Si vota martedì
s. i. a.
Franzini (Statale di Milano): “Il novanta per cento dei docenti è d’accordo con il ddl Gelmini”
A compensare l’esiguità numerica dei combattenti anti Gelmini impegnati in una decina di città in manifestazioni di ottima visibilità, con la trovata di “occupare” i monumenti, la protesta contro la riforma dell’Università in discussione alla Camera si è ancor più trasferita sui tetti. E se il presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari, Mattia Sogaro, dice al Foglio che “le proteste che sfociano in violenze sono inaccettabili e non si possono in nessun modo condividere”, ieri, a far compagnia a Nichi Vendola – ha spiegato che “gli studenti sono vitalizzati dal rapporto con il cielo” – e al cantautore Antonello Venditti, sul tetto di una delle sedi romane di Architettura sono arrivati anche alcuni deputati di Futuro e libertà (Perina, Moroni, Granata e Della Vedova). Anche grazie a loro, in mattinata l’esecutivo è stato battuto su un emendamento, come già avvenuto martedì e mercoledì. Il ministro Mariastella Gelmini ha annunciato che si andrà avanti fintanto che l’impianto sostanziale della legge rimarrà intatto, altrimenti preferisce ritirare il provvedimento. Avrebbe però chiesto ai deputati fli di non far mancare, martedì prossimo, l’appoggio ad alcuni emendamenti cruciali, prima del voto finale e dell’eventuale passaggio al Senato.
Ieri il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha chiesto un’approvazione veloce della riforma: “Sarebbe inaccettabile che per litigi interni cadesse”, perché “introduce elementi importanti come premiare il merito e migliorare la governance”. L’identico auspicio è stato espresso in un’intervista su Repubblica dal presidente della Conferenza dei rettori italiani, Enrico Decleva, che ribadisce la necessità della riforma Gelmini e nega che le università siano davvero in rivolta, mentre un appello firmato da decine di docenti e intitolato “Difendiamo l’università dalla demagogia” si schiera con la necessità di approvare la riforma (il testo completo e le firme sono sul nostro sito, www.ilfoglio.it).
E’ d’accordo con Decleva Elio Franzini, ordinario di Estetica alla Statale di Milano nella facoltà di Lettere e filosofia, di cui è stato preside fino a poche settimane fa. Al Foglio si dice convinto che “a condividere la riforma ci sia il novanta per cento dei docenti. Nella mia università, la terza in Italia, non è successo niente, a parte una ventina di ricercatori sul tetto”. Franzini considera “imprescindibile la riforma nella parte relativa al reclutamento, con cui si adegua la normativa italiana a quella europea e internazionale, attraverso il meccanismo dell’idoneità nazionale e della chiamata sulla base di un concorso locale tra gli idonei. E anche il tenure track – il ricercatore non è più assunto da subito a tempo indeterminato, ma nei sei anni a disposizione dovrà avere tempo e possibilità di ottenere l’idoneità, per poi concorrere a posti di professore associato e ordinario – lo troviamo identico in tutti i paesi d’Europa dove l’università non è ancora interamente privatizzata. E’ il modello francese: funziona”. Franzini aggiunge che “il problema dei finanziamenti scarsi esiste, e ha riguardato i governi di centrosinistra come ora il centrodestra. Ma il modello della riforma è buono. Chi va sui tetti la accusa di voler privatizzare l’Università: non è vero. Nella prima formulazione, un 40 per cento di esterni nei consigli di amministrazione poteva turbare alcune coscienze, ma oggi siamo a tre esterni”. Stessa confusione si fa “sulla pretesa abolizione delle facoltà. La facoltà come madre di tutto il processo universitario ha una diminuzione di peso, è innegabile, ma non è per forza un male, se dà alle singole sedi, a partire dalle loro possibilità e dalla loro tradizione, l’opportunità di disegnarsi statuti che diano peso o meno a strutture didattiche comuni”.
L’economista Fabio Pammolli, direttore dell’Imt Alti studi di Lucca, scuola statale a ordinamento speciale, pensa che la riforma Gelmini sia “assolutamente necessaria. Senza, il sistema universitario rimarrebbe sguarnito su aspetti fondamentali. Basti pensare a quello di finanza pubblica. Questa riforma introduce concetti di base: per la prima volta si parla di piani di rientro in caso di disavanzo e di commissariamento di enti in caso di mala gestione (ne abbiamo svariati esempi); per la prima volta si costringono gli organi di governo degli atenei ad avere strumenti di programmazione coerenti con l’autonomia, a fare programmazione pluriennale assumendosi la responsabilità delle scelte di allocamento delle risorse. A proposito: ci si lamenta della scarsità delle risorse, ma questo non c’entra con una riforma ordinamentale che consentirà di usarle meglio, poche o tante che siano, in situazioni in cui abbiamo avuto finora autonomia senza responsabilità”.
Ieri il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha chiesto un’approvazione veloce della riforma: “Sarebbe inaccettabile che per litigi interni cadesse”, perché “introduce elementi importanti come premiare il merito e migliorare la governance”. L’identico auspicio è stato espresso in un’intervista su Repubblica dal presidente della Conferenza dei rettori italiani, Enrico Decleva, che ribadisce la necessità della riforma Gelmini e nega che le università siano davvero in rivolta, mentre un appello firmato da decine di docenti e intitolato “Difendiamo l’università dalla demagogia” si schiera con la necessità di approvare la riforma (il testo completo e le firme sono sul nostro sito, www.ilfoglio.it).
E’ d’accordo con Decleva Elio Franzini, ordinario di Estetica alla Statale di Milano nella facoltà di Lettere e filosofia, di cui è stato preside fino a poche settimane fa. Al Foglio si dice convinto che “a condividere la riforma ci sia il novanta per cento dei docenti. Nella mia università, la terza in Italia, non è successo niente, a parte una ventina di ricercatori sul tetto”. Franzini considera “imprescindibile la riforma nella parte relativa al reclutamento, con cui si adegua la normativa italiana a quella europea e internazionale, attraverso il meccanismo dell’idoneità nazionale e della chiamata sulla base di un concorso locale tra gli idonei. E anche il tenure track – il ricercatore non è più assunto da subito a tempo indeterminato, ma nei sei anni a disposizione dovrà avere tempo e possibilità di ottenere l’idoneità, per poi concorrere a posti di professore associato e ordinario – lo troviamo identico in tutti i paesi d’Europa dove l’università non è ancora interamente privatizzata. E’ il modello francese: funziona”. Franzini aggiunge che “il problema dei finanziamenti scarsi esiste, e ha riguardato i governi di centrosinistra come ora il centrodestra. Ma il modello della riforma è buono. Chi va sui tetti la accusa di voler privatizzare l’Università: non è vero. Nella prima formulazione, un 40 per cento di esterni nei consigli di amministrazione poteva turbare alcune coscienze, ma oggi siamo a tre esterni”. Stessa confusione si fa “sulla pretesa abolizione delle facoltà. La facoltà come madre di tutto il processo universitario ha una diminuzione di peso, è innegabile, ma non è per forza un male, se dà alle singole sedi, a partire dalle loro possibilità e dalla loro tradizione, l’opportunità di disegnarsi statuti che diano peso o meno a strutture didattiche comuni”.
L’economista Fabio Pammolli, direttore dell’Imt Alti studi di Lucca, scuola statale a ordinamento speciale, pensa che la riforma Gelmini sia “assolutamente necessaria. Senza, il sistema universitario rimarrebbe sguarnito su aspetti fondamentali. Basti pensare a quello di finanza pubblica. Questa riforma introduce concetti di base: per la prima volta si parla di piani di rientro in caso di disavanzo e di commissariamento di enti in caso di mala gestione (ne abbiamo svariati esempi); per la prima volta si costringono gli organi di governo degli atenei ad avere strumenti di programmazione coerenti con l’autonomia, a fare programmazione pluriennale assumendosi la responsabilità delle scelte di allocamento delle risorse. A proposito: ci si lamenta della scarsità delle risorse, ma questo non c’entra con una riforma ordinamentale che consentirà di usarle meglio, poche o tante che siano, in situazioni in cui abbiamo avuto finora autonomia senza responsabilità”.
«Il Foglio» del novembre 2010
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