I radicali ci provano. Contro cuore e legge
di Francesco Ognibene
In un Paese nel quale va pericolosamente logorandosi il principio di responsabilità, occorre sempre stare in guardia di fronte alle sparate deliberatamente provocatorie. A prima vista sembrano eccessi senza futuro, ma poi si scopre che finiscono per scavare nella coscienza collettiva producendo ingenti danni a lunga scadenza. Non ci vuol nulla a tirare un sasso nella cristalleria dei valori condivisi da un intero popolo, sperando di produrre il maggior danno possibile e di portare a casa discutibilissimi dividendi. Ma questa attività di premeditato bullismo politico e culturale va chiamata col proprio nome, smascherandone subito l’aperta strumentalità. E chiamando chi può – e deve, per funzione istituzionale – a sopperire con la propria al grave difetto di responsabilità altrui. L’ultimo esempio è di ieri. L’eutanasia in Italia è illegale? Visto che in Parlamento quasi nessuno la vuole ammettere per legge, allora si prova a blandire l’opinione pubblica mostrandone il volto 'libertario' e 'pietoso' attraverso uno spot televisivo nel quale un malato terminale spiega pacatamente di voler scegliere come e quando farla finita. I radicali, promotori del nuovo abbordaggio a quello che chiamano «tabù» ma che è semplice senso comune (presidiato dal diritto), tentano una nuova sortita per via mediatica e scavalcano la rappresentanza politica, ben sapendo che solo la loro proposta di legge sul «fine vita» prevede esplicitamente l’eutanasia: dunque sono del tutto isolati, scaricati ieri persino dal loro collega nel Pd Ignazio Marino – pure sostenitore dell’autodeterminazione assoluta –, che teme un autogol parlamentare con la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento ancora attesa al passaggio in aula alla Camera.
Lo spot non è nuovo alle cronache. Si tratta infatti della versione italiana dei 40 secondi televisivi prodotti in Australia da Exit – l’associazione che si batte su scala internazionale per legalizzare l’eutanasia – e bocciati a metà settembre dalla locale Authority per la pubblicità poco prima che potessero andare in onda. Rilanciato poi in Canada, lo spot viene ora adottato da una delle molte sigle della galassia radicale – l’associazione Luca Coscioni – col chiaro intento di provocare un caso, aprire una breccia e azzardare la dimostrazione del trito teorema secondo il quale il Paese sarebbe più avanti del Palazzo (e della Chiesa, manco a dirlo) nell’esigere la codificazione di nuove 'libertà', compresa quella di farsi uccidere. È vero: gli italiani sono molto più consapevoli e maturi rispetto a come vengono dipinti, ma nel senso opposto a quello immaginato da certuni. E a poco serve sbandierare sondaggi – come succede in coda allo spot – realizzati allo scopo di dimostrare quel che si desidera. Chi soffre (e, con loro, le famiglie) non chiede di morire ma di essere aiutato a vivere. E l’acuta preoccupazione con la quale i palliativisti italiani hanno accolto ieri la pubblicità all’eutanasia basta e avanza per screditare questionari e campagne.
Va peraltro ricordato agli smemorati che il Codice penale sanziona con chiarezza l’«omicidio del consenziente», la fattispecie sotto la quale ricadono eutanasia e suicidio assistito. Permettere che si pubblicizzi un reato attraverso i mezzi di comunicazione a noi pare inammissibile: ed è lecito attendersi che l’Autorità garante delle comunicazioni, alla quale i radicali si sono rivolti per chiedere il via libera allo spot della morte, faccia il proprio dovere senza esitazioni fermando questa inutile provocazione. Sempre ammesso che non ci pensino prima l’editore o il direttore di Telelombardia, l’emittente commerciale milanese che si è incautamente prestata all’operazione. Associare il proprio nome a questo macabro gioco non serve ad accreditarsi se non presso i radicali e i loro sodali. Poca roba, a conti fatti. Anche per chi dovesse mirare solo all’audience.
Lo spot non è nuovo alle cronache. Si tratta infatti della versione italiana dei 40 secondi televisivi prodotti in Australia da Exit – l’associazione che si batte su scala internazionale per legalizzare l’eutanasia – e bocciati a metà settembre dalla locale Authority per la pubblicità poco prima che potessero andare in onda. Rilanciato poi in Canada, lo spot viene ora adottato da una delle molte sigle della galassia radicale – l’associazione Luca Coscioni – col chiaro intento di provocare un caso, aprire una breccia e azzardare la dimostrazione del trito teorema secondo il quale il Paese sarebbe più avanti del Palazzo (e della Chiesa, manco a dirlo) nell’esigere la codificazione di nuove 'libertà', compresa quella di farsi uccidere. È vero: gli italiani sono molto più consapevoli e maturi rispetto a come vengono dipinti, ma nel senso opposto a quello immaginato da certuni. E a poco serve sbandierare sondaggi – come succede in coda allo spot – realizzati allo scopo di dimostrare quel che si desidera. Chi soffre (e, con loro, le famiglie) non chiede di morire ma di essere aiutato a vivere. E l’acuta preoccupazione con la quale i palliativisti italiani hanno accolto ieri la pubblicità all’eutanasia basta e avanza per screditare questionari e campagne.
Va peraltro ricordato agli smemorati che il Codice penale sanziona con chiarezza l’«omicidio del consenziente», la fattispecie sotto la quale ricadono eutanasia e suicidio assistito. Permettere che si pubblicizzi un reato attraverso i mezzi di comunicazione a noi pare inammissibile: ed è lecito attendersi che l’Autorità garante delle comunicazioni, alla quale i radicali si sono rivolti per chiedere il via libera allo spot della morte, faccia il proprio dovere senza esitazioni fermando questa inutile provocazione. Sempre ammesso che non ci pensino prima l’editore o il direttore di Telelombardia, l’emittente commerciale milanese che si è incautamente prestata all’operazione. Associare il proprio nome a questo macabro gioco non serve ad accreditarsi se non presso i radicali e i loro sodali. Poca roba, a conti fatti. Anche per chi dovesse mirare solo all’audience.
«Avvenire» del 10 novembre 2010
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