Islam e Occidente. L’adesione che l'unione non può permettersi
di Antonio Puri Purini
Le istituzioni comunitarie devono ritrovare la serenità necessaria per definire i loro interessi generali e accelerare il processo d’integrazione. Specularmente, Ankara deve accettare la sovranazionalità come un autentico principio fondante
Un grande interrogativo di questi tempi riguarda l’adesione della Turchia all’Unione Europea. Non è un impegno troppo ambizioso per Europa e Turchia, che non hanno condiviso (se non nell’antichità) lo stesso spazio storico, culturale, morale? Non è un cimento troppo impegnativo per una classe politica europea congelata nella ritualità delle proprie convenzioni? Questa tormentata adesione batte il passo perché ostaggio dell’irrisolto rapporto fra l’Europa e l’Islam e della stessa debolezza dell’Unione Europea. Quando il Consiglio europeo di Helsinki riconobbe nel 1999 lo status di Paese candidato alla Turchia, prevaleva l’ottimismo sulla possibilità che questa avrebbe trovato la propria collocazione in Europa. Si pensava che il negoziato d’adesione sarebbe comunque durato oltre un decennio, che la controversia greco-turca su Cipro si sarebbe risolta, che il rafforzamento delle istituzioni comunitarie avrebbe preceduto l’allargamento (non viceversa come avvenuto), si sottovalutavano le diversità. Di fatto, meccanismi politico-burocratici imperniati sulla continuità prevalevano sul sentimento profondo dei popoli e sulle ragioni della storia.
Nessuno sembra aver seriamente riflettuto sulla circostanza che la Turchia è l’erede orgoglioso di un grande impero multinazionale; che ha un secolare passato islamico alla ricerca di un proprio spazio; che riveste un ruolo importante in Medio Oriente ed in Asia centrale; che è una cerniera fra mondo occidentale e mondo islamico; che aspira ad uno status di rilevanza globale. Inoltre, tra pochi anni, quando potrebbe essere diventata membro dell’Unione Europea, la Turchia, Paese musulmano malgrado la laicità voluta da Kemal Ataturk, avrà ben oltre 80 milioni di abitanti. Era inevitabile che si acuisse la contrapposizione fra coloro che sono convinti che l’adesione della Turchia rappresenterà una svolta positiva nei rapporti fra l’Europa e l’Islam, e coloro secondo cui segnerà invece la fine dell’integrazione europea.
Una cosa è certa: la prospettiva dell’accesso della Turchia è diventata una sfida lacerante per l’Unione Europea, è intrecciata con la problematica presenza dell’Islam in Europa, è dominata da crescente irrazionalità ed emotività. Perfino le opinioni pubbliche ipnotizzate dal cortile di casa, come quella italiana, hanno compreso che l’adesione della Turchia introdurrebbe un elemento d’imprevedibilità nella vita europea. Non bisogna essere un addetto ai lavori per capire che comporterebbe uno stravolgimento degli equilibri istituzionali definiti all’interno dell’Unione Europea: dalla composizione del Parlamento europeo al calcolo della maggioranza di voto. Può tutto questo essere assorbito come se si trattasse dell’adesione degli Stati baltici o della Slovacchia? Non tutto il male viene per nuocere. Anche la questione turca obbliga l’Europa a prendere coscienza di se stessa, ad incoraggiare la formazione di una identità europea, a porsi il problema dei propri confini, ad affrontare insieme il rapporto con l’Islam.
Lascia però sorpresi che la contraddizione storica fra Europa e Turchia non sia stata affrontata prima e che emergano proprio adesso interrogativi latenti da decenni. La Turchia è membro originario, dal 1949, del Consiglio d’Europa, sulla base di una interpretazione geografica e convenzionale delle frontiere europee. La condivisione, che a quell’epoca era esclusivamente formale e non sostanziale, della difesa dei diritti dell’uomo e della supremazia del diritto tutelati da quell’organismo, così come il ruolo di pilastro dell’Occidente esercitato dalla Turchia contro l’Urss, sono sempre apparsi motivi sufficienti per sostenerne l’appartenenza all’Europa. La prima domanda d’associazione della Turchia alle Comunità europee, che allora perseguivano obiettivi più limitati rispetto a quelli successivamente delineati dal Trattato di Maastricht, venne presentata nel 1959 dall’allora primo ministro turco Menderes (poi fatto impiccare dai suoi generali). Colpi di Stato militari e repressioni politiche rallentarono questo processo che venne ripreso in mano negli anni Ottanta dall’allora primo ministro Turgut Orzul e negli anni Novanta dal governo conservatore islamico del primo ministro Erdogan. Dopo il riconoscimento a Helsinki che la Turchia ottemperava ai cosiddetti criteri di Copenaghen, è iniziato nel 2005 il negoziato d’adesione che dovrebbe concludersi nell’arco di un decennio.
La sua struttura è molto complicata: prevede 35 diversi capitoli negoziali; uno (sulla scienza) è stato concluso; otto sono congelati, fra cui quelli relativi alla libera circolazione delle persone e all’agricoltura; gli altri procedono a rilento. Nel frattempo, anche se la Turchia rimane una democrazia ed una cultura musulmana diversa, le riforme adottate negli ultimi anni per venire incontro alle richieste dell’Unione Europea hanno reso l’economia turca competitiva, modernizzato il sistema bancario, migliorato la democraticità del sistema politico. L’impegno preso con Ankara è chiaro ma il negoziato rimane un processo aperto. Parallelamente, l’adesione suscita dubbi crescenti in un’opinione pubblica resa inquieta di fronte alla prospettiva che i valori occidentali cedano, anche nel caso turco, ad un relativismo etico spinto, e preoccupata per un’immigrazione islamica difficile da integrare. Al tempo stesso, i turchi hanno dato spesso l’impressione di considerare l’adesione come una questione di potenza e non come una partecipazione sincera ai pilastri fondanti, compresa la sovranazionalità, dell’Unione Europea. Si sono rafforzate, soprattutto in Francia e Germania, le posizione a favore di un clamoroso dietrofront: la sostituzione della piena partecipazione con un rapporto privilegiato. Altri Paesi, fra cui l’Austria ed i Paesi Bassi, si sono accodati a questa linea. Tale ipotesi (sotto la formula «tutto tranne le istituzioni»), avanzata dal cancelliere Angela Merkel, viene, almeno per il momento, respinta da Ankara. Tuttavia, è un’ipotesi da non scartare. L’adesione richiede l’unanimità degli Stati membri. La mancata ratifica di un singolo Stato la rende impossibile. La Costituzione francese prevede addirittura un referendum. Dubito che l’opinione pubblica degli Stati più incerti cambierà idea. Dieci anni dopo Helsinki è in sostanza subentrato un reciproco disincanto: alla crescente diffidenza europea corrisponde l’accresciuta diffidenza turca verso la prospettiva di legare il proprio destino all’Europa.
Molti governi conoscono questi ostacoli ma preferiscono rifugiarsi nella formula «della capacità europea di armonizzare e amalgamare sistemi politici e culturali diversi » come si legge in un recente intervento comune dei due ministri degli esteri Frattini e Davutoglu. Ma ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando? È pensabile di poter amalgamare la Turchia in Europa quando le divisioni fra gli europei rimangono profonde ed anzi rischiano di accrescersi? Queste argomentazioni si scontrano con la fondamentale necessità di rafforzare l’unità dell’Unione Europea e d’impedire l’affermazione del populismo suscitato dalla prospettiva di ulteriori allargamenti dell’Unione. L’Europa non può affrontare impreparata un’avventura che rischia d’alterare la sua stessa fisionomia: nella coesione, nella governance, nel bilancio, nella sovranazionalità. I cittadini non possono essere più tenuti all’oscuro sulla sua rotta. Ai governi spetta la scelta fra due opzioni. Da un lato un’Europa integrata secondo il modello dei Padri fondatori: questo significa che il progetto politico europeo deve conservare la propria impostazione originaria. Dall’altro un’Europa equiparabile ad un grande spazio di stabilità economica e militare: questo significa invece accettare, in nome della convivenza con l’Islam, tutte le conseguenze - anche economiche, sociali, religiose - derivanti da un così impegnativo allargamento.
Non saremmo mai dovuti arrivare a questo. Sulla Turchia, gli Stati europei hanno dato la precedenza a considerazioni strategiche ed economiche, si sono fatti influenzare dagli Stati Uniti, sono stati vittima della retorica (dal dialogo mediterraneo a quello interculturale), hanno accantonato quesiti scomodi compreso quello se la Turchia fosse un Paese veramente europeo. Hanno sottovalutato l’impatto politico, istituzionale, economico, culturale dell’adesione sul funzionamento dell’Unione. Nel frattempo, si è aggiunto il problema del fattore islamico in Europa, che riguarda direttamente la Turchia per la presenza di milioni di cittadini turchi in Germania. L’Islam fa paura a molti: pesa la circostanza che il mondo islamico si è autoisolato negli ultimi secoli rispetto al dialogo (quello era davvero interculturale) avviato da Avicenna ed Averroè. L’opinione pubblica sa che la Turchia è orgogliosa della propria laicità, ma anche che è un Paese islamico dove i cristiani hanno la vita difficile. Osserva con preoccupazione i sintomi di una crescente simbiosi fra nazionalismo ed Islam in Turchia. Teme che l’entrata della Turchia porterà all’irruzione dell’Islam in Europa. Si domanda quindi se può esistere un Islam europeo caratterizzato dalla tolleranza rispetto ad un modello turco segnato dall’intransigenza. Il presidente della Germania Christian Wulff ha affrontato questo problema, ma ha ricevuto parecchie critiche quando, in un recente discorso, ha sostenuto che l’Islam appartiene alla Germania.
La sfida è impegnativa. L’Europa deve dimostrare di non essere una civiltà allo stremo delle forze, ma uno spazio definito dalle stesse tradizioni culturali e dagli stessi sistemi politici. Oggi le priorità dovrebbero essere la coesione interna, l’integrazione, l’unione politica: sono snodi fondamentali anche per garantire la sostenibilità dell’euro nel lungo termine. Il resto è secondario. Come pensare allora d’includere la Turchia in un’Unione che dev’essere crescentemente e necessariamente politica? L’ex cancelliere Willy Brandt soleva dire che si può crescere insieme solo nell’ambito di una medesima appartenenza. Un’Unione politicamente unita, spiritualmente consapevole della propria identità storica ed impostazione umanistica, consapevole della secolare divisione nei rapporti fra l’Occidente e l’Islam, decisa sulla via dell’integrazione, potrebbe - forse, molto forse - correre il rischio d’assorbire una realtà diversa e composita come la Turchia. Tuttavia, la pallida Europa dei nostri giorni, vittima degli interessi contrapposti, non è in grado di farlo.
Di fronte alla dissoluzione dell’idealismo che ha permesso l’abolizione delle frontiere e la moneta unica, l’Europa deve ritrovare innanzitutto la serenità necessaria per definire la sostanza dell’interesse generale europeo ed accelerare l’integrazione. Specularmente, anche la Turchia deve rendersi conto che la scelta europea è una scelta di civiltà e non di potenza. Ha il dovere di accettare la sovranazionalità come un principio fondante della vita europea, accettare che il commercio o la concorrenza siano responsabilità comunitarie, considerare normale che, accanto ai minareti, in Turchia vengano costruite delle chiese, smettere di rifiutare ai cristiani dei diritti elementari.
La storia obbliga l’Europa ad assumersi la responsabilità di scelte difficili: evitare dei muri intorno alle proprie frontiere, sostenere la formazione di un’identità europea per respingere le forze centrifughe, dialogare con l’Islam, consolidare un sentimento di solidarietà e di comune appartenenza fra gli europei, riconoscere che le frontiere dell’Europa sono state raggiunte. L’Europa non può mettere tutto questo a repentaglio in funzione dei rapporti con la Turchia e con l’Islam: occorre quindi spiegare alla Turchia che l’adesione non è un interesse collettivo europeo. È una linea più dignitosa che non puntare sulla mancata ratifica del trattato d’adesione da parte di uno o più Stati membri. Tanto vale che anche l’Italia, dove l’adesione ha molti sostenitori ma è sempre mancato un vero approfondimento sulla presenza turca in Europa, affronti questo tema in un’ottica europea e non mercantile. La responsabilità di una mancata adesione non sarebbe comunque né della Turchia, né dell’Europa: come diceva Gianbattista Vico «le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano».
L'autore
Antonio Puri Purini è stato rappresentante permanente dell’Italia presso il Consiglio d’Europa dal 2008 al 2009, quindi consigliere diplomatico del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale dal 1999 al 2005, poi ambasciatore d’Italia a Berlino per quattro anni, dal 2005 al 2009
Nessuno sembra aver seriamente riflettuto sulla circostanza che la Turchia è l’erede orgoglioso di un grande impero multinazionale; che ha un secolare passato islamico alla ricerca di un proprio spazio; che riveste un ruolo importante in Medio Oriente ed in Asia centrale; che è una cerniera fra mondo occidentale e mondo islamico; che aspira ad uno status di rilevanza globale. Inoltre, tra pochi anni, quando potrebbe essere diventata membro dell’Unione Europea, la Turchia, Paese musulmano malgrado la laicità voluta da Kemal Ataturk, avrà ben oltre 80 milioni di abitanti. Era inevitabile che si acuisse la contrapposizione fra coloro che sono convinti che l’adesione della Turchia rappresenterà una svolta positiva nei rapporti fra l’Europa e l’Islam, e coloro secondo cui segnerà invece la fine dell’integrazione europea.
Una cosa è certa: la prospettiva dell’accesso della Turchia è diventata una sfida lacerante per l’Unione Europea, è intrecciata con la problematica presenza dell’Islam in Europa, è dominata da crescente irrazionalità ed emotività. Perfino le opinioni pubbliche ipnotizzate dal cortile di casa, come quella italiana, hanno compreso che l’adesione della Turchia introdurrebbe un elemento d’imprevedibilità nella vita europea. Non bisogna essere un addetto ai lavori per capire che comporterebbe uno stravolgimento degli equilibri istituzionali definiti all’interno dell’Unione Europea: dalla composizione del Parlamento europeo al calcolo della maggioranza di voto. Può tutto questo essere assorbito come se si trattasse dell’adesione degli Stati baltici o della Slovacchia? Non tutto il male viene per nuocere. Anche la questione turca obbliga l’Europa a prendere coscienza di se stessa, ad incoraggiare la formazione di una identità europea, a porsi il problema dei propri confini, ad affrontare insieme il rapporto con l’Islam.
Lascia però sorpresi che la contraddizione storica fra Europa e Turchia non sia stata affrontata prima e che emergano proprio adesso interrogativi latenti da decenni. La Turchia è membro originario, dal 1949, del Consiglio d’Europa, sulla base di una interpretazione geografica e convenzionale delle frontiere europee. La condivisione, che a quell’epoca era esclusivamente formale e non sostanziale, della difesa dei diritti dell’uomo e della supremazia del diritto tutelati da quell’organismo, così come il ruolo di pilastro dell’Occidente esercitato dalla Turchia contro l’Urss, sono sempre apparsi motivi sufficienti per sostenerne l’appartenenza all’Europa. La prima domanda d’associazione della Turchia alle Comunità europee, che allora perseguivano obiettivi più limitati rispetto a quelli successivamente delineati dal Trattato di Maastricht, venne presentata nel 1959 dall’allora primo ministro turco Menderes (poi fatto impiccare dai suoi generali). Colpi di Stato militari e repressioni politiche rallentarono questo processo che venne ripreso in mano negli anni Ottanta dall’allora primo ministro Turgut Orzul e negli anni Novanta dal governo conservatore islamico del primo ministro Erdogan. Dopo il riconoscimento a Helsinki che la Turchia ottemperava ai cosiddetti criteri di Copenaghen, è iniziato nel 2005 il negoziato d’adesione che dovrebbe concludersi nell’arco di un decennio.
La sua struttura è molto complicata: prevede 35 diversi capitoli negoziali; uno (sulla scienza) è stato concluso; otto sono congelati, fra cui quelli relativi alla libera circolazione delle persone e all’agricoltura; gli altri procedono a rilento. Nel frattempo, anche se la Turchia rimane una democrazia ed una cultura musulmana diversa, le riforme adottate negli ultimi anni per venire incontro alle richieste dell’Unione Europea hanno reso l’economia turca competitiva, modernizzato il sistema bancario, migliorato la democraticità del sistema politico. L’impegno preso con Ankara è chiaro ma il negoziato rimane un processo aperto. Parallelamente, l’adesione suscita dubbi crescenti in un’opinione pubblica resa inquieta di fronte alla prospettiva che i valori occidentali cedano, anche nel caso turco, ad un relativismo etico spinto, e preoccupata per un’immigrazione islamica difficile da integrare. Al tempo stesso, i turchi hanno dato spesso l’impressione di considerare l’adesione come una questione di potenza e non come una partecipazione sincera ai pilastri fondanti, compresa la sovranazionalità, dell’Unione Europea. Si sono rafforzate, soprattutto in Francia e Germania, le posizione a favore di un clamoroso dietrofront: la sostituzione della piena partecipazione con un rapporto privilegiato. Altri Paesi, fra cui l’Austria ed i Paesi Bassi, si sono accodati a questa linea. Tale ipotesi (sotto la formula «tutto tranne le istituzioni»), avanzata dal cancelliere Angela Merkel, viene, almeno per il momento, respinta da Ankara. Tuttavia, è un’ipotesi da non scartare. L’adesione richiede l’unanimità degli Stati membri. La mancata ratifica di un singolo Stato la rende impossibile. La Costituzione francese prevede addirittura un referendum. Dubito che l’opinione pubblica degli Stati più incerti cambierà idea. Dieci anni dopo Helsinki è in sostanza subentrato un reciproco disincanto: alla crescente diffidenza europea corrisponde l’accresciuta diffidenza turca verso la prospettiva di legare il proprio destino all’Europa.
Molti governi conoscono questi ostacoli ma preferiscono rifugiarsi nella formula «della capacità europea di armonizzare e amalgamare sistemi politici e culturali diversi » come si legge in un recente intervento comune dei due ministri degli esteri Frattini e Davutoglu. Ma ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando? È pensabile di poter amalgamare la Turchia in Europa quando le divisioni fra gli europei rimangono profonde ed anzi rischiano di accrescersi? Queste argomentazioni si scontrano con la fondamentale necessità di rafforzare l’unità dell’Unione Europea e d’impedire l’affermazione del populismo suscitato dalla prospettiva di ulteriori allargamenti dell’Unione. L’Europa non può affrontare impreparata un’avventura che rischia d’alterare la sua stessa fisionomia: nella coesione, nella governance, nel bilancio, nella sovranazionalità. I cittadini non possono essere più tenuti all’oscuro sulla sua rotta. Ai governi spetta la scelta fra due opzioni. Da un lato un’Europa integrata secondo il modello dei Padri fondatori: questo significa che il progetto politico europeo deve conservare la propria impostazione originaria. Dall’altro un’Europa equiparabile ad un grande spazio di stabilità economica e militare: questo significa invece accettare, in nome della convivenza con l’Islam, tutte le conseguenze - anche economiche, sociali, religiose - derivanti da un così impegnativo allargamento.
Non saremmo mai dovuti arrivare a questo. Sulla Turchia, gli Stati europei hanno dato la precedenza a considerazioni strategiche ed economiche, si sono fatti influenzare dagli Stati Uniti, sono stati vittima della retorica (dal dialogo mediterraneo a quello interculturale), hanno accantonato quesiti scomodi compreso quello se la Turchia fosse un Paese veramente europeo. Hanno sottovalutato l’impatto politico, istituzionale, economico, culturale dell’adesione sul funzionamento dell’Unione. Nel frattempo, si è aggiunto il problema del fattore islamico in Europa, che riguarda direttamente la Turchia per la presenza di milioni di cittadini turchi in Germania. L’Islam fa paura a molti: pesa la circostanza che il mondo islamico si è autoisolato negli ultimi secoli rispetto al dialogo (quello era davvero interculturale) avviato da Avicenna ed Averroè. L’opinione pubblica sa che la Turchia è orgogliosa della propria laicità, ma anche che è un Paese islamico dove i cristiani hanno la vita difficile. Osserva con preoccupazione i sintomi di una crescente simbiosi fra nazionalismo ed Islam in Turchia. Teme che l’entrata della Turchia porterà all’irruzione dell’Islam in Europa. Si domanda quindi se può esistere un Islam europeo caratterizzato dalla tolleranza rispetto ad un modello turco segnato dall’intransigenza. Il presidente della Germania Christian Wulff ha affrontato questo problema, ma ha ricevuto parecchie critiche quando, in un recente discorso, ha sostenuto che l’Islam appartiene alla Germania.
La sfida è impegnativa. L’Europa deve dimostrare di non essere una civiltà allo stremo delle forze, ma uno spazio definito dalle stesse tradizioni culturali e dagli stessi sistemi politici. Oggi le priorità dovrebbero essere la coesione interna, l’integrazione, l’unione politica: sono snodi fondamentali anche per garantire la sostenibilità dell’euro nel lungo termine. Il resto è secondario. Come pensare allora d’includere la Turchia in un’Unione che dev’essere crescentemente e necessariamente politica? L’ex cancelliere Willy Brandt soleva dire che si può crescere insieme solo nell’ambito di una medesima appartenenza. Un’Unione politicamente unita, spiritualmente consapevole della propria identità storica ed impostazione umanistica, consapevole della secolare divisione nei rapporti fra l’Occidente e l’Islam, decisa sulla via dell’integrazione, potrebbe - forse, molto forse - correre il rischio d’assorbire una realtà diversa e composita come la Turchia. Tuttavia, la pallida Europa dei nostri giorni, vittima degli interessi contrapposti, non è in grado di farlo.
Di fronte alla dissoluzione dell’idealismo che ha permesso l’abolizione delle frontiere e la moneta unica, l’Europa deve ritrovare innanzitutto la serenità necessaria per definire la sostanza dell’interesse generale europeo ed accelerare l’integrazione. Specularmente, anche la Turchia deve rendersi conto che la scelta europea è una scelta di civiltà e non di potenza. Ha il dovere di accettare la sovranazionalità come un principio fondante della vita europea, accettare che il commercio o la concorrenza siano responsabilità comunitarie, considerare normale che, accanto ai minareti, in Turchia vengano costruite delle chiese, smettere di rifiutare ai cristiani dei diritti elementari.
La storia obbliga l’Europa ad assumersi la responsabilità di scelte difficili: evitare dei muri intorno alle proprie frontiere, sostenere la formazione di un’identità europea per respingere le forze centrifughe, dialogare con l’Islam, consolidare un sentimento di solidarietà e di comune appartenenza fra gli europei, riconoscere che le frontiere dell’Europa sono state raggiunte. L’Europa non può mettere tutto questo a repentaglio in funzione dei rapporti con la Turchia e con l’Islam: occorre quindi spiegare alla Turchia che l’adesione non è un interesse collettivo europeo. È una linea più dignitosa che non puntare sulla mancata ratifica del trattato d’adesione da parte di uno o più Stati membri. Tanto vale che anche l’Italia, dove l’adesione ha molti sostenitori ma è sempre mancato un vero approfondimento sulla presenza turca in Europa, affronti questo tema in un’ottica europea e non mercantile. La responsabilità di una mancata adesione non sarebbe comunque né della Turchia, né dell’Europa: come diceva Gianbattista Vico «le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano».
L'autore
Antonio Puri Purini è stato rappresentante permanente dell’Italia presso il Consiglio d’Europa dal 2008 al 2009, quindi consigliere diplomatico del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale dal 1999 al 2005, poi ambasciatore d’Italia a Berlino per quattro anni, dal 2005 al 2009
«Corriere della sera» del 15 novembre 2010
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