Un film che sembra scritto da una Agatha Christie documentatasi alla Corte dei Miracoli. James Bond vestito da monaco che avanza imperturbabile in un magma sanguinolento. Un Medio Evo dai toni bui e improbabili. Perché i media non riescono a dare una rappresentazione convincente di uno dei periodi fondamentali della civilizzazione umana? Risponde la nota medievalista Régine Pernoud
di Régine Pernoud
È chiaro: il Medio Evo è stato un’epoca triste e nera, un’epoca di miseria e oscurantismo durante la quale la Chiesa terrorizzava le popolazioni per impedir loro di istruirsi. I malvagi monaci si disinteressavano dei problemi del popolo; fortunatamente c’erano eretici gentili che ne avevano pietà e protestavano. Ma l’inquisizione li braccava e li faceva morire sotto i supplizi, accanto a donne considerate tutte delle streghe.
Questo è anche quanto io stessa ho imparato da piccola, e il film «Il nome della rosa» non sorprenderà dunque affatto la gran maggioranza del pubblico.
Gli unici a rimanere sorpresi saranno invece i lettori del libro di Umberto Eco da cui il film ê tratto. Si può non essere d’accordo in tutto con le sue tesi un po’ avventurose che necessitano di una lettura tra le righe, con uno humor talvolta stridente, un’ironia più pepata che divertita, ma chiunque vi riconosce l’opera di un maestro erudito che conosce a fondo la vita di Ubertino da Casale o di Bernardo da Cluny e che poteva permettersi uno sguardo ironico senza aver l’aria di voler affondare il colpo. Che resta nel film di questo gioco d’allusioni? Cosa c’è di buono per lo storico? Qualche bella scena di torrioni romanici in controluce, qualche dettaglio nei vestiti, come quelli che permettono di distinguere tra malvagi domenicani e gentiIi francescani, qualche citazione anche.
Il resto fa pensare ad un’Agatha Christie che si sia documentata alla Corte dei Miracoli. I monaci muoiono come mosche, i cadaveri escono dal fondo delle botti, figure mostruose appaiono fra immondizie e miserie, immerse in un magma sanguinolento. Tra tutto questo, avanza imperturbabile James Bond che veste panni da monaco, seguito da un dolce ragazzo destinato a cadere tra le braccia di una strega sorta da una spelonca vicina al convento.
Si prova un senso di sollievo quando, alla fine, il convento comincia a bruciare e le luci in sala si riaccendono sui volti affaticati degli spettatori!
Ma un simile film può almeno ispirare qualche istante di riflessione. Per lo storico, nasce spontanea una domanda: come è possibile che si sia ancora legati, nella nostra epoca scientifica, a nozioni così semplicistiche e infantili su tutto ciò che riguarda il «Medio Evo»? Si constata una distinzione tra il gusto del pubblico, che adora l’ambientazione medievale, con costumi e canti trobadorici, e il ‘saper comune’ che, dalle scuole elementari all’università — quasi senza eccezioni — testimonia sempre lo stesso disprezzo per l’insieme del millennio che va dal V al XV secolo. È lo stesso disprezzo che manifestano i media in tutta tranquillità. Giornali, televisione e, appunto, il cinema, presentano invariabilmente gli stessi schemi: ignoranza, tirannia, oscurantismo. Quando si dice «in quel campo si è rimasti ancora al Medio Evo» si e detto tutto!
Eppure, tutto ciò che ci resta dell’epoca, tutto è bello. Nel film stesso, le torri, che si stagliano su cieli tempestosi, forniscono le più belle immagini e i migliori effetti, pur in un contesto visibilmente guidato dal ‘partito preso’ dell’autore.
Se si percorrono le nostre campagne, le chiese, i musei, i castelli di tutto l’Occidente medievale non si trova nulla che non sia armonioso, perfetto, ammirevole. Non si può aprire un manoscritto del tempo senza rimanere sorpresi per la perfezione dell’impaginazione e la qualità della scrittura, per non parlare poi delle meravigliose miniature che spesso ne illuminano le pagine. Un’epoca che non ha lasciato che testimonianze di bellezza sarebbe stata popolata solo da barbari incolti? Come è possibile non accorgersi della contraddizione?
Ciò fa parte del tabü di una società che pretende rifiutare tutti i tabù. Non se ne discute nemmeno più, si accettano allegramente enormi assurdità considerate come fatti acquisiti. È così, e non c’è bisogno di dimostrazione. E ci si vanta di credere alla scienza e di utilizzare metodi storici!
Si attribuisce indistintamente al «Medio Evo» una mentalità che in realtà non è apparsa che all’estrema fine del millennio, e che caratterizza, al contrario, l’epoca di Galileo, il XVII secolo; è allora (Galileo ne ha fatta esperienza!) che regna una specie di diffidenza verso la scienza, e che si inaridiscono le invenzioni tecniche di cui il nostro XII e XIII secolo erano invece così fertili. L’anno 1127, che è quello dell’episodio raccontato ne «Il nome della rosa», coincide con l’installazione del primo orologio pubblico (per la Francia, nella città di Caon). E lo stesso protagonista del film loda l’invenzione degli occhiali, che gli rendono un magnifico servizio permettendogli di leggere e scrivere senza pena pur se la sua vista si è indebolita. E se si risale più indietro nel tempo, con quale curiosità si constata l’interesse per tutto ciò che è all’origine della conoscenza dell’uomo, proprio nei conventi. La badessa del Mont-Saint-Odile titola ‘Giardino delle delizie’ la sua enciclopedia, e la badessa Ildegarda, nel suo monastero di Bingen, afferma «L’uomo può conoscere tutto dell’universo che lo circonda». Ildegarda scrisse due opere di medicina, le più importanti composte in Occidente. Tutto questo i medievalisti lo sanno, ma si guardano bene dal ripeterlo: non sarebbe serio!
Viene da pensare a quei quadretti naif che oggi le guide ufficiali mostrano al turista in Urss, dove un prete grossolano si sforza di nascondere a! cittadino lo Sputnik, la vettura spaziale rappresentante la scienza — quando e sufficiente andare in un loro museo per contemplare icone, opere di scienza, capolavori di oreficeria, manoscritti di una bellezza perfetta. Ma occorre preservare il tabù fondamentale: quello di una Chiesa nemica della scienza e dell’arte...
Noi siamo ancora a questo punto, e questo film lo attesta a suo modo. In esso tutto è naif come in un mini-museo antireligioso posto dall’altra parte di una cortina di ferro sempre presente. Ma la peggior cortina non è quella che erigono incessantemente i nostri media per impedire l’informazione?
Questo è anche quanto io stessa ho imparato da piccola, e il film «Il nome della rosa» non sorprenderà dunque affatto la gran maggioranza del pubblico.
Gli unici a rimanere sorpresi saranno invece i lettori del libro di Umberto Eco da cui il film ê tratto. Si può non essere d’accordo in tutto con le sue tesi un po’ avventurose che necessitano di una lettura tra le righe, con uno humor talvolta stridente, un’ironia più pepata che divertita, ma chiunque vi riconosce l’opera di un maestro erudito che conosce a fondo la vita di Ubertino da Casale o di Bernardo da Cluny e che poteva permettersi uno sguardo ironico senza aver l’aria di voler affondare il colpo. Che resta nel film di questo gioco d’allusioni? Cosa c’è di buono per lo storico? Qualche bella scena di torrioni romanici in controluce, qualche dettaglio nei vestiti, come quelli che permettono di distinguere tra malvagi domenicani e gentiIi francescani, qualche citazione anche.
Il resto fa pensare ad un’Agatha Christie che si sia documentata alla Corte dei Miracoli. I monaci muoiono come mosche, i cadaveri escono dal fondo delle botti, figure mostruose appaiono fra immondizie e miserie, immerse in un magma sanguinolento. Tra tutto questo, avanza imperturbabile James Bond che veste panni da monaco, seguito da un dolce ragazzo destinato a cadere tra le braccia di una strega sorta da una spelonca vicina al convento.
Si prova un senso di sollievo quando, alla fine, il convento comincia a bruciare e le luci in sala si riaccendono sui volti affaticati degli spettatori!
Ma un simile film può almeno ispirare qualche istante di riflessione. Per lo storico, nasce spontanea una domanda: come è possibile che si sia ancora legati, nella nostra epoca scientifica, a nozioni così semplicistiche e infantili su tutto ciò che riguarda il «Medio Evo»? Si constata una distinzione tra il gusto del pubblico, che adora l’ambientazione medievale, con costumi e canti trobadorici, e il ‘saper comune’ che, dalle scuole elementari all’università — quasi senza eccezioni — testimonia sempre lo stesso disprezzo per l’insieme del millennio che va dal V al XV secolo. È lo stesso disprezzo che manifestano i media in tutta tranquillità. Giornali, televisione e, appunto, il cinema, presentano invariabilmente gli stessi schemi: ignoranza, tirannia, oscurantismo. Quando si dice «in quel campo si è rimasti ancora al Medio Evo» si e detto tutto!
Eppure, tutto ciò che ci resta dell’epoca, tutto è bello. Nel film stesso, le torri, che si stagliano su cieli tempestosi, forniscono le più belle immagini e i migliori effetti, pur in un contesto visibilmente guidato dal ‘partito preso’ dell’autore.
Se si percorrono le nostre campagne, le chiese, i musei, i castelli di tutto l’Occidente medievale non si trova nulla che non sia armonioso, perfetto, ammirevole. Non si può aprire un manoscritto del tempo senza rimanere sorpresi per la perfezione dell’impaginazione e la qualità della scrittura, per non parlare poi delle meravigliose miniature che spesso ne illuminano le pagine. Un’epoca che non ha lasciato che testimonianze di bellezza sarebbe stata popolata solo da barbari incolti? Come è possibile non accorgersi della contraddizione?
Ciò fa parte del tabü di una società che pretende rifiutare tutti i tabù. Non se ne discute nemmeno più, si accettano allegramente enormi assurdità considerate come fatti acquisiti. È così, e non c’è bisogno di dimostrazione. E ci si vanta di credere alla scienza e di utilizzare metodi storici!
Si attribuisce indistintamente al «Medio Evo» una mentalità che in realtà non è apparsa che all’estrema fine del millennio, e che caratterizza, al contrario, l’epoca di Galileo, il XVII secolo; è allora (Galileo ne ha fatta esperienza!) che regna una specie di diffidenza verso la scienza, e che si inaridiscono le invenzioni tecniche di cui il nostro XII e XIII secolo erano invece così fertili. L’anno 1127, che è quello dell’episodio raccontato ne «Il nome della rosa», coincide con l’installazione del primo orologio pubblico (per la Francia, nella città di Caon). E lo stesso protagonista del film loda l’invenzione degli occhiali, che gli rendono un magnifico servizio permettendogli di leggere e scrivere senza pena pur se la sua vista si è indebolita. E se si risale più indietro nel tempo, con quale curiosità si constata l’interesse per tutto ciò che è all’origine della conoscenza dell’uomo, proprio nei conventi. La badessa del Mont-Saint-Odile titola ‘Giardino delle delizie’ la sua enciclopedia, e la badessa Ildegarda, nel suo monastero di Bingen, afferma «L’uomo può conoscere tutto dell’universo che lo circonda». Ildegarda scrisse due opere di medicina, le più importanti composte in Occidente. Tutto questo i medievalisti lo sanno, ma si guardano bene dal ripeterlo: non sarebbe serio!
Viene da pensare a quei quadretti naif che oggi le guide ufficiali mostrano al turista in Urss, dove un prete grossolano si sforza di nascondere a! cittadino lo Sputnik, la vettura spaziale rappresentante la scienza — quando e sufficiente andare in un loro museo per contemplare icone, opere di scienza, capolavori di oreficeria, manoscritti di una bellezza perfetta. Ma occorre preservare il tabù fondamentale: quello di una Chiesa nemica della scienza e dell’arte...
Noi siamo ancora a questo punto, e questo film lo attesta a suo modo. In esso tutto è naif come in un mini-museo antireligioso posto dall’altra parte di una cortina di ferro sempre presente. Ma la peggior cortina non è quella che erigono incessantemente i nostri media per impedire l’informazione?
Dalla rivista «30 Giorni», anno V, n. 1, gennaio 1987, pp. 62-65
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