di Alessandro Zaccuri
Nel web 2.0 dei vecchi Book Bürners non rimane più traccia. Alla metà degli anni Novanta, però, avevano il loro bravo sito, fondale nero e tutte le 'u' con la Umlaut, in perfetto stile 'nazisti dell’Illinois'. Della California, anzi, perché l’idea era venuta a un drappello di goliardi fra Los Angeles e dintorni. Si davano appuntamento davanti a un braciere da barbecue e lì ardevano i libri sgraditi.
Best seller ultracommerciali e obbligatorie letture scolastiche, di preferenza. Ci tenevano a precisare che la prima vittima di questi falò consumati in camiciola hawaiana era stato Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, e cioè il romanzo che più di ogni altro mette in guardia contro la pratica di bruciare libri.
La trovata sarà anche parsa divertente, ma per la cronaca di quegli anni la distruzione dei libri era un argomento tutt’altro che umoristico. Il 14 febbraio 1989 c’era stata la fatwah dell’ayatollah Khomeini contro I versi satanici di Salman Rushdie, con conseguente pubblica combustione di intere tirature del romanzo in numerosi Paesi islamici. Il 25 agosto del 1992, poi, le milizie serbe avevano preso d’assalto la Biblioteca nazionale di Sarajevo: l’azione, protrattasi per tre giorni, aveva portato alla distruzione di quasi due milioni tra volumi, manoscritti e materiali d’archivio. A rendere ancora più drammatica la situazione interveniva la circostanza segnalata dal sociologo della letteratura Leo Löwenthal nella sua celebre conferenza sui «libri di Calibano» (il riferimento è al passo della Tempesta shakespeariana in cui il selvaggio progetta di distruggere i codici di Prospero, così da privare il mago dei suoi poteri): i roghi di libri non hanno storia, non producono bibliografia, sono una questione troppo imbarazzante per essere affrontata in modo compiuto.
L’intervento di Löwenthal era del 1983, cinquantesimo anniversario della distruzione delle opere di «letteratura degenerata» organizzata dal ministro della Propaganda nazista, Joseph Goebbels, il 10 maggio 1933 nella Opernplatz di Berlino e in molte altre città tedesche. Si tratta del più noto ed emblematico tra i roghi susseguitisi nella modernità, inutilmente messo in parodia dai Book Bürners californiani e adesso ricostruito dal critico tedesco Volker Weidermann in Das Buch der verbrannten Bücher («Il libro dei libri bruciati», edito a Colonia da Kiepenheuer & Witsch). Tra i molti meriti della ricerca di Weidermann spicca l’aver individuato l’estensore dell’elenco in base al quale furono scelti i volumi da distruggere: si chiamava Wolfgang Hermann, aveva 25 anni ed era convinto di poter infondere nella professione di bibliotecario tutto lo zelo derivante dalle sue convinzioni nazionalsocialiste. Poco dopo il 10 maggio, però, lo stesso Hermann fu messo sotto accusa per una recensione non esattamente entusiastica del Mein Kampf hitleriano. Arruolatosi nella Wehrmacht, morì in combattimento nel 1945. Come lui, quasi tutti gli autori mandati al rogo nel 1933 non sopravvissero alla Seconda guerra mondiale. Erano 131 in tutto, meno della metà ebrei. Fra di loro figurava perfino qualche simpatizzante del Terzo Reich. Molti dei titoli condannati dal nazismo, osserva Weidermann, furono successivamente messi al bando nella Repubblica democratica tedesca.
Opposti estremisti, dunque. E identiche persecuzioni.
«Sotto Beria, i roghi dei libri avvenivano regolarmente e senza alcuna pubblicità», ricordava lo scrittore russo Varlam Šalamov, che con i Racconti della Kolyma ha fornito una delle più intense testimonianze sugli orrori dello stalinismo. Ancora diffuso negli anni Duemila (si pensi al saccheggio di cui sono state oggetto nel 2003 la Biblioteca nazionale irachena e la Biblioteca islamica di Baghdad, ma anche alle notizie più recenti, che riferiscono della selettiva macerazione di molte opere «controrivoluzionarie» nel Venezuela del presidente Chávez), l’accanimento contro la pagina scritta non è un’invenzione del Secolo Breve.
Lo sapevamo già, ma possiamo dirlo con certezza ora che l’auspicio di Löwenthal ha trovato realizzazione. Duplice realizzazione, sarebbe meglio dire, perché nel medesimo anno, il 2004, sono stati pubblicati Libri al rogo del francese Lucien X. Polastron (l’edizione italiana è uscita da Sylvestre Bonnard nel 2006) e la Storia universale della distruzione dei libri del venezuelano Fernando Báez (la traduzione è apparsa da Viella nel 2007). Entrambe le opere prendono in esame gli episodi più conosciuti, come la complessa vicenda della Biblioteca di Alessandria – ricostruita qui a fianco da Franco Cardini – o l’eliminazione degli scritti di Confucio ordinata attorno al 220 a.C. dall’imperatore cinese Shi Huangdi, costruttore della Grande Muraglia. Ed entrambi gli studiosi non nascondono la rilevanza che la distruzione di testi teologici ha rivestito nei primi secoli della storia della Chiesa, durante l’Inquisizione e nel pieno della Riforma, quando gli stessi protestanti non disdegnavano di mandare al rogo le opere «papiste».
Báez è forse più attento alla contemporaneità e si spinge a registrare le pire in cui sono finite centinaia di copie dei romanzi di Harry Potter. L’iniziativa, in questo caso, è stata presa da alcune congregazioni fondamentaliste statunitensi che, basandosi su un’interpretazione letterale del capitolo 19 degli Atti degli Apostoli (i convertiti gettano nel rogo le raccolte di incantesimi pagani), pretendono di accreditare come «autenticamente cristiana» la pratica del book burning . Polastron, da parte sua, dimostra un atteggiamento più smaliziatamente letterario quando passa in rassegna le esortazioni alla biblioclastia (è il termine tecnico per la distruzione dei libri) pronunciate da molti intellettuali insospettabili, primo fra tutti l’illuminista Louis Sébastian Mercier, che nell’utopico L’Anno 2440 immagina una Parigi in cui si leggono soltanto i classici. Per il resto c’è il fuoco, appunto. Qualcosa, tuttavia, sfugge sia a Báez sia a Polastron. Per esempio che la prima raccolta parigina di testi in Braille, allestita dallo stesso inventore agli inizi dell’Ottocento, fu data alle fiamme nel timore che i ciechi potessero sviluppare un’eccessiva indipendenza.
Ma la storia dei roghi continua, purtroppo. Nello stesso 2004 in cui vengono pubblicati gli studi di Polastron e Báez, a Weimar un incendio distrugge la biblioteca della duchessa Anna Amalia, di cui fu direttore Goethe. E poi ci sono gli episodi in apparenza minori, che però ci ricordano come, secondo la profezia di Heinrich Heine, bruciare un libro somigli a uccidere una persona. Siamo a Erba, in provincia di Como, la sera dell’11 dicembre 2006. La sera della strage. Gli assassini ammazzano tre donne e un bambino e, per cancellare ogni indizio, appiccano il fuoco a una pila di libri trovati nella casa delle vittime. Non è il rogo di Alessandria, ma anche questa è la fine di un mondo.
Best seller ultracommerciali e obbligatorie letture scolastiche, di preferenza. Ci tenevano a precisare che la prima vittima di questi falò consumati in camiciola hawaiana era stato Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, e cioè il romanzo che più di ogni altro mette in guardia contro la pratica di bruciare libri.
La trovata sarà anche parsa divertente, ma per la cronaca di quegli anni la distruzione dei libri era un argomento tutt’altro che umoristico. Il 14 febbraio 1989 c’era stata la fatwah dell’ayatollah Khomeini contro I versi satanici di Salman Rushdie, con conseguente pubblica combustione di intere tirature del romanzo in numerosi Paesi islamici. Il 25 agosto del 1992, poi, le milizie serbe avevano preso d’assalto la Biblioteca nazionale di Sarajevo: l’azione, protrattasi per tre giorni, aveva portato alla distruzione di quasi due milioni tra volumi, manoscritti e materiali d’archivio. A rendere ancora più drammatica la situazione interveniva la circostanza segnalata dal sociologo della letteratura Leo Löwenthal nella sua celebre conferenza sui «libri di Calibano» (il riferimento è al passo della Tempesta shakespeariana in cui il selvaggio progetta di distruggere i codici di Prospero, così da privare il mago dei suoi poteri): i roghi di libri non hanno storia, non producono bibliografia, sono una questione troppo imbarazzante per essere affrontata in modo compiuto.
L’intervento di Löwenthal era del 1983, cinquantesimo anniversario della distruzione delle opere di «letteratura degenerata» organizzata dal ministro della Propaganda nazista, Joseph Goebbels, il 10 maggio 1933 nella Opernplatz di Berlino e in molte altre città tedesche. Si tratta del più noto ed emblematico tra i roghi susseguitisi nella modernità, inutilmente messo in parodia dai Book Bürners californiani e adesso ricostruito dal critico tedesco Volker Weidermann in Das Buch der verbrannten Bücher («Il libro dei libri bruciati», edito a Colonia da Kiepenheuer & Witsch). Tra i molti meriti della ricerca di Weidermann spicca l’aver individuato l’estensore dell’elenco in base al quale furono scelti i volumi da distruggere: si chiamava Wolfgang Hermann, aveva 25 anni ed era convinto di poter infondere nella professione di bibliotecario tutto lo zelo derivante dalle sue convinzioni nazionalsocialiste. Poco dopo il 10 maggio, però, lo stesso Hermann fu messo sotto accusa per una recensione non esattamente entusiastica del Mein Kampf hitleriano. Arruolatosi nella Wehrmacht, morì in combattimento nel 1945. Come lui, quasi tutti gli autori mandati al rogo nel 1933 non sopravvissero alla Seconda guerra mondiale. Erano 131 in tutto, meno della metà ebrei. Fra di loro figurava perfino qualche simpatizzante del Terzo Reich. Molti dei titoli condannati dal nazismo, osserva Weidermann, furono successivamente messi al bando nella Repubblica democratica tedesca.
Opposti estremisti, dunque. E identiche persecuzioni.
«Sotto Beria, i roghi dei libri avvenivano regolarmente e senza alcuna pubblicità», ricordava lo scrittore russo Varlam Šalamov, che con i Racconti della Kolyma ha fornito una delle più intense testimonianze sugli orrori dello stalinismo. Ancora diffuso negli anni Duemila (si pensi al saccheggio di cui sono state oggetto nel 2003 la Biblioteca nazionale irachena e la Biblioteca islamica di Baghdad, ma anche alle notizie più recenti, che riferiscono della selettiva macerazione di molte opere «controrivoluzionarie» nel Venezuela del presidente Chávez), l’accanimento contro la pagina scritta non è un’invenzione del Secolo Breve.
Lo sapevamo già, ma possiamo dirlo con certezza ora che l’auspicio di Löwenthal ha trovato realizzazione. Duplice realizzazione, sarebbe meglio dire, perché nel medesimo anno, il 2004, sono stati pubblicati Libri al rogo del francese Lucien X. Polastron (l’edizione italiana è uscita da Sylvestre Bonnard nel 2006) e la Storia universale della distruzione dei libri del venezuelano Fernando Báez (la traduzione è apparsa da Viella nel 2007). Entrambe le opere prendono in esame gli episodi più conosciuti, come la complessa vicenda della Biblioteca di Alessandria – ricostruita qui a fianco da Franco Cardini – o l’eliminazione degli scritti di Confucio ordinata attorno al 220 a.C. dall’imperatore cinese Shi Huangdi, costruttore della Grande Muraglia. Ed entrambi gli studiosi non nascondono la rilevanza che la distruzione di testi teologici ha rivestito nei primi secoli della storia della Chiesa, durante l’Inquisizione e nel pieno della Riforma, quando gli stessi protestanti non disdegnavano di mandare al rogo le opere «papiste».
Báez è forse più attento alla contemporaneità e si spinge a registrare le pire in cui sono finite centinaia di copie dei romanzi di Harry Potter. L’iniziativa, in questo caso, è stata presa da alcune congregazioni fondamentaliste statunitensi che, basandosi su un’interpretazione letterale del capitolo 19 degli Atti degli Apostoli (i convertiti gettano nel rogo le raccolte di incantesimi pagani), pretendono di accreditare come «autenticamente cristiana» la pratica del book burning . Polastron, da parte sua, dimostra un atteggiamento più smaliziatamente letterario quando passa in rassegna le esortazioni alla biblioclastia (è il termine tecnico per la distruzione dei libri) pronunciate da molti intellettuali insospettabili, primo fra tutti l’illuminista Louis Sébastian Mercier, che nell’utopico L’Anno 2440 immagina una Parigi in cui si leggono soltanto i classici. Per il resto c’è il fuoco, appunto. Qualcosa, tuttavia, sfugge sia a Báez sia a Polastron. Per esempio che la prima raccolta parigina di testi in Braille, allestita dallo stesso inventore agli inizi dell’Ottocento, fu data alle fiamme nel timore che i ciechi potessero sviluppare un’eccessiva indipendenza.
Ma la storia dei roghi continua, purtroppo. Nello stesso 2004 in cui vengono pubblicati gli studi di Polastron e Báez, a Weimar un incendio distrugge la biblioteca della duchessa Anna Amalia, di cui fu direttore Goethe. E poi ci sono gli episodi in apparenza minori, che però ci ricordano come, secondo la profezia di Heinrich Heine, bruciare un libro somigli a uccidere una persona. Siamo a Erba, in provincia di Como, la sera dell’11 dicembre 2006. La sera della strage. Gli assassini ammazzano tre donne e un bambino e, per cancellare ogni indizio, appiccano il fuoco a una pila di libri trovati nella casa delle vittime. Non è il rogo di Alessandria, ma anche questa è la fine di un mondo.
"Avvenire" del 26 luglio 2009
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