Dopo l’approvazione della legge sulla parità gli iscritti diminuiti del 10,6%. Al contrario di Belgio, Olanda, Francia e Spagna
di Guglielmo Malizia
Due aspetti della questione «parità» sono rilevanti non solo in se stessi, ma soprattutto per il contrasto tra essi esistenti: infatti, la qualità dell’educazione delle scuole cattoliche non trova conforto nella consistenza quantitativa delle medesime nel senso che al livello elevato della qualità non corrisponde un numero di iscritti quale ci si potrebbe aspettare sulla base della riconosciuta validità dell’offerta. Nel lungo periodo, la scuola non statale ha registrato tra l’inizio degli anni ’80 e la fine dei ’90 una diminuzione per cui la sua porzione di iscritti ammontava nel 1997-’98 al 13,8% del totale. L’approvazione della legge sulla parità nel 2000 non solo non ha modificato questo trend, ma anzi la percentuale è diminuita al 10,6%; al contrario, in Belgio il dato totale raggiunge il 60% circa, il 70% in Olanda e il 20% in Francia e in Spagna. È facile spiegare questa dinamica tutta italiana con il fatto che la realizzazione del diritto alla libertà di educazione continua a essere insoddisfacente. Nel medio periodo, 1997-2008, le informazioni relative alle scuole dell’infanzia della Fism evidenziano una significativa crescita dei bambini pari a +19,9%. Al contrario la Fidae registra una calo consistente nel totale della scuole (-15,4%) e degli alunni (-5%), anche se la diminuzione si concentra tutta nella secondaria di 2° grado (-20,3%), mentre la primaria e la secondaria di 1° grado assistono a un leggera crescita (+0,2% e +2,2%). Per quanto riguarda i centri di formazione professionale di ispirazione cristiana della Confap, si registra una diminuzione nel numero dei cfp (-23.7%); per contro, va segnalato un aumento degli allievi di un terzo (+33.2%). Nel breve periodo, 2009-’10, emerge che il sistema complessivo delle scuole paritarie è decisamente squilibrato verso il basso, con la scuola dell’infanzia che incide per oltre il 70%. Quanto agli enti gestori, più di un terzo è un gestore laico, mentre le scuole cattoliche costituiscono intorno ai due terzi. Si sfata così il pregiudizio che le scuole non statali siano le «scuole dei preti». Passando sul piano qualitativo, la scuola cattolica in Italia si è sempre misurata con gli scenari sociali e culturali di ciascuna fase storica. Stimolata dai nuovi orizzonti delineati dall’approvazione della Costituzione, poi dalla diffusione della cultura del personalismo e quindi, su scala ancora più vasta, dal Concilio Vaticano II, essa ha ripensato e rafforzato nella seconda metà del XX secolo la sua azione educativa, mettendosi in ascolto dei bisogni formativi emergenti, intensificando il dialogo con la cultura contemporanea, aprendosi alla collaborazione con le istituzioni della comunità ecclesiale e della società civile, potenziando la dimensione comunitaria e rinnovando la propria azione pastorale in campo educativo. In particolare, essa si è qualificata come laboratorio di ricerca e di riforme, avviando numerose sperimentazioni che hanno dato un apporto significativo al cambiamento didattico, pedagogico e talora istituzionale del nostro sistema educativo, in un certo senso anticipando il periodo delle riforme degli anni ’90 con la predisposizione dei progetti educativi di istituto, dei profili degli alunni, della costruzione delle unità formative e con indagini e sperimentazioni sulla qualità dell’offerta formativa e la certificazione delle competenze, coniando ed elaborando parole e concetti nuovi e rilevanti quali scuola della persona e delle persone, centralità della persona e della scuola, educazione personalizzata, solidarietà e alleanza per l’educazione, sussidiarietà e convivialità delle differenze. Insomma, la scuola cattolica non si trova al rimorchio del modello statale, ma ambisce a un’attiva funzione trainante e vorrebbe che – proprio nello spirito della parità – questa condizione le fosse riconosciuta. Non certo per rivendicare un’egemonia, ma per aspirare, con atteggiamento di servizio e collaborazione, almeno a una effettiva parità.
«Avvenire» del 26 novembre 2010
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