Quelli che non ammettono. Quelli che non sono ammessi
di Marco Tarquinio
Gli uomini davvero liberi sono quelli che quando si rendono conto di aver commesso un errore, lo riconoscono. Quelli che non hanno bisogno di un’intimazione per rimediare a uno sbaglio. Quelli che non fanno finta di sentire solo gli applausi. Quelli che dall’alto di uno straordinario successo – frutto di mestiere e di fortuna, del potente mezzo usato e di un antico inusuale coraggio – sanno chinarsi sulle storie e sulle voci degli impresentabili e dei politicamente scorretti. E le ascoltano. Anche se non sono quelle che a loro piacciono e che hanno deciso di raccontare davanti alle telecamere della Rai, cioè della tv che dovrebbe essere di tutti, che è tenuta a essere e a farsi «servizio pubblico».
Fabio Fazio ne sa qualcosa di «quelli che». E anche Roberto Saviano. Sanno di vittorie e di sconfitte, loro. Sanno di presunti vincitori e di presunti sconfitti. Sanno di speranza e di disperazione. E sanno come raccontare, come elencare. Bene, benissimo. Male, malissimo. Perché della vita che si fa malata, ma malata per davvero, duramente malata, fingono di aver saputo solo la disperazione e il rifiuto. Fingono di aver incontrato e riconosciuto solo storie di guerra, battaglie lunghe e amare e controverse per abbandonare e per finire. Fingono, cioè,di non sapere di Mario e di Fulvio, di Max e di mamma Lucrezia e papà Ernesto, di Maria Pia e di suo marito. Fingono di non aver mai sentito di Stefano e Chantal, di Moira, di Angelo, di Simone, di Rosy e di Susi con un’intera famiglia adottiva. Ma se per avventura loro, e gli autori di 'Vieni via con me', nulla avessero saputo o sentito o anche solo intuito di tutta questa vita in lotta da chiamare e rispettare per nome, in questi giorni – sulle nostre pagine – hanno certo avuto occasione di incontrarla e conoscerla. Eppure non l’hanno riconosciuta. E ora che pure il Consiglio di amministrazione della Rai, ha detto: «Fateli parlare»? Ora niente, dicono, Fazio e Saviano. Per loro è «inaccettabile ». Quelle voci – e già temevano di averlo capito – sono inaccettabili. Beh, non si somigliano proprio Fazio e Saviano quando mostrano l’audience e voltano la testa, con aria – loro – da vittime (o, forse, non somigliano all’immagine di sé che ci avevano dato). E non si somiglia nemmeno Paolo Ruffini, direttore di Raitre e intellettuale limpido e rigoroso, quando afferma che niente di «non detto» e di negato c’è stato nel programma che sulla sua rete ha avuto il maggior successo di sempre. Ma che cosa hanno fatto i non-Englaro e i non-Welby per meritare questo bavaglio e queste umiliazioni, questo puntiglioso sussiego? Sono forse troppi? Sì, sono tantissimi. Sono praticamente tutti quelli che si sono ritrovati arruolati loro malgrado nelle battaglie con la distrofia, la sclerosi multipla, la Sla... Sono quelli che conoscono o hanno conosciuto il coma, quelli che vengono definiti in stato vegetativo. Sono quelli che si sono risvegliati. E quelli che stanno ancora chiusi dentro. Sono quelli che stanno accanto, quelli che non indietreggiano, quelli che fanno spazio nelle loro case e nelle loro vite a queste altre vite inchiodate e tempestose. Sono quelli che magari credono in Gesù Cristo e non hanno paura della morte, ma non ci stanno a dire che l’amore e la scienza servono a niente. Sono quelli che magari non credono in Dio, ma non rinunciano a ogni respiro e a ogni pensiero. Quelli che accanirsi mai, ma eutanasia mai. Non hanno bisogno di «par condicio », perché la sfida per loro è comunque dispari. Hanno diritto a un po’ di verità. E la tv non è necessariamente e sempre altra dalla verità, altra dalla vita vera.
Fabio Fazio ne sa qualcosa di «quelli che». E anche Roberto Saviano. Sanno di vittorie e di sconfitte, loro. Sanno di presunti vincitori e di presunti sconfitti. Sanno di speranza e di disperazione. E sanno come raccontare, come elencare. Bene, benissimo. Male, malissimo. Perché della vita che si fa malata, ma malata per davvero, duramente malata, fingono di aver saputo solo la disperazione e il rifiuto. Fingono di aver incontrato e riconosciuto solo storie di guerra, battaglie lunghe e amare e controverse per abbandonare e per finire. Fingono, cioè,di non sapere di Mario e di Fulvio, di Max e di mamma Lucrezia e papà Ernesto, di Maria Pia e di suo marito. Fingono di non aver mai sentito di Stefano e Chantal, di Moira, di Angelo, di Simone, di Rosy e di Susi con un’intera famiglia adottiva. Ma se per avventura loro, e gli autori di 'Vieni via con me', nulla avessero saputo o sentito o anche solo intuito di tutta questa vita in lotta da chiamare e rispettare per nome, in questi giorni – sulle nostre pagine – hanno certo avuto occasione di incontrarla e conoscerla. Eppure non l’hanno riconosciuta. E ora che pure il Consiglio di amministrazione della Rai, ha detto: «Fateli parlare»? Ora niente, dicono, Fazio e Saviano. Per loro è «inaccettabile ». Quelle voci – e già temevano di averlo capito – sono inaccettabili. Beh, non si somigliano proprio Fazio e Saviano quando mostrano l’audience e voltano la testa, con aria – loro – da vittime (o, forse, non somigliano all’immagine di sé che ci avevano dato). E non si somiglia nemmeno Paolo Ruffini, direttore di Raitre e intellettuale limpido e rigoroso, quando afferma che niente di «non detto» e di negato c’è stato nel programma che sulla sua rete ha avuto il maggior successo di sempre. Ma che cosa hanno fatto i non-Englaro e i non-Welby per meritare questo bavaglio e queste umiliazioni, questo puntiglioso sussiego? Sono forse troppi? Sì, sono tantissimi. Sono praticamente tutti quelli che si sono ritrovati arruolati loro malgrado nelle battaglie con la distrofia, la sclerosi multipla, la Sla... Sono quelli che conoscono o hanno conosciuto il coma, quelli che vengono definiti in stato vegetativo. Sono quelli che si sono risvegliati. E quelli che stanno ancora chiusi dentro. Sono quelli che stanno accanto, quelli che non indietreggiano, quelli che fanno spazio nelle loro case e nelle loro vite a queste altre vite inchiodate e tempestose. Sono quelli che magari credono in Gesù Cristo e non hanno paura della morte, ma non ci stanno a dire che l’amore e la scienza servono a niente. Sono quelli che magari non credono in Dio, ma non rinunciano a ogni respiro e a ogni pensiero. Quelli che accanirsi mai, ma eutanasia mai. Non hanno bisogno di «par condicio », perché la sfida per loro è comunque dispari. Hanno diritto a un po’ di verità. E la tv non è necessariamente e sempre altra dalla verità, altra dalla vita vera.
«Avvenire» del 26 novembre 2010
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