di Domenico Delle Foglie
Un’occasione importante per rileggere il Risorgimento capovolgendo lo sguardo: da Sud verso Nord.
Un’opportunità da cogliere per riscoprire personaggi delle nostre terre e il loro contributo alla costruzione di uno Stato nuovo: l’Italia. Una possibilità di decifrare i sentimenti di una parte di quel popolo, quello meridionale, passato dal tallone di una monarchia a quello di un’altra, senza coglierne le reali differenze.
Questo e tanto altro è Noi credevamo, il film diretto da Mario Martone, presentato alla Mostra del cinema di Venezia e appena approdato, in sole trenta pellicole, nelle sale italiane. Un film sul Risorgimento, come epopea tragica che si risolve nella storia di una sconfitta generazionale. In cui il crudo realismo della politica finisce inevitabilmente per vincere. Ma soprattutto un film che raccoglie l’espediente narrativo di Anna Banti, autrice dell’omonimo romanzo, per rinarrare il Risorgimento di tre giovani meridionali del Cilento: Domenico, Angelo e Salvatore.
Due nobili e un popolano affiliati alla Giovine Italia dopo la repressione borbonica dei moti del 1828, i cui destini saranno spezzati dall’accavallarsi degli avvenimenti tumultuosi di quegli anni. Ma non è di questa controstoria, letteraria ma non solo, che vogliamo occuparci.
Quanto concentrarci sulla memoria. Di sicuro possiamo affermare che le nostre origini unitarie non godono, per giudizio unanime, di una memoria condivisa. Di 'radici già marce', parla la principessa Cristina di Belgiojoso, uno dei personaggi più intriganti di questa pagina di storia.
Percepiamo che questo è uno dei tratti di debolezza della nostra identità al quale non riusciamo a porre rimedio con le categorie proprie della storia. È difficile che il rigore scientifico possa mettere ordine nei sentimenti. Lo sforzo degli storici è destinato a infrangersi sulla complessità delle vite e delle motivazioni che hanno spinto intellettuali, nobili e borghesi, a cercare le strade dell’Unità attraverso la cospirazione, la rivolta armata, il terrorismo, le campagne militari. Allora sarà utile rileggere questa Storia, attraverso le storie di uomini che provengono dalle nostre diverse terre, per intrecciare i tragitti locali con le grandi rotte nazionali. Ad esempio, per un pugliese sarà utile rileggere il percorso di Sigismondo da Castromediano, patriota leccese. Un’operazione analoga la suggeriamo ai bergamaschi o ai bresciani, che troverebbero pagine bellissime, ad esempio, nella spedizione dei Mille. Così come ai siciliani, a partire da Francesco Crispi e dei misteri legati alla sua mai provata partecipazione all’attentato fallito contro Napoleone III. Ecco, coltivare una parte anche minuscola di memoria per vivere, con partecipazione meno disincantata, quella pagina di memoria collettiva che saranno le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Un appuntamento al quale ci accostiamo forse più in ossequio alle divisioni politiche e ai pregiudizi sociali del nostro grigio oggi, che per accettazione convinta di un processo storico frutto di un’adesione di popolo.
Resta questo, infatti, l’interrogativo irrisolto: come sarebbe ancor oggi possibile mettere in dubbio l’unità nazionale se fosse stata davvero costruita dal popolo? Dinanzi a questo dubbio inevaso, coltiviamo almeno una memoria territoriale, regionale. Perché no, federale…
Un’opportunità da cogliere per riscoprire personaggi delle nostre terre e il loro contributo alla costruzione di uno Stato nuovo: l’Italia. Una possibilità di decifrare i sentimenti di una parte di quel popolo, quello meridionale, passato dal tallone di una monarchia a quello di un’altra, senza coglierne le reali differenze.
Questo e tanto altro è Noi credevamo, il film diretto da Mario Martone, presentato alla Mostra del cinema di Venezia e appena approdato, in sole trenta pellicole, nelle sale italiane. Un film sul Risorgimento, come epopea tragica che si risolve nella storia di una sconfitta generazionale. In cui il crudo realismo della politica finisce inevitabilmente per vincere. Ma soprattutto un film che raccoglie l’espediente narrativo di Anna Banti, autrice dell’omonimo romanzo, per rinarrare il Risorgimento di tre giovani meridionali del Cilento: Domenico, Angelo e Salvatore.
Due nobili e un popolano affiliati alla Giovine Italia dopo la repressione borbonica dei moti del 1828, i cui destini saranno spezzati dall’accavallarsi degli avvenimenti tumultuosi di quegli anni. Ma non è di questa controstoria, letteraria ma non solo, che vogliamo occuparci.
Quanto concentrarci sulla memoria. Di sicuro possiamo affermare che le nostre origini unitarie non godono, per giudizio unanime, di una memoria condivisa. Di 'radici già marce', parla la principessa Cristina di Belgiojoso, uno dei personaggi più intriganti di questa pagina di storia.
Percepiamo che questo è uno dei tratti di debolezza della nostra identità al quale non riusciamo a porre rimedio con le categorie proprie della storia. È difficile che il rigore scientifico possa mettere ordine nei sentimenti. Lo sforzo degli storici è destinato a infrangersi sulla complessità delle vite e delle motivazioni che hanno spinto intellettuali, nobili e borghesi, a cercare le strade dell’Unità attraverso la cospirazione, la rivolta armata, il terrorismo, le campagne militari. Allora sarà utile rileggere questa Storia, attraverso le storie di uomini che provengono dalle nostre diverse terre, per intrecciare i tragitti locali con le grandi rotte nazionali. Ad esempio, per un pugliese sarà utile rileggere il percorso di Sigismondo da Castromediano, patriota leccese. Un’operazione analoga la suggeriamo ai bergamaschi o ai bresciani, che troverebbero pagine bellissime, ad esempio, nella spedizione dei Mille. Così come ai siciliani, a partire da Francesco Crispi e dei misteri legati alla sua mai provata partecipazione all’attentato fallito contro Napoleone III. Ecco, coltivare una parte anche minuscola di memoria per vivere, con partecipazione meno disincantata, quella pagina di memoria collettiva che saranno le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Un appuntamento al quale ci accostiamo forse più in ossequio alle divisioni politiche e ai pregiudizi sociali del nostro grigio oggi, che per accettazione convinta di un processo storico frutto di un’adesione di popolo.
Resta questo, infatti, l’interrogativo irrisolto: come sarebbe ancor oggi possibile mettere in dubbio l’unità nazionale se fosse stata davvero costruita dal popolo? Dinanzi a questo dubbio inevaso, coltiviamo almeno una memoria territoriale, regionale. Perché no, federale…
«Avvenire» del 17 novembre 2010
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