Parla Antonella Cilento, docente di scrittura creativa: «È possibile partire da Harry Potter e arrivare a Dickens e Leopardi. I giovani si divertono se faccio loro scrivere racconti come messaggini. È la società che non dà valore al libro. E gli insegnanti per primi non leggono»
di Giorgio Agnisola
Serve ancora leggere e scrivere? La domanda potrebbe apparire retorica, eppure Antonella Cilento, coordinatrice da diciotto anni di corsi di scrittura creativa in giro per l’Italia, nel suo ultimo libro, apparso in questi giorni in libreria, Asino chi legge, i giovani, i libri la scrittura (Guanda), se lo domanda seriamente tra un viaggio e l’altro, mettendo in discussione il suo stesso lavoro di scrittrice. «Da qualche anno leggere è considerato una perdita di tempo, addirittura un errore, un insignificante vizio. Studiare e leggere nell’opinione comune non portano da nessuna parte, non ti aprono al mondo del lavoro, non fanno di te una persona migliore.
Anche a scuola gli studenti leggono a fatica e gli insegnanti che vogliono portarli alla lettura sono i primi a leggere di rado e senza criterio».
Allora, cosa si può fare per recuperare un interesse per la lettura, soprattutto a scuola?
«Io credo che non sia pensabile un recupero senza una strategia, che non attiene tanto ai mezzi, alle risorse, alle tecnologie, quanto al significato stesso della letteratura, alla necessità che ognuno di noi ha di storie e di parole. Se i ragazzi sentono il bisogno dei libri prima di analizzarli, se i ragazzi scoprono che i libri parlano della loro storia, oltre che di personaggi di fantasia, che nei libri sono nascoste le domande che ci accomunano tutti – chi siamo, perché siamo al mondo, perché le persone si relazionano in un certo modo – allora c’è una speranza. È quel che mi accade insegnando scrittura: si può iniziare da Harry Potter per arrivare a Dickens. Quando i ragazzi scopriranno che i libri si parlano tra loro e dialogano con il lettore, che i libri sono la più grande rete di relazioni ad altro tasso emotivo – altro che internet – che l’uomo abbia mai creato e che questa rete si interfaccia di continuo con la pittura, la musica, il teatro, il cinema e la stessa società civile, allora sì che tornerà l’interesse per la lettura».
Credo però che siano cambiati i contesti, i gusti e le attese connessi con la lettura. I giovani di fatto leggono ancora, ma su internet, chattano, si scambiano messaggi a ritmo frenetico con i telefonini...
«Sì e la trasformazione dei media trasforma i rapporti: alcuni miei studenti si lasciano e si rimettono insieme per sms, cosa paradossale, e infatti si divertono molto quando faccio loro scrivere racconti lunghi quanto un sms. Ma la questione riguarda la sostanza: è il valore che la società sta dando al libro che è cambiato. Fino a pochi decenni fa ogni casa aveva la sua piccola libreria, in cui trovavi Salgari e Verne accanto a Pavese e Proust, magari alla rinfusa, ma era comunque un piccolo patrimonio di idee e di rimandi culturali. E per ogni famiglia leggere e studiare era una promozione sociale, un accesso privilegiato al mondo del lavoro. Gli ultimi vent’anni hanno svuotato le librerie delle case, sugli scaffali trovi le compilation della playstation. Anche il fumetto è archeologia per ragazzi invecchiati. In una scuola, come racconto nel libro, ho trovato ragazzi che avevano abbandonato l’obbligo scolastico e non conoscevano Cenerentola: se nessuno a casa racconta le favole, la scuola può solo arrancare nel tentativo di riempire questo vuoto».
La questione riguarda dunque il metodo e più in profondità il senso stesso della scuola e delle sue radici formative.
«Certamente. Oggi l’equivoco educativo è terrificante. Invece di creare fili che portano i ragazzi verso l’esterno, verso la società civile, l’arte, il teatro, la letteratura, la scuola rischia di cedere al modello Maria De Filippi, alla lite televisiva e alla spettacolarizzazione. Prevale la non specificità dell’insegnante e dell’alunno, sicché spesso l’insegnante non sa cosa insegna e l’alunno non sa a cosa è veramente interessato».
Anche la scrittura sembra attrarre sempre meno i giovani. Come e quanto si scrive a scuola?
«I giovani, per quanto si dica spesso male di loro, sono ancora delle pile cariche, pronte a sprizzare energia. Se coinvolti, se interessati, soprattutto se resi protagonisti della loro stessa avventura interiore, rispondono in modo strabiliante.
Invece i programmi li incastrano in forme senza anima: il saggio breve, l’analisi del testo. Tutte cose utilissime, ma solo dopo che ci si è innamorati della scrittura. Se li si riporta alla passione per la narrazione, all’origine del racconto, di colpo le cose cambiano: scrivono, leggono, s’innamorano di romanzi e poesie.
Occorre capovolgere le regole, dare a esse un significato di libertà creativa. Non si suda più leggendo Leopardi e Manzoni? Il tema è archiviato? Bene, ripartiremo dai film più gettonati, dai libri più venduti, citeremo i cartoni alla moda: per iniziare, discutere, ragionare. I giovani vogliono scrivere: aiutiamoli a dare senso alla loro stessa storia, a raccordare le parole alla loro anima».
Anche a scuola gli studenti leggono a fatica e gli insegnanti che vogliono portarli alla lettura sono i primi a leggere di rado e senza criterio».
Allora, cosa si può fare per recuperare un interesse per la lettura, soprattutto a scuola?
«Io credo che non sia pensabile un recupero senza una strategia, che non attiene tanto ai mezzi, alle risorse, alle tecnologie, quanto al significato stesso della letteratura, alla necessità che ognuno di noi ha di storie e di parole. Se i ragazzi sentono il bisogno dei libri prima di analizzarli, se i ragazzi scoprono che i libri parlano della loro storia, oltre che di personaggi di fantasia, che nei libri sono nascoste le domande che ci accomunano tutti – chi siamo, perché siamo al mondo, perché le persone si relazionano in un certo modo – allora c’è una speranza. È quel che mi accade insegnando scrittura: si può iniziare da Harry Potter per arrivare a Dickens. Quando i ragazzi scopriranno che i libri si parlano tra loro e dialogano con il lettore, che i libri sono la più grande rete di relazioni ad altro tasso emotivo – altro che internet – che l’uomo abbia mai creato e che questa rete si interfaccia di continuo con la pittura, la musica, il teatro, il cinema e la stessa società civile, allora sì che tornerà l’interesse per la lettura».
Credo però che siano cambiati i contesti, i gusti e le attese connessi con la lettura. I giovani di fatto leggono ancora, ma su internet, chattano, si scambiano messaggi a ritmo frenetico con i telefonini...
«Sì e la trasformazione dei media trasforma i rapporti: alcuni miei studenti si lasciano e si rimettono insieme per sms, cosa paradossale, e infatti si divertono molto quando faccio loro scrivere racconti lunghi quanto un sms. Ma la questione riguarda la sostanza: è il valore che la società sta dando al libro che è cambiato. Fino a pochi decenni fa ogni casa aveva la sua piccola libreria, in cui trovavi Salgari e Verne accanto a Pavese e Proust, magari alla rinfusa, ma era comunque un piccolo patrimonio di idee e di rimandi culturali. E per ogni famiglia leggere e studiare era una promozione sociale, un accesso privilegiato al mondo del lavoro. Gli ultimi vent’anni hanno svuotato le librerie delle case, sugli scaffali trovi le compilation della playstation. Anche il fumetto è archeologia per ragazzi invecchiati. In una scuola, come racconto nel libro, ho trovato ragazzi che avevano abbandonato l’obbligo scolastico e non conoscevano Cenerentola: se nessuno a casa racconta le favole, la scuola può solo arrancare nel tentativo di riempire questo vuoto».
La questione riguarda dunque il metodo e più in profondità il senso stesso della scuola e delle sue radici formative.
«Certamente. Oggi l’equivoco educativo è terrificante. Invece di creare fili che portano i ragazzi verso l’esterno, verso la società civile, l’arte, il teatro, la letteratura, la scuola rischia di cedere al modello Maria De Filippi, alla lite televisiva e alla spettacolarizzazione. Prevale la non specificità dell’insegnante e dell’alunno, sicché spesso l’insegnante non sa cosa insegna e l’alunno non sa a cosa è veramente interessato».
Anche la scrittura sembra attrarre sempre meno i giovani. Come e quanto si scrive a scuola?
«I giovani, per quanto si dica spesso male di loro, sono ancora delle pile cariche, pronte a sprizzare energia. Se coinvolti, se interessati, soprattutto se resi protagonisti della loro stessa avventura interiore, rispondono in modo strabiliante.
Invece i programmi li incastrano in forme senza anima: il saggio breve, l’analisi del testo. Tutte cose utilissime, ma solo dopo che ci si è innamorati della scrittura. Se li si riporta alla passione per la narrazione, all’origine del racconto, di colpo le cose cambiano: scrivono, leggono, s’innamorano di romanzi e poesie.
Occorre capovolgere le regole, dare a esse un significato di libertà creativa. Non si suda più leggendo Leopardi e Manzoni? Il tema è archiviato? Bene, ripartiremo dai film più gettonati, dai libri più venduti, citeremo i cartoni alla moda: per iniziare, discutere, ragionare. I giovani vogliono scrivere: aiutiamoli a dare senso alla loro stessa storia, a raccordare le parole alla loro anima».
«Avvenire» del 16 novembre 2010
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