per niente, chi aveva avuto un primo ragazzo in città, alla vigilia della partenza, e non pensava che a lui. I ragazzi dicevano “hello” appena passava una ragazza con i tacchi, ma poi bisognava ingegnarsi per abbordarla in modo da non apparire bisonti. Non era detto che il fare l’amore fosse la tappa finale, e tutto quello che arrivava era una specie di lotteria vinta. C’erano quelli che ci provavano subito, scansati come la peste, quelli troppo timidi, tollerati come un male necessario, e quelli che ci sapevano fare e si divertivano a mettere in piedi una bella serata. E a vedere, oggi, le orde di quattordici-quindicenni che non vedono l’ora di dirsi “non vergini” per togliersi il peso e poi “scopare a ripetizione senza capire perché e con chi” (per dirla con le parole del sedicenne Mattia, quello che si chiede anche “che adulti saranno?”), a molti ex adolescenti degli anni Ottanta-Novanta viene da dire “peccato”. Peccato che ben pochi ragazzi abbiano voglia di inventarsi una bella serata. Peccato che ben poche ragazze se la aspettino.
Camilla, in modo ancor più “marziano” di Maria, frequenta un ragazzo da un po’ ma non è ancora successo niente. Si vedono, vanno in centro con gli amici a bere una birra, chiacchierano e hanno capito di piacersi. Camilla dice: “Cerco di conoscerlo meglio prima di lasciarmi andare. E non è perché sono religiosa, cioè sono religiosa ma non bigotta, al sesso fatto solo dopo il matrimonio non so se ci credo. Voglio solo che la ragione mi aiuti a capire chi ho davanti, prima che l’emozione mi faccia prendere una cantonata per uno che magari neanche mi piace fino in fondo. Non voglio avere una storia in cui mi prendo in giro”. Camilla dice “che non ci sono più i genitori di una volta” e che “bisogna saper decidere da soli che cosa è giusto fare”. Giulio è “preoccupato” quando sente di “ragazzine quattordicenni che, per fare le maliarde, appena escono con uno gli dicono: ‘Tiralo fuori, fammi vedere’”. Ragazze che “orecchiano dalle amiche qualcosa sul sesso e lo mettono in pratica per sentirsi accettate, e giudicano sfigati quelli timidi”. Giulio ora vuole “una con cui andare d’accordo, oltre alla passione fisica”. Un paio di anni fa non era così, dice. Racconta di aver “quasi distrutto una famiglia” per aver “portato a letto due cugine, nel paese dove andavo in vacanza in Sicilia con i miei. Mi divertivo a tenere in braccio una e a mandare i bacetti all’altra, e quando sono stato con l’altra facevo il contrario. Ho fatto soffrire tutte e due. Con la prima sono stato la notte di Ferragosto, ma il giorno dopo già pensavo a sua cugina e l’ho lasciata. Un pomeriggio sua cugina mi ha accompagnato a casa dopo una partita di calcetto. Ho fatto la doccia, e dopo lei era ancora lì. L’ho fatta salire in camera e ci sono stato. Adesso non lo farei. Non mi rendevo conto”.
Angelo ha diciotto anni, ha avuto una ragazza. Ma si sentiva a disagio, “c’era qualcosa che non quadrava”. Dice di aver “scoperto di essere gay”. Non vuole “andare per locali e seguire uno a caso nel bagno”. Vorrebbe “un ragazzo a cui telefonare la sera, non uno per una notte e basta. Uno con cui andare al cinema o fare un viaggio”. Federico, diciassette anni, non ne può più degli amici con cui esce: “Devono per forza trattare male le ragazze, portarsele a letto e poi cancellarle, farle piangere dicendo ‘non ti amo e neanche mi piaci tanto’, farle innamorare e poi buttarle via. Secondo me hanno paura di fare qualche errore e di perdere una persona a cui vogliono bene, oppure non vogliono arrivare a vedere che cosa succede quando fai l’amore sempre con la stessa ragazza, quella con cui vai anche a fare una passeggiata”.
Adele ha ottantasette anni. Si considera “moderna” ma dice che, a guardare “i quindici-sedicenni di oggi che hanno già fatto tutto”, le viene in mente suo marito Giuseppe. Giuseppe, nei primi mesi di matrimonio, la prendeva in giro: “Calma, non puoi consumare la passione tutta in una volta”. Adele dice che oggi nessuno “si concede il lusso di una passione vissuta giorno per giorno, con una persona. Non è detto che, come una volta, debba essere l’unica persona per tutta la vita, ma quello che vedo mi sembra triste”. Adele ha conosciuto Giuseppe a sedici anni. Lui ci ha messo un anno a dichiararsi. Lei aveva il batticuore ogni volta che lo vedeva alle prove dell’operetta, e faceva finta di svenire sul palco della compagnia del paese, dove entrambi recitavano per diletto. Tutti avevano capito che Giuseppe voleva chiedere la mano di Adele, ma Adele si sentiva insicura perché lui già aveva avuto qualche donna.
Un giorno Giuseppe ha lasciato un guanto a casa di Adele, dove andava a trovarla per il té, in presenza dei genitori di lei. Come nei libri che Adele leggeva con sua sorella, innamorata di un marinaio, ogni volta Giuseppe diceva “sono venuto a riprendere il guanto” e ogni volta lo lasciava lì. L’ultima volta Giuseppe ha chiesto al padre di Adele se poteva sposarla. Come il giovane Mattia, Adele si chiede che adulti saranno gli adolescenti che oggi “con gli occhi vuoti, vivono il sesso come una tessera di accumulo-punti”. Li vede “girare nel nulla” e si chiede che cosa succederà quando un giorno si troveranno faccia a faccia con “un se stesso che non conoscono”.
"Il Foglio" del 13 luglio 2009
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