27 novembre 2010

Elogio della vendetta: il sentimento meschino che nutre la letteratura

Da Baudelaire a Kafka e a Proust fino al più recente Vargas Llosa in molti capolavori della letteratura si avverte un acre senso di rivalsa. Invece oggi gli scrittori insistono nell’esibire un puritanesimo liberal ricolmo di civismo e buone maniere
di Alessandro Piperno
Tentazioni. Così l'arte si prende la rivincita sulla vita
Sarebbe bello un libro sui grandi diffamati della letteratura. La sarabanda di buoni diavoli il cui unico torto è stato quello di vantare una parentela o una semplice conoscenza con scrittori destinati all’eternità. Il patrigno di Baudelaire, tanto per fare un esempio: il famigerato capitano Aupick.
Quanti insulti postumi si è beccato il poveruomo, grazie al suo ingrato intemperante figliastro! Quanti tra noi si sono sentiti in diritto di condurre il capitano Aupick sul banco degli imputati. E di condannarlo in contumacia e senza appelli tenendo conto solo della testimonianza postuma del suo paranoico accusatore.
Quale la colpa del capitano Aupick? Aver sposato la madre di Baudelaire, rimasta vedova, quando il figlio aveva appena sei anni. Aver spezzato con la sua irruzione importuna nella vita di Madame Baudelaire quell’edipico idillio. Aver deciso, di comune accordo con la consorte, di spedire in collegio quel ragazzo difficile. E, infine, aver cercato, negli anni a venire, di regolamentare la relazione morbosa tra madre e figlio. Insomma, ciò che viene addebitato al capitano Aupick è di aver agito con buonsenso o almeno in conformità con il suo temperamento, la sua classe sociale, la sua cultura. Poteva forse immaginare che i posteri avrebbero liquidato quell’onesto contegno come il simbolo del filisteismo borghese tanto inviso al figliastro? Poteva forse immaginare che - per colpa di quello strambo ragazzino - lui, l’onesto militare al servizio di Napoleone III, sarebbe passato alla storia come il santo patrono dei persecutori di poeti indigenti?

E che dire del padre di Kafka?
Un altro che ha un bel conto in sospeso con la storia. Un altro diffamato eccellente. Anche se in forma più subdola: Baudelaire almeno aveva la faccia tosta di odiare il patrigno fervidamente, Kafka adorava suo padre. E ciononostante la lettera che gli scrisse - la celebre Lettera al padre - trasuda un tale risentimento: un rancore rattenuto che ne fa una delle più toccanti testimonianze dell’eterna protesta dei figli contro i padri. Il tono è dimesso e rispettoso. Il figlio si rivolge al padre, acquattato sotto la coperta dell’inettitudine. Finge di non incolparlo di nulla. Ma tale atteggiamento arrendevole non fa che rendere più tormentosa e incendiaria la sua ribellione. Tu mi chiedi perché ho paura di te? dice il figlio al padre all’inizio della lettera. Be’, ascoltami. Ora te lo spiego io per filo e per segno. E glielo spiega. Senza sconti, proprio come è uso fare nei romanzi. A tale riguardo, è difficile non aderire alla campagna promossa da Milan Kundera per sottrarre Kafka a coloro che ne hanno fatto, del tutto arbitrariamente, un santo inerme. Ma quale santo e santo. Kafka era un sommo scrittore. E come tale un impavido vendicatore. Kafka idolatrava Flaubert perché di fondo ne condivideva lo spirito feroce, solo apparentemente diluito da una forma impeccabile. Non c’è personaggio flaubertiano che prima o poi non sconti il sarcasmo del suo creatore. E credo che lo stesso si possa dire per i personaggi kafkiani.
Ma torniamo alla Lettera al padre. Ogni parola del figlio ha il timbro solenne di una condanna. Persino notazioni che in altro contesto apparirebbero innocue tradiscono un tono accusatore e intimidatorio. Con un’espressione assai in voga di questi tempi si potrebbe dire che Kafka dà prova di essere un «passivo aggressivo». Ovvero, che la sua ostinata rassegnazione sia carica di ostilità. A un certo punto dice al padre: «Tu invece sei un vero Kafka in quanto a forza, salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito». Per noi, lettori del 2010, fa quasi sorridere che qualcuno (per altro il diretto interessato) parli di «un vero Kafka» in questi termini. Proprio perché per noi «un vero Kafka» è l’opposto di ciò che lo stesso Kafka ci ha appena descritto. Un vero Kafka non ha forza, né salute né appetito. Un vero Kafka non alza la voce e non coltiva alcun complesso di superiorità. Un vero Kafka, per noi, fa l’esatto contrario. Ma evidentemente, in casa Kafka, molto tempo prima che qualcuno potesse arrivare a ipotizzare che il piccolo Franz sarebbe diventato uno dei massimi scrittori di ogni tempo, la parola «Kafka» faceva pensare a tutte quelle virtuose qualità enumerate, per noi così poco kafkiane.
Ebbene, essere riuscito a ribaltare per sempre il senso semantico della parola «Kafka» non è forse la più beffarda delle vendette? Non è forse questa la ratifica della vittoria del figlio sul padre? Del trionfo di chi scrive su chi si è limitato a vivere? Di chi accusa su chi non può difendersi?

Polemiche sulla morte di Charles Swann
Intendiamoci: sto facendo finta di prendere le parti dei padri diffamati. In realtà il mio cuore è tutto dalla parte dei figli diffamatori. La loro rabbia mi commuove non meno del loro sforzo di dissimularla e del senso di colpa che tale sforzo fatalmente genera.
A proposito di vendette toccanti, c’è un momento nella Recherche che mi ha sempre emozionato. Che mi consti si tratta della sola volta in tutta l’opera in cui Proust (non il Narratore ma Marcel Proust in carne e ossa) si rivolge a un suo personaggio direttamente. Siamo ne La prigioniera. Proust ci ha appena informati che Swann (il suo più celebre personaggio) è morto. Ecco che, d’un tratto, sulla pagina grava un senso solenne di lutto e incredulità. Davvero Swann è morto? Non ci posso credere! È questo che si dice il lettore. Proust è un romanziere troppo abile per lasciarsi scappare l’occasione per esibirsi in uno dei suoi colpi da maestro. Per questo si ferma. È tempo di concedere a Swann gli onori delle armi. Ma ecco che quella che dovrebbe essere una celebrazione diventa il pretesto per un atto a dir poco revanscista. Una vera e propria rivincita: «Eppure, caro Charles Swann che ho conosciuto così poco, quando io ero ancora così giovane e voi sull’orlo della tomba, se si ricomincia a parlare di voi, e forse vivrete, è perché quello che, probabilmente, ritenevate un piccolo imbecille ha fatto di voi l’eroe del suo romanzo». Lo sentite anche voi il tono di sfida? La soddisfazione postuma di aver avuto la meglio, alla lunga, su un uomo, un famoso dandy della sua epoca, dal quale Proust evidentemente non si era sentito abbastanza accolto? Niente di strano: Proust ha sofferto tutta la vita per non essere stato abbastanza considerato da certa gente. La Recherche non è certo l’opera di un damerino che piagnucola sul passato che non può più tornare, ma anzi è una specie di mausoleo consacrato alla vendetta e alla delazione. La protesta proustiana non fa che nutrirsi del rancore dei malati contro i sani, dei falliti contro gli uomini di successo, dei figli inetti contro i genitori gagliardi e via dicendo.

Mario Vargas Llosa vs Michael Cunningham
Il pretesto per queste elucubrazioni mi è stato offerto da una polemica a distanza tra lo scrittore statunitense Michael Cunningham e il nuovo premio Nobel (esultiamo!) Mario Vargas Llosa. A ricostruirla, tale querelle, ci si rende conto che essa è stata nutrita da una serie di equivoci e di frasi mal riportate. Ma chi se ne importa. Ogni tanto persino la disinformazione può produrre frutti succulenti. Il dato per me più interessante è che Cunningham abbia detto che la letteratura serve a celebrare la vita e che lo abbia sostenuto in polemica con Vargas Llosa, secondo cui la letteratura è vendetta contro la vita.
Visto che siamo in vena di mistificazione, lasciate che anch’io parta un po’ per la tangente. Lasciate anche a me l’opportunità di immaginare e di interpretare. Vorrei partire dalla militanza politica di Vargas Llosa, il gesto dissennato che nel 1990 lo spinse a presentarsi come candidato alle presidenziali nel suo Paese, il Perù. La sconfitta che rimediò, a dispetto dei sondaggi. E il conseguente trasferimento (in esilio?) in Spagna, con tanto di cittadinanza acquisita. Ora, ogni scrittore è vittima di alcuni luoghi comuni che lo riguardano. Dopo la vittoria del Nobel di Vargas Llosa, ho letto in giro un sacco di commenti che celebravano la grandezza delle sue prime opere a dispetto della stanchezza delle ultime. Se non è questa una bufala. Sono sempre turbato dalla facilità che certi cliché hanno di attecchire e di come sia difficile sradicarli. Conosco l’opera di Vargas Llosa abbastanza bene da poter dire che negli ultimi anni, proprio dopo la mortificante sconfitta elettorale, la sua vena ha raggiunto una disperata tensione che ha dato esiti artistici di questi tempi quasi impareggiabili. Due libri su tutti: La festa del caprone (2000) e Avventure della ragazza cattiva (2006). Il primo, un tipico libro sudamericano che ricostruisce gli ultimi giorni di vita di un tiranno: il ferocissimo dittatore domenicano Rafael Leónidas Trujillo, patito della pulizia e di vergini da violentare. Il secondo, invece, la più convincente storia d’amore scritta negli ultimi vent’anni: tra un adorabile traduttore originario di Lima e una splendida ragazzina ribelle e manipolatrice: la niña mala. Tutto questo nel corso più o meno di quarant’anni. Ebbene, nessuno mi toglie dalla testa che Trujillo e la niña mala siano formidabili crudeli allegorie del Sudamerica e dei suoi fallimenti. È così - tramite due favolosi personaggi protagonisti di due favolosi romanzi - che Vargas Llosa si è preso la sua rivincita di sconfitto. Sono quei due romanzi la sua vendetta. Una vendetta mille volte più efficace e duratura di qualsiasi riconoscimento pubblico, persino del premio Nobel. Non è a questo che serve l’arte? A vendicarsi?
Non è a questo ciò a cui è sempre servita? Non è sempre stata il serbatoio di tutto il nostro fiele?
Certo, il desiderio di vendetta è un impulso riprovevole. Ti insegnano fin dalla nascita a considerarlo tale. Se vuoi essere un individuo perbene, ti dicono, devi accantonare certe meschine aspirazioni. E tuttavia nessuno potrà negare che la vendetta è la più naturale delle tentazioni. Tutta questa frustrazione dovrà pur trovare un luogo di sfogo! O no? Ecco, chissà che non sia questa una delle tante ragioni per cui gli uomini hanno inventato l’arte: non solo per celebrare la vita, ma anche e soprattutto per prendersi una rivincita su di essa. L’arte è vendetta? Perché no? Lo è sempre stata in fondo. Dai tempi in cui Achille tornò a indossare l’armatura per vendicare la morte di Patroclo, passando per Dante, così meschino da schiaffare all’Inferno tutti i suoi nemici personali, via via attraverso il grande sogno palingenetico del conte di Montecristo, fino alle picaresche avventure di Uma Thurman che, in compagnia della sua spada da samurai, ce la mette tutta per uccidere il serafico Bill.
Ma perché, mi chiedo, se l’arte è sempre stato questo, oggigiorno, e non solo in Italia, essa viene confusa per un’esibizione di civismo e di sentimenti castigati? Perché l’arte è ben accolta solo se didascalica? Perché il puritanesimo liberal sta prendendo il sopravvento? Perché gli artisti non fanno altro che firmare proclami umanitari pieni di buonsenso? Perché spurgare vigliaccamente le loro opere di ogni tensione rancorosa? Perché si indignano per insulse caduche cause di pubblica utilità?
Chissà, forse hanno dimenticato che l’arte è il dono che Dio ha dato loro per vendicarsi senza inutili spargimenti di sangue.

L'autore: Alessandro Piperno
Nato a Roma nel 1972, Alessandro Piperno insegna Letteratura francese all’Università di Tor Vergata. Ha esordito come scrittore nel 2005 con il romanzo «Con le peggiori intenzioni» (Mondadori), un bestseller che ha vinto il Campiello opera prima. È da poco uscito il suo nuovo libro «Persecuzione» (Mondadori).
«Corriere della Sera» del 22 novembre 2010

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