di Sabino Acquaviva
Ha purtroppo ragione la sociologa tedesca Gabriele Kuby (vedi 'Agorà' del 28 settembre) quando fa un bilancio negativo dei risultati della rivoluzione sessuale seguita alla contestazione politica, culturale, e religiosa, espressione del famoso 'Sessantotto', con annessi e connessi. Ma la conseguenza negativa più grave di quel periodo del secolo passato è nel collasso demografico, tuttavia causato anche da molti altri fattori. Il Sessantotto ha portato, è vero, allo svilimento del corpo, diventato anzitutto strumento di piacere, alla diffusione dell’aborto quale strumento di controllo della natalità, alla crisi del sesso controllato dal vincolo familiare o comunque di coppia stabile, e alla diffusione di una serie di altri fattori, spesso dominanti in una società definita come 'liberata'.
Il risultato finale di questo processo è stato, da un lato l’indebolimento delle strutture familiari e dall’altro il tracollo della natalità. Ma, è cosa nota, di cui tuttavia gli economisti quasi mai tengono conto parlando di sviluppo economico, di crisi, di ristagno, lo sviluppo è strettamente collegato con l’espansione demografica e quindi con la tenuta dei nuclei familiari. Perché non se ne parla nonostante il fatto che le statistiche ci danno alcune informazioni sottolineando evidenze di cui si preferisce non tenere conto? Ricordo che in occasione di un dibattito di qualche tempo fa un signore mi si avvicinò e mi disse «Perché non ha affrontato il grave problema dell’invasione di extracomunitari?» La mia risposta fu apparentemente quasi paradossale: «È vero. Ne arrivano troppo pochi, dovrebbe arrivarne un numero capace di compensare le mancate nascite». Salvo, naturalmente, il caso assai improbabile, in cui il tasso di natalità europeo si riavvicini alla media di due figli per coppia.
Una risposta opposta rispetto a quella che si attendeva il mio interlocutore, alla fine rimasto semplicemente stupefatto. Ma chi ha vissuto il miracolo economico italiano degli anni Sessanta sa bene che è stato anzitutto il risultato della fantasia, delle iniziative, delle scelte più o meno entusiaste, delle nuove e giovani generazioni che ininterrottamente entravano nel mercato del lavoro, ed oggi ridotte al lumicino. E dunque, che c’è di nuovo sotto il sole?
Come è accaduto a noi in quegli anni, paesi con un elevato ritmo di sviluppo demografico, ormai persino quelli africani, hanno dei tassi di sviluppo economico che a volte sono dieci volte più consistenti di quelli europei.
Mi sembra ovvio, ma non lo è per molti economisti, affiancare le considerazioni economiche a quelle demografiche (l’ha fatto di recente il presidente dello Ior Gotti Tedeschi), altrimenti diventa difficile capire molti problemi, rendersi conto di quanto accade, e programmare il futuro. In particolare, lo sviluppo di Cina India e Brasile (questo, per molte ragioni economiche, è ovviamente un po’ meno vero per la Russia) è connesso a una serie di fattori demografici di cui si preferisce non parlare. Ma è egualmente evidente che il sostanziale ristagno economico dell’Europa (se confrontato con l’espansione di questi paesi) è, anche o anzitutto, espressione del declino demografico, un declino di cui non è lecito parlare, perché a sua volta espressione, fra l’altro, del collasso della famiglia in quasi tutti i paesi sviluppati: un problema tabù di cui troppo spesso non è ritenuto di buon gusto discutere in questa società 'quasi' democratica.
Il risultato finale di questo processo è stato, da un lato l’indebolimento delle strutture familiari e dall’altro il tracollo della natalità. Ma, è cosa nota, di cui tuttavia gli economisti quasi mai tengono conto parlando di sviluppo economico, di crisi, di ristagno, lo sviluppo è strettamente collegato con l’espansione demografica e quindi con la tenuta dei nuclei familiari. Perché non se ne parla nonostante il fatto che le statistiche ci danno alcune informazioni sottolineando evidenze di cui si preferisce non tenere conto? Ricordo che in occasione di un dibattito di qualche tempo fa un signore mi si avvicinò e mi disse «Perché non ha affrontato il grave problema dell’invasione di extracomunitari?» La mia risposta fu apparentemente quasi paradossale: «È vero. Ne arrivano troppo pochi, dovrebbe arrivarne un numero capace di compensare le mancate nascite». Salvo, naturalmente, il caso assai improbabile, in cui il tasso di natalità europeo si riavvicini alla media di due figli per coppia.
Una risposta opposta rispetto a quella che si attendeva il mio interlocutore, alla fine rimasto semplicemente stupefatto. Ma chi ha vissuto il miracolo economico italiano degli anni Sessanta sa bene che è stato anzitutto il risultato della fantasia, delle iniziative, delle scelte più o meno entusiaste, delle nuove e giovani generazioni che ininterrottamente entravano nel mercato del lavoro, ed oggi ridotte al lumicino. E dunque, che c’è di nuovo sotto il sole?
Come è accaduto a noi in quegli anni, paesi con un elevato ritmo di sviluppo demografico, ormai persino quelli africani, hanno dei tassi di sviluppo economico che a volte sono dieci volte più consistenti di quelli europei.
Mi sembra ovvio, ma non lo è per molti economisti, affiancare le considerazioni economiche a quelle demografiche (l’ha fatto di recente il presidente dello Ior Gotti Tedeschi), altrimenti diventa difficile capire molti problemi, rendersi conto di quanto accade, e programmare il futuro. In particolare, lo sviluppo di Cina India e Brasile (questo, per molte ragioni economiche, è ovviamente un po’ meno vero per la Russia) è connesso a una serie di fattori demografici di cui si preferisce non parlare. Ma è egualmente evidente che il sostanziale ristagno economico dell’Europa (se confrontato con l’espansione di questi paesi) è, anche o anzitutto, espressione del declino demografico, un declino di cui non è lecito parlare, perché a sua volta espressione, fra l’altro, del collasso della famiglia in quasi tutti i paesi sviluppati: un problema tabù di cui troppo spesso non è ritenuto di buon gusto discutere in questa società 'quasi' democratica.
«Avvenire» dell'11 novembre 2010
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