Oggi la Chiesa sembra perdente di fronte al mondo, ma non è così Non solo in quanto nel Vangelo i veri trionfatori sono i martiri, ma perché noi non crediamo in una filosofia bensì in un fatto La riflessione del cardinale Biffi
di Giacomo Biffi
In questo tempo squinternato – che sembra dare sempre più spazio al rifiuto del messaggio evangelico sostanziale e si compiace di contestare in tutti i modi la Chiesa cattolica, il suo magistero e quasi la sua stessa esistenza – fa capolino talvolta nella nostra coscienza di credenti una domanda semplice e inquietante: noi cristiani, nella vicenda storica complessiva, siamo vincitori o siamo perdenti? Il pungente interrogativo di solito non arriva a mettere in crisi il nostro atto di fede, ma a darci qualche intimo disagio sì. Mette conto allora di affrontare in maniera esplicita il problema, passando in rassegna i diversi elementi, desunti dalla divina Rivelazione, che possono aiutarci a raggiungere una soluzione intimamente pacificante. Regola indubbia per vivere sicuri e soddisfatti è di stare per quel che è possibile dalla parte di chi vince. Gli italiani in genere conoscono bene questa norma furbesca e si sforzano di rispettarla. È un principio pratico che possiamo accogliere anche noi, con un’avvertenza però: che non si tratti di un vincitore temporaneo, destinato prima o poi alla sconfitta o almeno al superamento. Come canta il coro conclusivo del Falstaff di Verdi: «Ride bene chi ride – la risata final ». Ma l’unico vincitore, ultimo e definitivo è il Signore Gesù. Ce lo ha assicurato lui stesso in una delle ore più dolenti e significative della sua avventura terrena: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). E, dopo questa solenne dichiarazione, è andato incontro all’arresto, alla condanna, alla crocifissione, alla morte, alla Pasqua di risurrezione e di gloria: tutto questo – tutto – costituisce la sua “vittoria”. È una vittoria che origina nel tempo ma lo trascende. Gesù è il trionfatore in assoluto, e il suo trionfo è anche il nostro trionfo.
Noi che aderiamo attraverso la fede al suo mistero ed entriamo nella sua comunione vitale diventiamo – con lui, in lui, e per lui – vincitori indiscutibili, vincitori non insidiabili, vincitori perenni. Perciò la prima lettera di Giovanni può scrivere: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (1 Gv 5,4-5). Che la nostra ultima sorte sia positiva e fausta – e il nostro esito finale coincida, in Cristo, con un’apoteosi superiore a ogni nostra attesa – è dunque cosa sicura: se ci manteniamo con sincera fedeltà in questa prospettiva, la nostra travagliata avventura di credenti non mancherà mai di pace interiore e di gioia. Ma il convincimento dell’immancabile vittoria escatologica psicologicamente stride con l’esperienza dell’insuccesso e del decadimento che affligge qualche stagione, anche protratta, delle comunità cristiane. Sarà bene ricordare a questo proposito che il Signore non ci ha mai promesso una militanza terrena che fosse una continua marcia trionfale e una vita cristiana paragonabile a una passeggiata sotto i mandorli in fiore. Egli ha piuttosto moltiplicato gli avvertimenti contrari. Secondo Gesù il rapporto normale del mondo con la «nazione santa» (cfr. 1 Pt 2,9) – il «mondo», cioè le forze politiche, le culture dominanti, le potenze della comunicazione – non è la comprensione, la simpatia, il dialogo; è la persecuzione: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome » (Mt 10,22). Ma la persecuzione, secondo l’ottica di Cristo, non è per noi una sciagura: è un modo di assimilarci alla croce del Redentore, e quindi una partecipazione alla sua esaltazione. Il martire, secondo la coscienza certa della Chiesa, espressa con chiarezza dalla liturgia, non è uno sconfitto, è un trionfatore, perché ha attuato nella forma più perfetta l’imitazione di colui che «ha vinto il mondo ». È innegabile però che noi siamo tentati di tristezza quando ci troviamo alle prese con quello che ci sembra un declino del cristianesimo. Ma questo declino in effetti non c’è e non ci può essere, per la stessa autentica e indeformabile natura della realtà cristiana. Il cristianesimo primariamente e per sé non è una dottrina né un sistema etico né un insieme di pratiche rituali: intendiamoci, è anche tutte queste cose, ma non primariamente e per sé. Potremmo addirittura dire che primariamente e per sé non è neppure una “religione”: è una serie unificata di realtà (un avvenimento, una Persona, un disegno divino concepito nell’eternità e progressivamente attuato nella storia). È il “fatto” dell’Unigenito del Padre, che si fa uomo, si immola per la nostra salvezza, risorge, sta alla destra di Dio, effonde lo Spirito; e così diventa per noi principio di una vita nuova e più “vera”. Ora gli avvenimenti non sono mai scalfiti o messi in crisi da niente e da nessuno. Una filosofia che non abbia più alcun sostenitore è un fenomeno esaurito; una religione senza nessun seguace è una religione ormai estinta. Invece il Figlio di Dio che si incarna, la sua morte salvifica, la sua esistenza glorificata, il suo amplificarsi nella realtà del Christus totus, essendo dei “fatti” sono sempre vivi e vincenti; e lo sarebbero, pur se non ci fosse più nessuno quaggiù che li accolga e ci creda. Si capisce allora come mai Gesù possa seraficamente prefigurarsi per il futuro terreno dei suoi discepoli le ipotesi più deprimenti: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Per lui la realtà indeformabile degli eventi salvifici è più importante della quantità delle adesioni: «Disse allora ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene”» (Gv 6,67). Ci rimane un’ultima annotazione che aiuti la nostra fiducia e la nostra gioia, pur nelle circostanze più difficili della vicenda ecclesiale. Nella lettera agli Ebrei c’è una parola singolarmente intensa e illuminante: «Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13,8).
Quel Gesù che colma di sé l’intero percorso dei figli di Adamo e gli dà senso («ieri») e che vive e regna nell’eternità alla destra del Padre («per sempre»), non si è reso latitante dai giorni incerti e inquieti nei quali ci tocca di vivere quaggiù («oggi»). Non ci ha lasciati soli: continua a essere possente e attivo in mezzo a noi. Nessuna potenza mondana riuscirà mai a intimidire la «nazione santa», che sa di avere con sé il «Signore delle schiere».
Noi che aderiamo attraverso la fede al suo mistero ed entriamo nella sua comunione vitale diventiamo – con lui, in lui, e per lui – vincitori indiscutibili, vincitori non insidiabili, vincitori perenni. Perciò la prima lettera di Giovanni può scrivere: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (1 Gv 5,4-5). Che la nostra ultima sorte sia positiva e fausta – e il nostro esito finale coincida, in Cristo, con un’apoteosi superiore a ogni nostra attesa – è dunque cosa sicura: se ci manteniamo con sincera fedeltà in questa prospettiva, la nostra travagliata avventura di credenti non mancherà mai di pace interiore e di gioia. Ma il convincimento dell’immancabile vittoria escatologica psicologicamente stride con l’esperienza dell’insuccesso e del decadimento che affligge qualche stagione, anche protratta, delle comunità cristiane. Sarà bene ricordare a questo proposito che il Signore non ci ha mai promesso una militanza terrena che fosse una continua marcia trionfale e una vita cristiana paragonabile a una passeggiata sotto i mandorli in fiore. Egli ha piuttosto moltiplicato gli avvertimenti contrari. Secondo Gesù il rapporto normale del mondo con la «nazione santa» (cfr. 1 Pt 2,9) – il «mondo», cioè le forze politiche, le culture dominanti, le potenze della comunicazione – non è la comprensione, la simpatia, il dialogo; è la persecuzione: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome » (Mt 10,22). Ma la persecuzione, secondo l’ottica di Cristo, non è per noi una sciagura: è un modo di assimilarci alla croce del Redentore, e quindi una partecipazione alla sua esaltazione. Il martire, secondo la coscienza certa della Chiesa, espressa con chiarezza dalla liturgia, non è uno sconfitto, è un trionfatore, perché ha attuato nella forma più perfetta l’imitazione di colui che «ha vinto il mondo ». È innegabile però che noi siamo tentati di tristezza quando ci troviamo alle prese con quello che ci sembra un declino del cristianesimo. Ma questo declino in effetti non c’è e non ci può essere, per la stessa autentica e indeformabile natura della realtà cristiana. Il cristianesimo primariamente e per sé non è una dottrina né un sistema etico né un insieme di pratiche rituali: intendiamoci, è anche tutte queste cose, ma non primariamente e per sé. Potremmo addirittura dire che primariamente e per sé non è neppure una “religione”: è una serie unificata di realtà (un avvenimento, una Persona, un disegno divino concepito nell’eternità e progressivamente attuato nella storia). È il “fatto” dell’Unigenito del Padre, che si fa uomo, si immola per la nostra salvezza, risorge, sta alla destra di Dio, effonde lo Spirito; e così diventa per noi principio di una vita nuova e più “vera”. Ora gli avvenimenti non sono mai scalfiti o messi in crisi da niente e da nessuno. Una filosofia che non abbia più alcun sostenitore è un fenomeno esaurito; una religione senza nessun seguace è una religione ormai estinta. Invece il Figlio di Dio che si incarna, la sua morte salvifica, la sua esistenza glorificata, il suo amplificarsi nella realtà del Christus totus, essendo dei “fatti” sono sempre vivi e vincenti; e lo sarebbero, pur se non ci fosse più nessuno quaggiù che li accolga e ci creda. Si capisce allora come mai Gesù possa seraficamente prefigurarsi per il futuro terreno dei suoi discepoli le ipotesi più deprimenti: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Per lui la realtà indeformabile degli eventi salvifici è più importante della quantità delle adesioni: «Disse allora ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene”» (Gv 6,67). Ci rimane un’ultima annotazione che aiuti la nostra fiducia e la nostra gioia, pur nelle circostanze più difficili della vicenda ecclesiale. Nella lettera agli Ebrei c’è una parola singolarmente intensa e illuminante: «Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!» (Eb 13,8).
Quel Gesù che colma di sé l’intero percorso dei figli di Adamo e gli dà senso («ieri») e che vive e regna nell’eternità alla destra del Padre («per sempre»), non si è reso latitante dai giorni incerti e inquieti nei quali ci tocca di vivere quaggiù («oggi»). Non ci ha lasciati soli: continua a essere possente e attivo in mezzo a noi. Nessuna potenza mondana riuscirà mai a intimidire la «nazione santa», che sa di avere con sé il «Signore delle schiere».
«Avvenire» del 16 novembre 2010
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