s. i. a.
Nel 1971 il New York Times e il Washington Post cominciarono la pubblicazione dei Pentagon Papers. Migliaia di pagine scritte su istruzione di Robert McNamara, segretario alla difesa nell’epoca drammatica della guerra americana in Vietnam. Si scoprì per tabulas quel che si sapeva benissimo a orecchio: le guerre sono avvolte dalla nebbia, le motivazioni e gli annunci dei governi hanno un rapporto diretto con l’utile e la sicurezza nazionale, ma una relazione obliqua con la verità, e tutti i presidenti americani da Truman a Johnson avevano governato le contraddizioni del potere, specie nel suo rapporto con l’opinione pubblica di sistemi liberali, con mezzi diversi dai paternoster.
Anche in ragione dei Papers, il Vietnam si chiuse male per gli americani, e a trarne vantaggio furono i sovietici e le ideologie che nella Guerra fredda avevano scelto la parte sbagliata del confine.
E’ altissimo il costo delle utopie regressive, quei ghirigori tracciati sull’ordito della storia umana allo scopo di restaurare uno stato edenico, riaprendo le porte del paradiso terrestre per ricondurre il nostro ceppo a prima del morso della mela e a prima della cacciata. Wikileaks, ambigua e affascinante associazione bloggistica che scherza con il fuoco ormai da anni, nella pretesa di tutelare il mondo dall’oscurità di motivazioni e comportamenti dei governi (“we open governments” il loro slogan), è l’ultima incarnazione di questa idea che la politica possa essere comunionale e paciosa, priva di contraddizioni e conflitti, esente dal dovere del segreto e del doppio linguaggio (soprattutto in diplomazia e nei sistemi di difesa e di attacco).
Ora le ultime rivelazioni, in arrivo a quanto pare nello spazio di 24 ore, promettono caos. Di nuovo, si tratterà di apprendere in forma documentale quanto si sa già per intuito e senso storico: in politica si mente spesso, gli stati sono cinici e bari, i leader dell’economia e della politica subordinano i mezzi ai fini abbastanza regolarmente. Le famose rivelazioni finiranno per ridurre a sciatto pettegolezzo quella cosa complessa e interessante e utile che sarebbe in teoria, ed è anche in pratica, l’esercizio del potere politico, e indurranno necessariamente gli stati a un accordo generalizzato di negazione e marginalizzazione dell’informazione pirata, quanto meno per tutelarsi ciascuno dalle proprie colpe.
Peccato che i costi umani siano molto alti. Gli informatori degli alleati in Afghanistan, i cui nomi furono segnalati da Wikileaks con le conseguenze letali immaginabili, ne sanno qualcosa. Ma soldati e civili nelle situazioni di conflitto hanno subito una condizione nuova, in cui i new media ricattano e paralizzano la politica dall’interno, in nome dello pseudoconcetto della trasparenza, fin dai tempi dell’assurdo talk show mondiale sulle motivazioni della guerra in Iraq. Informare e dissentire, usare la verità come strumento politico, è attività nobile, illuminata da uno scopo; smantellare le infrastrutture della sicurezza e della diplomazia è un esperimento delirante.
Anche in ragione dei Papers, il Vietnam si chiuse male per gli americani, e a trarne vantaggio furono i sovietici e le ideologie che nella Guerra fredda avevano scelto la parte sbagliata del confine.
E’ altissimo il costo delle utopie regressive, quei ghirigori tracciati sull’ordito della storia umana allo scopo di restaurare uno stato edenico, riaprendo le porte del paradiso terrestre per ricondurre il nostro ceppo a prima del morso della mela e a prima della cacciata. Wikileaks, ambigua e affascinante associazione bloggistica che scherza con il fuoco ormai da anni, nella pretesa di tutelare il mondo dall’oscurità di motivazioni e comportamenti dei governi (“we open governments” il loro slogan), è l’ultima incarnazione di questa idea che la politica possa essere comunionale e paciosa, priva di contraddizioni e conflitti, esente dal dovere del segreto e del doppio linguaggio (soprattutto in diplomazia e nei sistemi di difesa e di attacco).
Ora le ultime rivelazioni, in arrivo a quanto pare nello spazio di 24 ore, promettono caos. Di nuovo, si tratterà di apprendere in forma documentale quanto si sa già per intuito e senso storico: in politica si mente spesso, gli stati sono cinici e bari, i leader dell’economia e della politica subordinano i mezzi ai fini abbastanza regolarmente. Le famose rivelazioni finiranno per ridurre a sciatto pettegolezzo quella cosa complessa e interessante e utile che sarebbe in teoria, ed è anche in pratica, l’esercizio del potere politico, e indurranno necessariamente gli stati a un accordo generalizzato di negazione e marginalizzazione dell’informazione pirata, quanto meno per tutelarsi ciascuno dalle proprie colpe.
Peccato che i costi umani siano molto alti. Gli informatori degli alleati in Afghanistan, i cui nomi furono segnalati da Wikileaks con le conseguenze letali immaginabili, ne sanno qualcosa. Ma soldati e civili nelle situazioni di conflitto hanno subito una condizione nuova, in cui i new media ricattano e paralizzano la politica dall’interno, in nome dello pseudoconcetto della trasparenza, fin dai tempi dell’assurdo talk show mondiale sulle motivazioni della guerra in Iraq. Informare e dissentire, usare la verità come strumento politico, è attività nobile, illuminata da uno scopo; smantellare le infrastrutture della sicurezza e della diplomazia è un esperimento delirante.
«Il Foglio» del 27 novembre 2010
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