Viviamo un progressivo deficit di rappresentanza
di Pio Cerocchi
Tra i mali dei quali soffre la politica vi è pure quello di un progressivo deficit di rappresentanza. Una patologia che i dati dell’ultimo referendum sulla legge elettorale, con un’astensione da record, hanno drammaticamente confermato, e che però, per adesso, non pare presa troppo sul serio. In un sistema bipolare, infatti, la logica prevalente è quella del 'voto in più' rispetto allo schieramento avverso, indipendentemente dal numero dei votanti. Una logica che, per dirla in gergo calcistico, obbliga gli schieramenti a un marcamento stretto, il quale inevitabilmente finisce per trasformare il dibattito in rissa, e questo a danno degli interessi legittimi - e cioè ideali e pratici - che i cittadini vorrebbero esprimere con il proprio voto. E così il fatto che le elezioni producano solide maggioranze (cosa che ai tempi della 'Prima Repubblica' sembrava impossibile), non significa necessariamente che il cittadino elettore si senta pienamente rappresentato, anche quando con il proprio voto egli abbia concorso al successo di uno o dell’altro schieramento. Uno scontento strisciante che, combinato con gli effetti della congiuntura economica, produce una crescente disaffezione sociale.
Un recente sondaggio, curato dalla Swg per Reti in Opera, offre cifre preoccupanti sulla percezione dell’inclusione sociale dei cittadini. Negli ultimi quattro anni - si legge la saldezza delle convinzioni è passata dal 61 al 54 per cento, una flessione che però si raddoppia quando si chiede quale possa essere il 'margine d’intervento' personale nella società. Se, infatti, nel 2005 il 51 per cento riteneva di potere intervenire con una certa efficacia, adesso questo indicatore è sceso al 31 per cento. Il che significa che i due terzi dei cittadini avrebbero assunto un atteggiamento passivo e fatalista rispetto alla partecipazione sociale. Di fronte a queste indicazioni, la politica dovrebbe immediatamente valutarne l’attendibilità e, nel caso i dati fossero confermati, provvedere a fermare questo smottamento. L’astensione crescente alle elezioni è il sintomo di un malessere non passeggero del sistema, che certo non intacca la legittimità delle istituzioni, ma che le indebolisce.
Insomma il solco tra ciò che è legittimo e ciò che è condiviso si allarga, non senza procurare danno alla democrazia. Per questo i partiti, tra le cui responsabilità primarie vi è pure la custodia della democrazia, dovrebbero preoccuparsi di riempire di contenuti veri la propria rappresentanza, sempre più caratterizzata, invece, dalle risse mediatiche ed elettorali.
Ai politici è sempre difficile dare consigli. La maggioranza di essi, infatti, si percepisce come immune da errori. Tuttavia la condizione che emerge dai sondaggi e che l’esperienza diretta rende evidente, dovrebbe suonare come un campanello d’allarme. Se, invece, si continuano a inseguire i dati della popolarità di uno o dell’altro leader, ovvero della sua esposizione mediatica, la politica nel suo insieme rischia di perdere l’aggancio con quella rappresentanza popolare che poi è la sua più vera ragione di essere. E non solo per sopravvivere, ma soprattutto per evitare che il male si trasmetta dai partiti al più importante sistema della democrazia, di cui essi, appunto, sono soltanto una 'parte'.
Un recente sondaggio, curato dalla Swg per Reti in Opera, offre cifre preoccupanti sulla percezione dell’inclusione sociale dei cittadini. Negli ultimi quattro anni - si legge la saldezza delle convinzioni è passata dal 61 al 54 per cento, una flessione che però si raddoppia quando si chiede quale possa essere il 'margine d’intervento' personale nella società. Se, infatti, nel 2005 il 51 per cento riteneva di potere intervenire con una certa efficacia, adesso questo indicatore è sceso al 31 per cento. Il che significa che i due terzi dei cittadini avrebbero assunto un atteggiamento passivo e fatalista rispetto alla partecipazione sociale. Di fronte a queste indicazioni, la politica dovrebbe immediatamente valutarne l’attendibilità e, nel caso i dati fossero confermati, provvedere a fermare questo smottamento. L’astensione crescente alle elezioni è il sintomo di un malessere non passeggero del sistema, che certo non intacca la legittimità delle istituzioni, ma che le indebolisce.
Insomma il solco tra ciò che è legittimo e ciò che è condiviso si allarga, non senza procurare danno alla democrazia. Per questo i partiti, tra le cui responsabilità primarie vi è pure la custodia della democrazia, dovrebbero preoccuparsi di riempire di contenuti veri la propria rappresentanza, sempre più caratterizzata, invece, dalle risse mediatiche ed elettorali.
Ai politici è sempre difficile dare consigli. La maggioranza di essi, infatti, si percepisce come immune da errori. Tuttavia la condizione che emerge dai sondaggi e che l’esperienza diretta rende evidente, dovrebbe suonare come un campanello d’allarme. Se, invece, si continuano a inseguire i dati della popolarità di uno o dell’altro leader, ovvero della sua esposizione mediatica, la politica nel suo insieme rischia di perdere l’aggancio con quella rappresentanza popolare che poi è la sua più vera ragione di essere. E non solo per sopravvivere, ma soprattutto per evitare che il male si trasmetta dai partiti al più importante sistema della democrazia, di cui essi, appunto, sono soltanto una 'parte'.
«Avvenire» del 1 luglio 2009
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