27 novembre 2010

Guerra al pirata che c’è in noi

Filibustieri, bucanieri e altri poveracci, tutti inevitabilmente all’arrembaggio: due studi su questa figura celebrata dalla letteratura e talvolta usata dalla politica per per il «lavoro sporco»
di Damiano Palano
Nell’immaginario collettivo, l’ico­nografia del pirata deve molto al­le pagine di autori come Robert L. Stevenson, Jules Verne o Emilio Salga­ri. Grazie a questi straordinari scrittori, la sagoma del pirata assume anche per noi le fattezze di Long John Silver, del ca­pitano Nemo o di Sandokan, continuan­do così a esercitare il fascino delle crea­ture misteriose. Naturalmente, i ritratti dipinti da Salgari e dai suoi illustri pre­decessori non erano affatto realistici. Si trattava piuttosto di un’efficace opera di reinvenzione, della rilettura di un’icono­grafia popolare che trovava nelle pagine dei romanzi d’avventura una sor­ta di consacrazione, ma che cer­to non riempiva il vuoto di cono­scenze sulla realtà storica della pirateria, sulle sue pratiche, sul­la sua umanità di reietti.
È anche per colmare questa la­cuna che Gilles Lapouge, in Pira­ti. Predoni, filibustieri, bucanieri e altri 'pezzenti del mare', ripercorre – con una sorta di evocativo «viaggio lette­rario » – le traiettorie storiche di un feno­meno antichissimo. Un fenomeno di cui parlava già Omero nell’Odissea, ma che entra nella stagione di maggior sviluppo a partire dal XVI secolo, quando le rotte si estendono verso il Nuovo mondo. Il Cinquecento è così l’epoca della grande pirateria inglese, ambiguamente soste­nuta dall’aristocrazia e persino incorag­giata da Elisabetta I. E se con Giacomo I comincia il declino dei pirati inglesi, i ri­belli del mare spostano il baricentro del­le loro attività criminali verso il Nuovo continente. Bucanieri e filibustieri trova­no allora la capitale nella piccola isola di Tortuga, che rimane il loro regno incon­trastato per buona parte del Seicento. Ma quando la pace di Utrecht (1713), rista­bilendo la concordia in Occidente, priva la pirateria di ogni patente politica, ini­zia il lungo declino, che dura per più di un secolo, fino alla metà dell’Ottocento. Negli ultimi anni, le cronache hanno però riportato di nuovo alla ribalta la pirate­ria marittima, che in diverse aree del mondo è tornata a costituire un fattore ri­levante di insicurezza. Nel Il Nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, Daniel Heller-Roazen, docente di Letteratura comparata all’Università di Princeton, ri­costruisce una sorta di «genealogia» del­la pirateria. Una genealogia che si pone l’obiettivo di portare alla luce le peculia­rità della figura giuridica del 'pirata', os­sia di quel particolare tipo di criminale che già Cicerone, nel De officiis, definiva come «il nemico comune di tutti». In so­stanza, per quanto il fenomeno attraver­si nella sua storia trasformazioni radica­li, la figura del pirata pare sempre con­trassegnata da alcuni elementi di fondo, riconducibili a un vero e proprio 'para­digma'. Innanzitutto, la pirateria opera in una regione in cui vengono applicate norme giuridiche straordinarie. In se­condo luogo, il pirata si rivolge indiscri­minatamente contro individui e asso­ciazioni politiche, e per questo può essere definito come «nemico di tutti». Inoltre, il pirata non è né un criminale né un ne­mico politico, ma qualcosa di diverso: è un nemico per l’intera comunità inter­nazionale, la quale può perciò adottare strumenti di difesa eccezionali, polizie­schi e politici. Gli elementi di questo paradigma pos­sono essere ritrovati nel mondo greco­romano, nel Medioevo e soprattutto nel­la lunga stagione dello jus publicum eu­ropaeum.
Ma, anche dopo la scomparsa dei vecchi filibustieri, il paradigma non cessa di funzionare. Come, per esempio nello spazio sottomarino (con l’affonda­mento del Lusitania, nel 1915), nello spa­zio aereo (con la nascita dei «pirati del­l’aria ») o nello spazio virtuale di Internet. Secondo Heller-Roazen, la rinascita con­temporanea del pirata è in sostanza un effetto dell’estensione dell’ordine sta­tuale a tutto il globo. In questo quadro, quando una regione fuoriesce dall’ordi­ne, configura uno spazio di disordine in cui è possibile riconoscere la pi­rateria. E, così, «non è più il pi­rata a essere definito dalla regio­ne in cui si muove», ma «è la re­gione della pirateria a essere de­sunta dalla presenza del pirata». Per questo, si tratta di una tra­sformazione radicale, che non può che alimentare rischi note­voli. Uno dei quali è ovviamente la ten­tazione di intendere la guerra contro un nemico eccezionale come una guerra ec­cezionale. Una guerra senza limiti e sen­za alcun vincolo morale.

Gilles Lapouge, Pirati. Predoni, filibustieri, bucanieri e altri 'pezzenti del mare'. Excelsior 1881. Pp, 212. € 18,50

Daniel Heller-Roazen, NEMICO DI TUTTI. Il pirata contro le nazioni, Quodlibet. Pp.286; € 22,00
I predoni son tornati alle cronache. Fenomeno antico, ne parlava già Omero, in epoca moderna fu anche usato per giochi di potere fra Stati. Oggi è l’alibi per conflitti senza più regole
«Avvenire» del 27 novembre 2010

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