di Daniele Zappalà
«Il sapere accademico non conduce sempre alla saggezza. Persino il fatto di essere dei pensatori non impedisce di scivolare nel ruolo del carnefice, contraddicendo certe impressioni ancora molto diffuse nella civiltà occidentale». Lo storico francese Christian Ingrao, direttore a Parigi dell’Istituto di storia del tempo presente, ha appena pubblicato Croire et détruire (Fayard), una ricerca sugli «intellettuali nella macchina bellica Ss» che sta facendo molto discutere in Francia. I personaggi studiati nel dettaglio, perlopiù giuristi o economisti usciti da università blasonate come Heidelberg e Jena, non sono quelli della più stretta cerchia di Hitler.
Ma responsabili nazisti meno noti, giudicati come più 'rappresentativi' dell’insieme: ad esempio, Otto Ohlendorf, Erich Ehrlinger, Franz Six, Hans Ehlich, Werner Best. Quasi tutti parteciparono direttamente o indirettamente alle campagne di sterminio degli ebrei sul fronte orientale. Il saggio, anche per questo, sembra un contrappunto scientifico dello stesso fenomeno scandagliato narrativamente da Jonathan Littell nel romanzo Le benevole, pubblicato in Italia da Einaudi dopo esser divenuto Oltralpe uno dei maggiori casi letterari degli ultimi anni.
Gli intellettuali ebbero un peso considerevole ai vertici del nazismo?
«Se non consideriamo la concezione dell’intellettuale impegnato, quella che almeno in Francia rinvia storicamente all’Affare Dreyfus, le élite colte e dotate di diplomi ebbero un ruolo considerevole. Il che è in un certo senso normale, dato che il nazismo fu pure una burocrazia e in Germania, tradizionalmente, le élite burocratiche provenivano da studi superiori giuridici. In tutte le istituzioni naziste, furono numerosi i detentori di dottorati in diritto, ma anche in storia o economia».
In che modo parteciparono alla costruzione del regime?
«Svolsero un duplice ruolo. In un primo tempo, esercitarono una funzione di teorici, dato che fornirono formulazioni al contempo elitarie o invece più popolari dell’ideologia sviluppata da Hitler e dalla sua cerchia ristretta. Furono intellettuali organici in apparati ideologici di Stato. In un secondo tempo, gli intellettuali furono centrali nell’esercizio quotidiano del potere. Inizialmente, il nazismo interessò in modo diretto forse un milione di persone. Fra loro, ci furono almeno 6 mila brillanti giuristi con il colletto inamidato già pronti a future funzioni di governo».
Le adesioni furono talora motivate dall’opportunismo?
«Nella maggioranza dei casi, se si tiene conto ad esempio del livello relativamente limitato dei salari, dei vantaggi materiali o delle prospettive di carriera, non ho l’impressione che l’opportunismo giocò un ruolo motore. Si trattò invece di autentici militanti della causa, in tutto. Lo mostra il fatto che ebbero funzioni chiave nel partito prima della conquista del potere».
A suo avviso, cosa li spinse in primo luogo?
«I moventi furono spesso profondi. Il nazismo dovrebbe essere visto pure come un sistema di credenze capaci di liberare dall’angoscia. Durante la Prima guerra mondiale, queste élite interiorizzarono angosce di tipo apocalittico. Il nazismo consentì di trasfigurare queste angosce in una forma d’utopia, ovvero l’immagine del Grande Reich millenario». Inizialmente, ci fu pure una forma estrema di revanscismo? «Più che di revanscismo, occorre parlare di bisogno di riparazione, perché queste élite non ebbero l’impressione di una Germania davvero sconfitta dopo la Prima guerra mondiale. L’11 novembre 1918 non segnò ai loro occhi l’autentica fine della guerra, ma solo una tappa in una situazione di guerra ancora in corso. Occorreva dunque riparare l’affronto del 1918, l’affronto di uno pseudo-trattato».
Lei parla di angoscia 'escatologica'. Cosa intende?
«La Prima guerra mondiale fu un immenso choc per le società europee, per diverse ragioni, a cominciare dall’avvento della morte di massa. Un’esperienza assolutamente inaudita e sovversiva, per così dire, in quanto morte quotidiana di migliaia di giovani. Inoltre, il blocco imposto da Francia e Inghilterra provocò il tracollo della produzione agricola tedesca e dunque situazioni di carestia. In Germania, ciò fu visto come l’indice principale di una guerra percepita come guerra totale, cioè anche contro le donne e i bambini. Pure contro la Germania a venire, dunque. Si trattò di un autentico contraccolpo narcisistico. Non era più in gioco solo la sicurezza del Paese come entità politica e territoriale, ma pure come sostanza biologica».
Si può dire che molti intellettuali furono affascinati dall’ideologia in arrivo?
«Non amo questo termine. Parlerei invece d’interiorizzazione profonda da parte degli intellettuali divenuti nazisti. Sì, credettero anima e corpo».
Quest’interiorizzazione fu, almeno per certi aspetti, una specificità delle élite colte?
«Ho scelto di studiare le élite perché il loro pensiero è meglio formulato e per molti aspetti più accessibile. Ma il fenomeno si diffuse ben al di là. A provarlo, a mio parere, saranno i comportamenti suicidi del 1944 e 1945. Sul fronte russo, molti preferiranno essere uccisi sul posto piuttosto che retrocedere».
Molti dei nazisti da lei studiati divennero materialmente dei carnefici nei gruppi mobili di sterminio sul fronte orientale. Rispetto alle attività precedenti di studenti e studiosi, la metamorfosi pare totale ...
«In proposito, occorre ancora comprendere pienamente se il sistema di credenze interiorizzate servì a interpretare la violenza o invece a generarla. Personalmente, ho l’impressione che si trattò di un unico processo che non lascia probabilmente la possibilità di distinguere».
Ma responsabili nazisti meno noti, giudicati come più 'rappresentativi' dell’insieme: ad esempio, Otto Ohlendorf, Erich Ehrlinger, Franz Six, Hans Ehlich, Werner Best. Quasi tutti parteciparono direttamente o indirettamente alle campagne di sterminio degli ebrei sul fronte orientale. Il saggio, anche per questo, sembra un contrappunto scientifico dello stesso fenomeno scandagliato narrativamente da Jonathan Littell nel romanzo Le benevole, pubblicato in Italia da Einaudi dopo esser divenuto Oltralpe uno dei maggiori casi letterari degli ultimi anni.
Gli intellettuali ebbero un peso considerevole ai vertici del nazismo?
«Se non consideriamo la concezione dell’intellettuale impegnato, quella che almeno in Francia rinvia storicamente all’Affare Dreyfus, le élite colte e dotate di diplomi ebbero un ruolo considerevole. Il che è in un certo senso normale, dato che il nazismo fu pure una burocrazia e in Germania, tradizionalmente, le élite burocratiche provenivano da studi superiori giuridici. In tutte le istituzioni naziste, furono numerosi i detentori di dottorati in diritto, ma anche in storia o economia».
In che modo parteciparono alla costruzione del regime?
«Svolsero un duplice ruolo. In un primo tempo, esercitarono una funzione di teorici, dato che fornirono formulazioni al contempo elitarie o invece più popolari dell’ideologia sviluppata da Hitler e dalla sua cerchia ristretta. Furono intellettuali organici in apparati ideologici di Stato. In un secondo tempo, gli intellettuali furono centrali nell’esercizio quotidiano del potere. Inizialmente, il nazismo interessò in modo diretto forse un milione di persone. Fra loro, ci furono almeno 6 mila brillanti giuristi con il colletto inamidato già pronti a future funzioni di governo».
Le adesioni furono talora motivate dall’opportunismo?
«Nella maggioranza dei casi, se si tiene conto ad esempio del livello relativamente limitato dei salari, dei vantaggi materiali o delle prospettive di carriera, non ho l’impressione che l’opportunismo giocò un ruolo motore. Si trattò invece di autentici militanti della causa, in tutto. Lo mostra il fatto che ebbero funzioni chiave nel partito prima della conquista del potere».
A suo avviso, cosa li spinse in primo luogo?
«I moventi furono spesso profondi. Il nazismo dovrebbe essere visto pure come un sistema di credenze capaci di liberare dall’angoscia. Durante la Prima guerra mondiale, queste élite interiorizzarono angosce di tipo apocalittico. Il nazismo consentì di trasfigurare queste angosce in una forma d’utopia, ovvero l’immagine del Grande Reich millenario». Inizialmente, ci fu pure una forma estrema di revanscismo? «Più che di revanscismo, occorre parlare di bisogno di riparazione, perché queste élite non ebbero l’impressione di una Germania davvero sconfitta dopo la Prima guerra mondiale. L’11 novembre 1918 non segnò ai loro occhi l’autentica fine della guerra, ma solo una tappa in una situazione di guerra ancora in corso. Occorreva dunque riparare l’affronto del 1918, l’affronto di uno pseudo-trattato».
Lei parla di angoscia 'escatologica'. Cosa intende?
«La Prima guerra mondiale fu un immenso choc per le società europee, per diverse ragioni, a cominciare dall’avvento della morte di massa. Un’esperienza assolutamente inaudita e sovversiva, per così dire, in quanto morte quotidiana di migliaia di giovani. Inoltre, il blocco imposto da Francia e Inghilterra provocò il tracollo della produzione agricola tedesca e dunque situazioni di carestia. In Germania, ciò fu visto come l’indice principale di una guerra percepita come guerra totale, cioè anche contro le donne e i bambini. Pure contro la Germania a venire, dunque. Si trattò di un autentico contraccolpo narcisistico. Non era più in gioco solo la sicurezza del Paese come entità politica e territoriale, ma pure come sostanza biologica».
Si può dire che molti intellettuali furono affascinati dall’ideologia in arrivo?
«Non amo questo termine. Parlerei invece d’interiorizzazione profonda da parte degli intellettuali divenuti nazisti. Sì, credettero anima e corpo».
Quest’interiorizzazione fu, almeno per certi aspetti, una specificità delle élite colte?
«Ho scelto di studiare le élite perché il loro pensiero è meglio formulato e per molti aspetti più accessibile. Ma il fenomeno si diffuse ben al di là. A provarlo, a mio parere, saranno i comportamenti suicidi del 1944 e 1945. Sul fronte russo, molti preferiranno essere uccisi sul posto piuttosto che retrocedere».
Molti dei nazisti da lei studiati divennero materialmente dei carnefici nei gruppi mobili di sterminio sul fronte orientale. Rispetto alle attività precedenti di studenti e studiosi, la metamorfosi pare totale ...
«In proposito, occorre ancora comprendere pienamente se il sistema di credenze interiorizzate servì a interpretare la violenza o invece a generarla. Personalmente, ho l’impressione che si trattò di un unico processo che non lascia probabilmente la possibilità di distinguere».
«Avvenire» del 24 novembre 2010
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