La proposta di estendere la legalizzazionwe anche ai minori e ai malati mentali
di Carlo Cardia
Dal Belgio si annunciano, dunque, altri piccoli grandi passi verso la cultura della morte. Per quanti sono colpiti da malattie mentali si propone che, o per volontà espressa precedentemente, o per volontà di altri (familiari, medici) venga disposta la soppressione fisica. Qualcosa del genere già avviene in Olanda, e la voglia di adeguarsi si estende. Non v’è pietà per i deboli e i malati, non v’è misericordia nel venir loro incontro, non ci saranno lacrime per le loro sofferenze. Trionfa il desiderio di liberare la società della loro presenza, con la scusa che la decisione di morte per il malato mentale è presa per il suo bene. Si supera così un’altra soglia di quell’abbandono di umanità che sta avvelenando la nostra epoca, e si raggiunge un altro traguardo di un egoismo che può essere senza fine. Dietro quelle proposte si afferma, ormai senza ritegno, che vogliamo attorno a noi persone sane, che stiano bene, che non soffrano troppo, perché la malattia, la sofferenza, il patimento, disturbano, ci impegnano oltre misura, ci pongono problemi esistenziali che non vogliamo avere. C’è da sperare che qualcuno non torni a dirci che una legge del genere non obbligherebbe nessuno a praticare l’eutanasia, ma legittimerebbe soltanto coloro che liberamente vogliono porre fine alle sofferenze del malato mentale, e che quindi per motivi di laicità andrebbe accettata. C’è da sperare che non venga mai usato questo argomento perché da strumento di libertà la laicità verrebbe degradata a strumento di morte, e conoscerebbe la fine. C’è gran polemica in Belgio se dietro la proposta di legge vi sia una mentalità nazista, ed è una polemica sempre sgradevole. È vero che i medici del Reich giustificavano i loro provvedimenti di morte proprio sulla 'volontà di un tempo' dei malati e sul fatto che «se il malato fosse consapevole dello stato in cui si trova, chiederebbe egli stesso di abbreviarne la durata». Ma, francamente, la ripulsa verso il nazismo non è l’unica motivazione per respingere l’idea che si fa avanti in Belgio, anche perché si troverà sempre qualche cavillo per sostenere che ciò che si propone non è la riedizione del programma di eutanasia deciso con Biglietto autografo di Hitler del 1 settembre 1939. La ragione più vera che ripudia queste proposte è connaturata nel nostro essere uomini, chiamati a vivere insieme e soccorrerci reciprocamente. Essa sta in quella profondità dell’animo che ci dice di non essere mai causa di violenza, o di morte, verso il nostro simile, che ci spinge ad amare gli altri ancor più quando soffrono, e che sta all’origine di tanti eroismi compiuti da uomini e donne per salvare altri uomini e donne, così come sono non come vorremmo che fossero. San Paolo e altri apostoli cambiarono i costumi degli antichi che alla vita non davano grande valore, che respingevano o sopprimevano gli infermi o i malati di mente, che partecipavano e gioivano nel vedere uomini che si combattevano e si davano la morte reciprocamente. Quella svolta fu possibile perché Gesù aveva proposto il rovesciamento della mentalità dell’epoca, aveva chiesto di sostituire alla violenza l’amore, alla sopraffazione la misericordia, all’egoismo il sacrificio di sé. Furono poste lì le basi di quell’umanesimo che piano piano nella storia ha prodotto libertà, solidarietà per i più deboli, accoglienza per i bisognosi, impegno contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. È questo, quindi, il salto indietro nella storia e nelle idealità più grandi che la progettata eutanasia fa compiere a tutti noi. Si selezionano le persone per ciò che valgono agli occhi degli altri, non per ciò che sono in sé, e si subordina il loro diritto ad esistere a tante condizioni, a quanti giorni di vita hanno, alle loro malattie, alla loro sanità di mente, a quanto gravano sulla società, e via di seguito. Si dovrà presto fare un nuovo elenco degli ultimi della terra, di coloro che non hanno voce, non hanno salute, non hanno capacità di difesa, e che per ciò stesso rischiano di essere ignorati, emarginati, forse eliminati. È un elenco che già oggi parla alla nostra coscienza e ci indica l’utopia più grande che possiamo contrapporre alla cultura della morte, l’utopia predicata dalla religione dell’amore, dell’aiuto e del sostegno agli altri, del gioie e patire con loro per una vita fatta di tante cose. È un’utopia più ricca di buon senso e di realismo di tanti progetti che sviliscono l’essere umano.
«Avvenire» del 25 maggio 2008
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