Prima il cristianesimo adottò le leggi romane anche per organizzarsi, confondendo però spirituale e temporale; poi iniziò un cammino per liberarsi dalle strutture ingiuste. Un bilancio a più facce
di Carlo Cardia
Il cristianesimo si incontra presto con il diritto, e finisce con l’esservi pienamente coinvolto. La sua diffusione si realizza nella realtà dell’impero romano, che ha raggiunto un livello di maturità e sapienza giuridica ancora oggi insuperato, con un’autorità politica centrale e una legislazione ammirate in ogni epoca. La nuova religione assimila la mentalità e la pratica giuridica sin dai tempi delle persecuzioni, quando vive e si struttura utilizzando gli strumenti del diritto romano per ciò che riguarda la propria organizzazione, amministrazione dei beni, struttura gerarchica. Ma la compenetrazione con il diritto si determina soprattutto quando diviene religio licita nel 313, religione dell’impero nel 380, in proporzioni che ingigantiscono con il tempo.
Le ragioni della «giuridicizzazione del cristianesimo» sono oggetto di discussione, senza che una tesi riesca a prevalere sull’altra. La più convincente ritiene che il diritto sia connaturato al cristianesimo, pur non potendosi negare il ruolo svolto dall’incontro con la romanità. Per Paolo Grossi, «su un punto si può tranquillamente concordare: che questa Chiesa – che è romana, che dalla civiltà romana ha assorbito molto (...) – questa Chiesa ha avuto da Roma in legato il sentimento della rilevanza del diritto e, di conseguenza, la persuasione del diritto come cemento sociale come garanzia di incisività nella storia e – perché no? – anche come strumento potestativo».
Però, aggiunge l’autore, la ragione del rapporto inscindibile tra Chiesa e diritto è un’altra, risiede nel fatto che il cristianesimo sceglie di agire nella società come nel proprio ambiente naturale. La «Chiesa non diffida del temporale, anzi vi si immerge ben volentieri convintissima che la salvezza eterna dei fedeli si gioca proprio qui, nel tempo e nelle temporalità (...). Ma nel temporale non vivono individui isolati, bensì un reticolato di rapporti che uniscono gli individui nella societas ». La comunità «protegge, garantisce, media», è «l’unico tramite sicuro per un colloquio efficace con la divinità», e ne deriva «la preminenza e l’essenzialità del giuridico», perché «se per l’ideologia religiosa cattolica è nel sociale che si gioca la salus aeterna animarum, il diritto, compenetrato nel sociale, lo è implicitamente anche al religioso. Il diritto si colloca naturalmente anche in un orizzonte salvifico». Il grado di compenetrazione con il diritto dipende dal contesto geopolitico nel quale il cristianesimo si diffonde, provoca effetti aggiuntivi, incide sulla sua natura religiosa, e nel tempo si modifica, cresce, si affievolisce e si stempera. Un momento decisivo del processo di giuridicizzazione è quando Costantino diviene arbitro nelle vicende interne della Chiesa, pur essendo ancora pontifex maximus, capo dei pagani. Costantino quasi si sdoppia. Guida e garante del paganesimo, si erge a difensore dell’unità cristiana, considera tale unità un grande valore politico, esercita diritti e poteri squisitamente ecclesiastici. L’imperatore sollecita la Chiesa a risolvere le controversie dottrinali aperte in Africa da Donato, il quale ritiene necessario un nuovo battesimo per gli eretici convertiti e considera invalidi i sacramenti amministrati da chierici indegni. È iniziata la commistione con il diritto pubblico, ma la compenetragenerale zione tra impero e Chiesa giunge a compimento con l’esplosione della crisi ariana. L’insegnamento di Ario mette a rischio l’identità del cristianesimo, ma ha effetti deflagranti anche per l’impero, dove per la prima volta province e distretti si dividono e si combattono per motivi teologici. Poiché l’insegnamento di Ario si diffonde e conquista consensi, si prospetta l’esigenza di un concilio – la prima assise ecumenica della storia – che definisca una dottrina valida e cogente per tutti.
Costantino convoca il concilio a Nicea, lo inaugura il 20 maggio 325, e afferma in apertura: «Quanto a me, considero temibile come una guerra, come una battaglia, e più difficile a perdersi, ogni sedizione interna della Chiesa di Dio e la pavento più che le guerre esterne». Il concilio risolve le questioni religiose, si conclude con la condanna di Ario e l’approvazione del simbolo di Nicea, il credo cristiano che non cambierà più. La professione di fede entra a far parte delle leggi imperiali.
La Chiesa si apparenta in questo modo all’impero e al suo capo, finisce col farsi plasmare dalla mentalità e dalla cultura giuridica, che sfiora la sfera della dottrina e della teologia. La gerarchia indulge all’uso del metodo giuridicizzante anche nel definire principi e verità teologiche. Se questa opera è necessaria per mantenere l’unità delle genti cristiane, è vero che si attenua l’orizzonte misterico nel quale la rivelazione si inserisce, diminuiscono la flessibilità e la delicatezza con cui si dovrebbe parlare dell’ambiente e della dimensione del divino. L’assimilazione della mentalità romana rischia di introdurre nella religione del libro un formalismo che non giova alla sostanza del suo messaggio.
L’intreccio con il diritto prosegue senza soste, con risvolti ambigui e fecondi al tempo stesso. Il diritto romano e il diritto canonico sono strumenti utili per civilizzare popoli e terre d’Europa, per creare istituzioni ecclesiastiche stabili, disciplinare la Chiesa. Quando l’Europa si fa adulta, inizia un cammino inverso, che non cancella il diritto canonico, ma inizia ad abbattere strutture autoritarie e ingiuste, riconosce i diritti dello Stato che si emancipa dalla Chiesa, avvia un processo di spiritualizzazione della Chiesa nel quale siamo tuttora immersi.
C’è un bilancio quasi impossibile da fare, e che sarebbe affascinante: ciò che il diritto ha dato alla Chiesa, e ciò di cui l’ha privata, ciò che la Chiesa ha dato al diritto, ciò che l’ordinamento canonico può lasciare senza perdere la propria identità.
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La persona, roba da Medioevo...
di Roberto I. Zanini
«Il diritto è condizione dell’amore». È stata una frase di Benedetto XVI a centrare il dibattito, ieri sera all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, con Carlo Cardia, il cardinale Attilio Nicora e l’attuale presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Giuliano Amato. A citarla è stato il cardinale, ricordando uno scritto indirizzato dal Papa, il 18 ottobre scorso, a tutti i seminaristi del mondo: «Imparate anche a comprendere e, oso dire, anche ad amare il diritto canonico, nella sua necessità intrinseca... Una società senza diritto sarebbe priva di diritti. Il diritto è condizione dell’amore».
Un concetto fondamentale, ha sottolineato il cardinale, che papa Benedetto ha evidenziato anche in alcune encicliche, poiché «il rapporto fra carità e giustizia è alla base di ogni società civile. Ecco, si può dire che il nuovo volume di Cardia La Chiesa tra storia e diritto sia un atto d’amore al diritto canonico». In questo senso «mostra un quadro molto interessante della nostra civiltà, come abbia tratto linfa dall’evoluzione del diritto nell’intreccio con la storia. Con grande equilibrio nel valutare le vicende, la crescita progressiva del diritto canonico viene costantemente messa in rapporto con i processi di umanizzazione e civilizzazione della società. Ed emerge bene come ulteriori contributi significativi possano venire da questa evoluzione. Tanto più in un momento di produzione canonistica importante come l’attuale, anche a causa degli eventi relativi ai progressi del dialogo ecumenico e alla questione della pedofilia».
Ragionamento ripreso dall’ex presidente del Consiglio, per il quale il diritto «è la regola che distende i fatti dal caos all’ordine, in una sorta di sintesi di tutte le scienze umane, di intreccio con la storia. Questo è il motivo per cui, a parer mio, il diritto dovrebbe essere amato. Del resto non bisogna dimenticare che i diritti della persona così come noi oggi li conosciamo scaturiscono dalle elaborazioni di diritto canonico fatte in epoca medievale. È il cristianesimo che ha reso evidente il concetto di persona come portatrice di diritti inalienabili». Sulla stessa falsariga si è mosso il breve intervento di Cardia: «Ciò che si ama è il come la storia ha modellato il diritto facendosi modellare. E il libro è costruito mostrando come il diritto canonico si sia evoluto con l’evoluzione della Chiesa». Da qui l’augurio di Nicora affinché l’opera «possa trovare attenzione anche in ambito strettamente ecclesiastico, che potrebbe trarne vantaggi».
Le ragioni della «giuridicizzazione del cristianesimo» sono oggetto di discussione, senza che una tesi riesca a prevalere sull’altra. La più convincente ritiene che il diritto sia connaturato al cristianesimo, pur non potendosi negare il ruolo svolto dall’incontro con la romanità. Per Paolo Grossi, «su un punto si può tranquillamente concordare: che questa Chiesa – che è romana, che dalla civiltà romana ha assorbito molto (...) – questa Chiesa ha avuto da Roma in legato il sentimento della rilevanza del diritto e, di conseguenza, la persuasione del diritto come cemento sociale come garanzia di incisività nella storia e – perché no? – anche come strumento potestativo».
Però, aggiunge l’autore, la ragione del rapporto inscindibile tra Chiesa e diritto è un’altra, risiede nel fatto che il cristianesimo sceglie di agire nella società come nel proprio ambiente naturale. La «Chiesa non diffida del temporale, anzi vi si immerge ben volentieri convintissima che la salvezza eterna dei fedeli si gioca proprio qui, nel tempo e nelle temporalità (...). Ma nel temporale non vivono individui isolati, bensì un reticolato di rapporti che uniscono gli individui nella societas ». La comunità «protegge, garantisce, media», è «l’unico tramite sicuro per un colloquio efficace con la divinità», e ne deriva «la preminenza e l’essenzialità del giuridico», perché «se per l’ideologia religiosa cattolica è nel sociale che si gioca la salus aeterna animarum, il diritto, compenetrato nel sociale, lo è implicitamente anche al religioso. Il diritto si colloca naturalmente anche in un orizzonte salvifico». Il grado di compenetrazione con il diritto dipende dal contesto geopolitico nel quale il cristianesimo si diffonde, provoca effetti aggiuntivi, incide sulla sua natura religiosa, e nel tempo si modifica, cresce, si affievolisce e si stempera. Un momento decisivo del processo di giuridicizzazione è quando Costantino diviene arbitro nelle vicende interne della Chiesa, pur essendo ancora pontifex maximus, capo dei pagani. Costantino quasi si sdoppia. Guida e garante del paganesimo, si erge a difensore dell’unità cristiana, considera tale unità un grande valore politico, esercita diritti e poteri squisitamente ecclesiastici. L’imperatore sollecita la Chiesa a risolvere le controversie dottrinali aperte in Africa da Donato, il quale ritiene necessario un nuovo battesimo per gli eretici convertiti e considera invalidi i sacramenti amministrati da chierici indegni. È iniziata la commistione con il diritto pubblico, ma la compenetragenerale zione tra impero e Chiesa giunge a compimento con l’esplosione della crisi ariana. L’insegnamento di Ario mette a rischio l’identità del cristianesimo, ma ha effetti deflagranti anche per l’impero, dove per la prima volta province e distretti si dividono e si combattono per motivi teologici. Poiché l’insegnamento di Ario si diffonde e conquista consensi, si prospetta l’esigenza di un concilio – la prima assise ecumenica della storia – che definisca una dottrina valida e cogente per tutti.
Costantino convoca il concilio a Nicea, lo inaugura il 20 maggio 325, e afferma in apertura: «Quanto a me, considero temibile come una guerra, come una battaglia, e più difficile a perdersi, ogni sedizione interna della Chiesa di Dio e la pavento più che le guerre esterne». Il concilio risolve le questioni religiose, si conclude con la condanna di Ario e l’approvazione del simbolo di Nicea, il credo cristiano che non cambierà più. La professione di fede entra a far parte delle leggi imperiali.
La Chiesa si apparenta in questo modo all’impero e al suo capo, finisce col farsi plasmare dalla mentalità e dalla cultura giuridica, che sfiora la sfera della dottrina e della teologia. La gerarchia indulge all’uso del metodo giuridicizzante anche nel definire principi e verità teologiche. Se questa opera è necessaria per mantenere l’unità delle genti cristiane, è vero che si attenua l’orizzonte misterico nel quale la rivelazione si inserisce, diminuiscono la flessibilità e la delicatezza con cui si dovrebbe parlare dell’ambiente e della dimensione del divino. L’assimilazione della mentalità romana rischia di introdurre nella religione del libro un formalismo che non giova alla sostanza del suo messaggio.
L’intreccio con il diritto prosegue senza soste, con risvolti ambigui e fecondi al tempo stesso. Il diritto romano e il diritto canonico sono strumenti utili per civilizzare popoli e terre d’Europa, per creare istituzioni ecclesiastiche stabili, disciplinare la Chiesa. Quando l’Europa si fa adulta, inizia un cammino inverso, che non cancella il diritto canonico, ma inizia ad abbattere strutture autoritarie e ingiuste, riconosce i diritti dello Stato che si emancipa dalla Chiesa, avvia un processo di spiritualizzazione della Chiesa nel quale siamo tuttora immersi.
C’è un bilancio quasi impossibile da fare, e che sarebbe affascinante: ciò che il diritto ha dato alla Chiesa, e ciò di cui l’ha privata, ciò che la Chiesa ha dato al diritto, ciò che l’ordinamento canonico può lasciare senza perdere la propria identità.
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La persona, roba da Medioevo...
di Roberto I. Zanini
«Il diritto è condizione dell’amore». È stata una frase di Benedetto XVI a centrare il dibattito, ieri sera all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, con Carlo Cardia, il cardinale Attilio Nicora e l’attuale presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Giuliano Amato. A citarla è stato il cardinale, ricordando uno scritto indirizzato dal Papa, il 18 ottobre scorso, a tutti i seminaristi del mondo: «Imparate anche a comprendere e, oso dire, anche ad amare il diritto canonico, nella sua necessità intrinseca... Una società senza diritto sarebbe priva di diritti. Il diritto è condizione dell’amore».
Un concetto fondamentale, ha sottolineato il cardinale, che papa Benedetto ha evidenziato anche in alcune encicliche, poiché «il rapporto fra carità e giustizia è alla base di ogni società civile. Ecco, si può dire che il nuovo volume di Cardia La Chiesa tra storia e diritto sia un atto d’amore al diritto canonico». In questo senso «mostra un quadro molto interessante della nostra civiltà, come abbia tratto linfa dall’evoluzione del diritto nell’intreccio con la storia. Con grande equilibrio nel valutare le vicende, la crescita progressiva del diritto canonico viene costantemente messa in rapporto con i processi di umanizzazione e civilizzazione della società. Ed emerge bene come ulteriori contributi significativi possano venire da questa evoluzione. Tanto più in un momento di produzione canonistica importante come l’attuale, anche a causa degli eventi relativi ai progressi del dialogo ecumenico e alla questione della pedofilia».
Ragionamento ripreso dall’ex presidente del Consiglio, per il quale il diritto «è la regola che distende i fatti dal caos all’ordine, in una sorta di sintesi di tutte le scienze umane, di intreccio con la storia. Questo è il motivo per cui, a parer mio, il diritto dovrebbe essere amato. Del resto non bisogna dimenticare che i diritti della persona così come noi oggi li conosciamo scaturiscono dalle elaborazioni di diritto canonico fatte in epoca medievale. È il cristianesimo che ha reso evidente il concetto di persona come portatrice di diritti inalienabili». Sulla stessa falsariga si è mosso il breve intervento di Cardia: «Ciò che si ama è il come la storia ha modellato il diritto facendosi modellare. E il libro è costruito mostrando come il diritto canonico si sia evoluto con l’evoluzione della Chiesa». Da qui l’augurio di Nicora affinché l’opera «possa trovare attenzione anche in ambito strettamente ecclesiastico, che potrebbe trarne vantaggi».
Amato: «La tutela dei diritti umani nasce dai canonisti dei secoli bui» Nicora: «Il rapporto fra carità e giustizia è base di ogni società civile»
«Avvenire» del 17 novembre 2010
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