Questa nota di Mario Marcolla delinea taluni tratti della filosofia italiana contemporanea, che, pur metabolizzando con scarsissima originalità esiti concettuali d’Oltralpe, aspirerebbe a porsi come la verità del tempo. Una volta però smascherato il terrorismo della chiacchiera che perpetrano i “flebili” autori del pensiero “debole” apparirà manifesto perché essi siano consegnati al dibattito dei rotocalchi o delle gazzette
di Mario Marcolla
Nichilismo da salotto
Su L’Espresso del 23 giugno scorso Sandro Magister, nell’articolo Libertà, fraternità, carità, solleva la questione della supposta “frattura che separa la Chiesa dalla cultura diffusa nel nostro tempo”. Egli scrive che “i problemi posti dai filosofi dell’Areopago d’oggi, come Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, Emanuele Severino, sono a essa per lo più sconosciuti”. Come già avvenne subito dopo il Concilio molti critici accusano la Chiesa di essere in ritardo nel recepire i messaggi della cultura contemporanea e. quindi. di non poter capire ciò che anima la società nella quale essa vive. Allora, l’accostamento a marce forzate verso il marxismo da parte di alcune frange cattoliche produsse il fenomeno della contestazione a sinistra nelle comunità del dissenso. Anche la teologia ne fu investita e si ebbe la fioritura dei teologi della secolarizzazione, che cercarono di portare la cultura ecclesiale al passo con l’idea di progresso e di sviluppo. Ora, invece, si tratterebbe di riconoscere la cultura del post-moderno che incalza, su basi nietzschiane, heideggeriane e nichiliste, onde poter decifrare e comprendere i fenomeni religiosi e sociali degli anni Ottanta. “Pensatori solitari?”, si chiede Magister riferendosi agli autori citati. £ risponde: «Non è detto. Prendiamo l’ultimo libro di Vattimo, La fine della modernità. La “chance positiva” che Vattimo rivendica all’esistenza attuale dà voce al vivere irriflesso di grandi masse, che la Chiesa non dovrebbe ignorare semplicemente perché sgradevole. Questa “chance” è che nessun binario è più imposto al cammino degli uomini. Alla Storia universale, sostiene Vattimo, succede la disseminazione di storie particolari, il vortice delle mille soggettività. Ai valori fondanti, incontrovertibili, subentra la convertibilità di ogni cosa e persona in merce. Perenne Nashville, la nuova età non conosce più diaframmi tra vita e spettacolo, tra il consumare e l’essere consumati, tra la morte e il gioco». La lunga citazione è motivata dalla necessità di capire come la cultura dei filosofi crei da tempo in alcuni cattolici un complesso di inferiorità radicale, quasi la vergogna di appartenere a un mondo di fede che non conosce il pensiero forte della filosofia areligiosa, anche quando esso si trasforma in “pensiero debole” orientato a definirsi come “sapere esplicitamente residuale, che avrebbe molti dei caratteri della divulgazione (con la filosofia non a fondamento, ma a conclusione delle scienze): che si collocherebbe dunque al livello di una verità debole, la cui debolezza potrebbe richiamarsi all’ambiguità di svelamento e velamento che è propria della Lichtung heideggeriana” (Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, p. 187).
Struttura heideggeriana
Questo riferimento alle note conclusive dell’opera di Vattimo intende richiamare l’attenzione sulla struttura heideggeriana del suo pensiero, che, dall’inizio alla fine, cavalcando il riscoperto nichilismo nietzschiano, ci sommerge di termini tedeschi, perché il sapore della vera filosofia non venga perduto e contaminato dalla traduzione in una lingua come la nostra che da cent’anni si sforza di assorbire i sistemi d’oltralpe senza mai completamente assimilarli. È un destino, quello di una certa cultura italiana anticattolica, di cercare l’identità del pensiero greco e la sua continuità nel pensiero cristiano attraverso lo scandaglio filologico ed erudito degli autori tedeschi, i quali, con una razionalità metallica, costruiscono sistemi (Weltanschauungen) con cui inondare il mondo. Questa fu già la via dell’idealismo italiano che, col Croce e col Gentile. tradusse l’enorme matassa della filosofia di Hegel, dipanandola e adattandola ai gusti della nostra cultura, senza però riuscire a creare un fondamento durevole nel nostro sapere, come ormai si può costatare, valutando le fortune di questi filosofi.
Lo stesso sta avvenendo per Heidegger, il grande maestro dell’esistenzialismo, rimasto fino ad oggi in Italia conosciuto entro le strette cerchie degli specialisti, anche per l’impenetrabilità del suo linguaggio e una certa diffidenza, dopo l’ultima guerra tutto ciò che veniva dalla terra germanica.
Gianni Vattimo realizza finalmente un’opera di divulgazione del Geschick (destino) epocale heideggeriano e lo diffonde a piene pagine per nutrire la nostra provinciale scarsità di idee. Il tutto ha inizio con l’assunzione nell’interpretazione di Heidegger del frammento di Anassimandro, capitolo fondamentale degli Holzwege, opera pubblicata a Francoforte nel 1950 e tradotta in italiano nel 1968 col titolo Sentieri interrotti (La Nuova Italia, Firenze). In essa il filosofo tedesco, con severità ermeneutica, scopre il tragico inganno che pesa sulla storia dell’Occidente, dai greci ai giorni nostri. La definizione dell’essere e dell’ente è stata travisata lungo la cultura di duemilacinquecento anni a causa dell’errata interpretazione del frammento di Anassimandro e questo travisamento segna il nostro destino. Citiamo il frammento nelle traduzioni riportate da Heidegger: quella del giovane Nietzsche del 1873 e quella di Hermann Diels nel libro Fragmente der Vorsokratiker del 1903. Nietzsche: «Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo». E Diels: «Ma là donde le cose hanno il loro sorgere, si volge anche il loro venire meno, secondo la necessità; esse pagano reciprocamente la pena e il fio per la loro malvagità (Ruchlosigkeit) secondo il tempo stabilito». Nel frammento è detto in sostanza, e molto chiaramente, che le cose escono dal niente e nel niente ritornano. Ma l’analisi di Heidegger, puntuale e rigorosa, rovescia ogni interpretazione che al frammento è stata data fino ad oggi e preannuncia un destino aurorale per l’epoca che sta per sorgere. Non intendiamo qui banalizzare l’opera di un filosofo come Heidegger, ma contestare l’uso del sistema (la nuova interpretazione del frammento di Anassimandro) come modo per costruire tutta una filosofia. Occorre al riguardo riferirci a quanto scrisse Eric Voegelin in una famosa opera sullo gnosticismo moderno: «La speculazione di Heidegger occupa un posto importante nella storia dello gnosticismo occidentale. La costruzione del processo chiuso dell’essere; il distacco dell’essere immanente dall’essere trascendente; il rifiuto di ammettere le esperienze di philia, eros, pistis (fede) ed elpis (speranza) — descritte e definite dai filosofi ellenici — come gli eventi ontici per cui l’anima partecipa dell’essere trascendente e accetta di essere ordinata da esso; il rifiuto, quindi, di riconoscervi gli eventi dai quali trae origine la filosofia, specialmente quella platonica; e infine il rifiuto a consentire che l’idea stessa della costruzione di un processo chiuso dell’essere sia contestata alla luce di questi eventi: tutto ciò si trovava già senza dubbio, sia pure a diversi livelli di chiarezza, negli gnostici speculativi del secolo XIX. Ma Heidegger ha ridotto questo complesso alla sua struttura essenziale e lo ha depurato delle visioni del futuro legate a periodi. Sono sparite le immagini ridicole dell’uomo positivista, dell’uomo socialista e del superuomo. Al loro posto Heidegger pone l’essere stesso, vuoto di ogni contenuto, al cui incombente dominio dobbiamo sottometterci» (Il Mito del mondo nuovo, Rusconi 1970, P. 107).
Congedo dalla metafisica
Gianni Vattimo, da buon discepolo di Heidegger, raccoglie la sua eredità in Italia e la diffonde con l’entusiasmo del neofita che mena fendenti per togliere ogni fondamento (Grund) alla realtà dell’essere della tradizione classica e cristiana: «Questa dissoluzione della stabilità dell’essere è solo parziale nei grandi sistemi dello storicismo metafisico ottocentesco: lì, l’essere non sta, però diviene secondo i ritmi necessari e riconoscibili. che dunque mantengono ancora una certa stabilità ideale. Nietzsche e Heidegger lo pensano invece radicalmente come evento, e per loro è dunque decisivo, proprio per parlare dell’essere, capire “a che punto”, noi ed esso stesso, siamo. L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi» (op. cit., p. 11). La presa di congedo dall’essere metafisico è perentoria e definitiva e segna il passaggio verso il post-moderno, che è l’epoca nella quale stiamo entrando, l’epoca nella quale la tecnica, ancorché fondata sulla continuità del pensiero metafisico, rivelerà la sua essenza.
“La fine della modernità” analizzata da Vattimo con sottile ae retorico assume il nichilismo come destino. Il disvelamento dell’essere in una nuova era porta l’autore a far proprie le profezie decadenti di autori quali Oswald Spengler che con Il tramonto dell’Occidente inaugurò dopo la prima guerra mondiale la letteratura della crisi della civiltà europea (come non ricordare, accanto a lui, Johan Huizinga, Arnold Toynbee, Ortega y Gasset e, prima di loro, l’americano Brooks Adams col suo libro fondamentale The Law of Civilization and Decay del 1896, che invano Ezra Pound cercò da far tradurre nella nostra lingua negli anni Trenta), nonché i pensieri forti di uno scrittore come Ernst Jönger che con le opere Nella tempesta d’acciaio, Quota 125, Fuoco e sangue, Die totale Mobilmachung. Der Arbeiter e Sulle scogliere di marmo preparò in Germania gli spiriti giovanili al grande olocausto dell’ultimo conflitto mondiale. Ma questi sono i giochi del destino. Già Heidegger fu accusato di condiscendenza verso il nazismo. Ora. i suoi discepoli non possono che compiere, con una parabola in ritardo di cinquant’anni, lo stesso percorso.
Accettazione del presente
Ma ritorniamo al libro. Per Vattimo, Nietzsche è stato il filosofo che ha fatto esplodere tutte le certezze della civiltà europea e Heidegger è stato il suo profeta. Il rovesciamento degli idoli conclude con l’accettazione del presente, anche se Vattimo nega questo esito. Spulciamo dal suo libro alcuni passaggi: «In che misura si può chiamare nichilista questa visione della costituzione ermeneutica dell’Esserci? Anzitutto. in uno del sensi attribuiti a questo termine da Nietzsche, in un appunto collocato dagli editori all’inizio dell’edizione del 1906 del Wille zur Macht: nichilismo è quella situazione in cui, come nella rivoluzione copemicana, “l’uomo rotola via dal centro verso la X”. Per Nietzsche, questo significa che nichilismo è la situazione in cui l’uomo riconosce esplicitamente l’assenza di fondamento come costitutiva della sua condizione (quello che, in altri termini, Nitzsche chiama la morte di Dio») (op. cit., p. 127). Ma illuminante e definitiva è quest’ultima sentenza: «Se è così, non solo la costituzione ermeneutica dell’Esserci ha un carattere nichilistico perché l’uomo si fonda solo rotolando via dal centro verso la X; ma anche perché l’essere il cui senso si tratta di recuperare è un essere che tende a identificarsi con il nulla, con i caratteri effimeri dell’esistere, come rinchiuso tra i termini della nascita e della morte» (op. cit., p. 129).
”Fast-food” filosofico
Ma se l’Essere di Heidegger e di Vattimo è questo, è inutile proseguire ogni ricerca. La realtà odierna, affatto post-modema, ma modernissima ogni giorno di più, già si fonda su questo nulla dell’esistere “tra la nascita e la morte” senza ulteriori motivazioni. Certo, il libro di Vattimo, raccolta di saggi già editi, ha scosso il carrozzone sonnecchiante di certa cultura ufficiale. La definizione del “pensiero debole”, del “soggetto debole”, “dell’indebolimento della forza cogente delta realtà” ha ormai fatto il giro delle gazzette ed è discorso alla moda; è il “fast food” di cui ha scritto Saverio Vertone su Il Corriere della sera del 17 ottobre scorso.
Se questa è la cultura diffusa della quale la Chiesa dovrebbe prendere coscienza, noi cattolici, come “gli abitatori del tempo” di un’opera famosa di Emanuele Severino, dovremmo starcene lontani, con le nostre residue certezze metafisiche, per non rovinare al fondo dell’abisso (Abgrund) verso il quale Vattimo e Heidegger vorrebbero trascinarci, per scoprire nichilisticamente la nuova aurora della civiltà. Emanuele Severino è autore molto diverso da Gianni Vattimo e meriterebbe una presentazione a parte. Ma, nell’insieme, i filosofi dell’Areopago italiano ci fanno dubitare della salute umana della filosofia attuale. Ancora una volta potremmo dire con san Paolo: «Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1 Cor 1, 19-20). Con tutto quel che segue.
«Studi Cattolici», n. 298, dicembre 1985, pp. 748-751
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