Un inedito di Marta Sordi smonta un radicato luogo comune: non è vero che a voler imporre i propri dogmi sono solo i monoteismi
di Marta Sordi
Nel mondo antico l’intolleranza religiosa non è esclusa, contrariamente a quello che spesso si afferma, neppure nel politeismo pagano, ed è presente in molti casi anche nelle democrazie: nonostante l’assenza di un concetto di ortodossia, il mondo greco e romano ha conosciuto i processi per empietà come quelli celebrati nella democratica Atene contro Anassagora nel V secolo e contro Socrate nel 399 a. C., con l’accusa « di non credere agli dei » della tradizione patria, come a Roma nella questione dei baccanali del 186 a. C. e nell’editto contro i manichei del 297 d. C., in cui afferma che « maximi criminis est retractare quae semel ab antiquis statuta et definita suum cursum tenent ac possident » . Nel V secolo a. C.
come nel II e nel III d. C., criterio sicuro di ortodossia è l’antichità della tradizione, la scelta dei maiores . A Roma, però, la convinzione caratteristica dell’età arcaica, ma rinata nel tardoantico, che la salvezza dello Stato dipende dall’alleanza con la divinità, dalla pax deorum, se, da una parte, contribuisce al nascere dell’intolleranza e della persecuzione religiosa, dall’altra, per il vivo senso del diritto che i Romani portano anche nella religione, conduce alla scoperta del principio della libertà religiosa: già nella vicenda dei baccanali, il senatoconsulto, che dette ai consoli l’ordine di distruggere in tutta l’Italia ( e non solo a Roma) omnia Bacchanalia si preoccupò di fare eccezione non solo per gli altari e le statue antiche, ma anche, per il presente, per gli scrupoli di chi « tale sacrum sollemne et necessarium duceret, nec sine religione et piaculo se id omittere posset » , concedendo a tali persone di chiedere al pretore urbano il permesso di celebrare il culto con non più di cinque partecipanti, « ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris aliquid violemus » .
Il testo epigrafico della lettera ai consoli trovata a Tiriolo conferma pienamente Livio ed attesta che già nel II secolo a. C., nell’esercizio di una repressione particolarmente intollerante, i Romani riconoscevano alla coscienza individuale una sorta di libertà per non violare il diritto della divinità ad essere adorata. La preoccupazione di violare il divinum ius ( un’espressione che ritorna nel discorso con cui Tiberio, nel 25 d. C., rifiuta il culto imperiale e prega gli dei di concedergli « quietam et intelligentem humani divinique iuris mentem » ), ci riporta alla concezione tipicamente romana della pax deorum e riguarda innanzitutto lo Stato; ma la preoccupazione per gli scrupoli religiosi di chi è convinto, omettendo certi sacrifici, di non poterlo fare sine religione et piaculo, senza commettere cioè una colpa verso gli dei, rivela anche un’attenzione alla coscienza personale che merita piena considerazione. La libertà dell’atto religioso è sentita infatti dai Romani come la condizione intrinseca della validità dell’atto stesso: lo rivela la formula, arrestata già nell’arcaismo e diffusissima in età imperiale, che troviamo abbreviata nelle iscrizione poste per lo scioglimento di un voto: « votum solvit libens merito » o soltanto « libens merito » . L’apologetica cristiana fece appello più volte a questa concezione della libertà religiosa riconosciuta dai Romani: l’apologista Atenagora ricorda che è da loro concesso a tutti i popoli di onorare le loro divinità e Tertulliano osserva che « nemo se ab invito coli volet » , cosicché « adimere libertatem religionis et interdicere optionem divitatis ut non liceat mihi colere quem velim, sed cogar colere quem nolim » dovrebbe cadere sotto l’accusa di irreligiosità. E, più avanti, richiamandosi, nello stesso Apologetico, alle dediche epigrafiche di cui abbiamo parlato, osserva: « nam et alias divinae rei faciundae libens animus indicitur e, nell’Ad Scapulam cum et hostiae ab animo libenti expostulentur » .
Questa premessa è necessaria per intendere ciò che vi è di tradizionale e ciò che vi è di nuovo negli editti di Serdica ( 311 d. C.) e nel cosiddetto editto di Milano ( 313 d. C.) che posero fine alla persecuzione dei cristiani.
come nel II e nel III d. C., criterio sicuro di ortodossia è l’antichità della tradizione, la scelta dei maiores . A Roma, però, la convinzione caratteristica dell’età arcaica, ma rinata nel tardoantico, che la salvezza dello Stato dipende dall’alleanza con la divinità, dalla pax deorum, se, da una parte, contribuisce al nascere dell’intolleranza e della persecuzione religiosa, dall’altra, per il vivo senso del diritto che i Romani portano anche nella religione, conduce alla scoperta del principio della libertà religiosa: già nella vicenda dei baccanali, il senatoconsulto, che dette ai consoli l’ordine di distruggere in tutta l’Italia ( e non solo a Roma) omnia Bacchanalia si preoccupò di fare eccezione non solo per gli altari e le statue antiche, ma anche, per il presente, per gli scrupoli di chi « tale sacrum sollemne et necessarium duceret, nec sine religione et piaculo se id omittere posset » , concedendo a tali persone di chiedere al pretore urbano il permesso di celebrare il culto con non più di cinque partecipanti, « ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris aliquid violemus » .
Il testo epigrafico della lettera ai consoli trovata a Tiriolo conferma pienamente Livio ed attesta che già nel II secolo a. C., nell’esercizio di una repressione particolarmente intollerante, i Romani riconoscevano alla coscienza individuale una sorta di libertà per non violare il diritto della divinità ad essere adorata. La preoccupazione di violare il divinum ius ( un’espressione che ritorna nel discorso con cui Tiberio, nel 25 d. C., rifiuta il culto imperiale e prega gli dei di concedergli « quietam et intelligentem humani divinique iuris mentem » ), ci riporta alla concezione tipicamente romana della pax deorum e riguarda innanzitutto lo Stato; ma la preoccupazione per gli scrupoli religiosi di chi è convinto, omettendo certi sacrifici, di non poterlo fare sine religione et piaculo, senza commettere cioè una colpa verso gli dei, rivela anche un’attenzione alla coscienza personale che merita piena considerazione. La libertà dell’atto religioso è sentita infatti dai Romani come la condizione intrinseca della validità dell’atto stesso: lo rivela la formula, arrestata già nell’arcaismo e diffusissima in età imperiale, che troviamo abbreviata nelle iscrizione poste per lo scioglimento di un voto: « votum solvit libens merito » o soltanto « libens merito » . L’apologetica cristiana fece appello più volte a questa concezione della libertà religiosa riconosciuta dai Romani: l’apologista Atenagora ricorda che è da loro concesso a tutti i popoli di onorare le loro divinità e Tertulliano osserva che « nemo se ab invito coli volet » , cosicché « adimere libertatem religionis et interdicere optionem divitatis ut non liceat mihi colere quem velim, sed cogar colere quem nolim » dovrebbe cadere sotto l’accusa di irreligiosità. E, più avanti, richiamandosi, nello stesso Apologetico, alle dediche epigrafiche di cui abbiamo parlato, osserva: « nam et alias divinae rei faciundae libens animus indicitur e, nell’Ad Scapulam cum et hostiae ab animo libenti expostulentur » .
Questa premessa è necessaria per intendere ciò che vi è di tradizionale e ciò che vi è di nuovo negli editti di Serdica ( 311 d. C.) e nel cosiddetto editto di Milano ( 313 d. C.) che posero fine alla persecuzione dei cristiani.
«Avvenire» del 14 luglio 2009
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