Non ci sarebbe più « laicità », ma una società indebolita e povera
di Carlo Cardia
di Carlo Cardia
Le parole del presidente della Camera sull’esigenza che le leggi dello Stato non subiscano il condizionamento di precetti religiosi hanno riaperto il dibattito su una questione cruciale dei nostri tempi, il rapporto tra religione, razionalità, diritto.
Esse evocano in trasparenza un altro concetto, secondo cui la legge non può imporre nulla a nessuno ma deve permettere che ciascuno si comporti come meglio ritiene. Lo slogan di questa concezione è noto, io chiedo l’eutanasia per me ma non voglio imporla agli altri, quindi gli altri non devono limitare la mia libertà, altrimenti la religione condiziona la legge. Questo, non altro, è il cuore del contendere. Alla limpidezza delle formulazioni, però, corrisponde una realtà del tutto diversa. Di precetti religiosi (cioè strettamente confessionali) imposti con la legge in Europa e in Occidente non c’è più neanche l’ombra, e ciò è il frutto di quella laicità positiva che ha reso le Chiese libere di ottenere consensi, e proporre impegni e vincoli che i fedeli liberamente possono seguire o meno. Se, però, si guarda più a fondo – e su queste colonne è già stato fatto –, i nostri ordinamenti giuridici sono pieni di precetti e valori che hanno origine religiosa, e da secoli sono a fondamento del vivere collettivo. Il non uccidere, non rubare, non fare violenza agli altri, non dire falsa testimonianza, può piacere o meno, ma prima che nelle leggi positive sono scritti nel Decalogo (oltre che in comandamenti di altre religioni). Allo Stato non può venire che bene dalla felice contaminazione tra religione e società, perché il diritto è storicamente il frutto di una tensione etica che nasce anche dalla religione e filtra attraverso la ragione per farsi legge. Di più, quel nostro essere attenti alle esigenze altrui, l’accorrere in soccorso dei deboli, di chi soffre, che regoliamo con leggi e regolamenti, e si manifesta nei momenti aspri della vita collettiva, ha precisa radice in quella carità cristiana che diviene solidarietà, apertura agli altri, e ispira il nostro ordinamento. Senza questi fondamenti, religiosi e razionali insieme, la società non reggerebbe, diverrebbe più egoista e povera. Sta qui il nodo centrale che deve pur emergere nella discussione di questi giorni. La religione produce razionalità, rafforza la ragione, mette le basi dell’agire comune. In materia di procreazione, tutela della vita, eutanasia, non esistono precetti religiosi da imporre a livello civile, ma orientamenti ideali, religiosi, etici, che si traducono in scelte e posizioni razionali e chiedono di essere valutati per ciò che sono, ciò che dicono, per i loro effetti. E allora si torna al merito.
È giusto, umano, saggio, stabilire che la fine della vita avvenga per mano d’uomo, diretta o indiretta, o non è importante difendere il valore della vita e soccorrere quanti sono in difficoltà per aiutarli, incoraggiarli, sostenerli nel momento della sofferenza? È giusto considerare l’aborto come ineluttabile, quasi una fatalità sempre più frequente, o non è saggio fare ciò che è possibile perché la scelta a favore della nuova vita sia positiva e gioiosa? Si tratta di precetti e indicazioni religiose?
Certamente, ma sono valori universali che parlano alla ragione e chiedono di essere discussi e valutati, senza che un muro stabilisca ciò che può filtrare e ciò che non può filtrare dall’altra parte, ciò che può ispirare o non ispirare la legge, si tratti o meno di cose buone e giuste. La seconda affermazione è apparentemente più subdola. Se trionfasse il principio per il quale la legge non deve mai proibire, o scoraggiare, ma rendere lecita ogni scelta, si potrebbe subito introdurre la poligamia con lo slogan, io non impongo a nessuno di essere poligamo, ma voglio che gli altri mi lascino fare una famiglia come piace a me. E si potrebbe approvare una legge che ammette il suicidio assistito, evocando lo stesso principio, io non impongo a nessuno di suicidarsi ma voglio semplicemente essere libero di por fine alla mia vita senza che alcun precetto me lo proibisca. L’argomento della libertà, se esposto per slogan, si ritorcerebbe contro chi lo propone perché non saprebbe cosa replicare, e avvertirebbe subito (nel cuore e nella mente) che in questo modo la nostra società si disgregherebbe definitivamente.
Per questo motivo, considerazioni valide nella loro astrattezza, possono riempirsi di contenuti diversi quando sono calate nella realtà sociale e giuridica. Un corretto rapporto tra religione, razionalità, diritto, si sviluppa se si discute apertamente, senza preclusioni, la sostanza dei problemi da affrontare e risolvere. È proprio la religione che negli ultimi decenni richiama gli uomini, i cittadini, il legislatore, a far uso della ragione, non impone nulla ma prospetta scelte che devono essere fatte confrontandosi senza muri o steccati di sorta.
Esse evocano in trasparenza un altro concetto, secondo cui la legge non può imporre nulla a nessuno ma deve permettere che ciascuno si comporti come meglio ritiene. Lo slogan di questa concezione è noto, io chiedo l’eutanasia per me ma non voglio imporla agli altri, quindi gli altri non devono limitare la mia libertà, altrimenti la religione condiziona la legge. Questo, non altro, è il cuore del contendere. Alla limpidezza delle formulazioni, però, corrisponde una realtà del tutto diversa. Di precetti religiosi (cioè strettamente confessionali) imposti con la legge in Europa e in Occidente non c’è più neanche l’ombra, e ciò è il frutto di quella laicità positiva che ha reso le Chiese libere di ottenere consensi, e proporre impegni e vincoli che i fedeli liberamente possono seguire o meno. Se, però, si guarda più a fondo – e su queste colonne è già stato fatto –, i nostri ordinamenti giuridici sono pieni di precetti e valori che hanno origine religiosa, e da secoli sono a fondamento del vivere collettivo. Il non uccidere, non rubare, non fare violenza agli altri, non dire falsa testimonianza, può piacere o meno, ma prima che nelle leggi positive sono scritti nel Decalogo (oltre che in comandamenti di altre religioni). Allo Stato non può venire che bene dalla felice contaminazione tra religione e società, perché il diritto è storicamente il frutto di una tensione etica che nasce anche dalla religione e filtra attraverso la ragione per farsi legge. Di più, quel nostro essere attenti alle esigenze altrui, l’accorrere in soccorso dei deboli, di chi soffre, che regoliamo con leggi e regolamenti, e si manifesta nei momenti aspri della vita collettiva, ha precisa radice in quella carità cristiana che diviene solidarietà, apertura agli altri, e ispira il nostro ordinamento. Senza questi fondamenti, religiosi e razionali insieme, la società non reggerebbe, diverrebbe più egoista e povera. Sta qui il nodo centrale che deve pur emergere nella discussione di questi giorni. La religione produce razionalità, rafforza la ragione, mette le basi dell’agire comune. In materia di procreazione, tutela della vita, eutanasia, non esistono precetti religiosi da imporre a livello civile, ma orientamenti ideali, religiosi, etici, che si traducono in scelte e posizioni razionali e chiedono di essere valutati per ciò che sono, ciò che dicono, per i loro effetti. E allora si torna al merito.
È giusto, umano, saggio, stabilire che la fine della vita avvenga per mano d’uomo, diretta o indiretta, o non è importante difendere il valore della vita e soccorrere quanti sono in difficoltà per aiutarli, incoraggiarli, sostenerli nel momento della sofferenza? È giusto considerare l’aborto come ineluttabile, quasi una fatalità sempre più frequente, o non è saggio fare ciò che è possibile perché la scelta a favore della nuova vita sia positiva e gioiosa? Si tratta di precetti e indicazioni religiose?
Certamente, ma sono valori universali che parlano alla ragione e chiedono di essere discussi e valutati, senza che un muro stabilisca ciò che può filtrare e ciò che non può filtrare dall’altra parte, ciò che può ispirare o non ispirare la legge, si tratti o meno di cose buone e giuste. La seconda affermazione è apparentemente più subdola. Se trionfasse il principio per il quale la legge non deve mai proibire, o scoraggiare, ma rendere lecita ogni scelta, si potrebbe subito introdurre la poligamia con lo slogan, io non impongo a nessuno di essere poligamo, ma voglio che gli altri mi lascino fare una famiglia come piace a me. E si potrebbe approvare una legge che ammette il suicidio assistito, evocando lo stesso principio, io non impongo a nessuno di suicidarsi ma voglio semplicemente essere libero di por fine alla mia vita senza che alcun precetto me lo proibisca. L’argomento della libertà, se esposto per slogan, si ritorcerebbe contro chi lo propone perché non saprebbe cosa replicare, e avvertirebbe subito (nel cuore e nella mente) che in questo modo la nostra società si disgregherebbe definitivamente.
Per questo motivo, considerazioni valide nella loro astrattezza, possono riempirsi di contenuti diversi quando sono calate nella realtà sociale e giuridica. Un corretto rapporto tra religione, razionalità, diritto, si sviluppa se si discute apertamente, senza preclusioni, la sostanza dei problemi da affrontare e risolvere. È proprio la religione che negli ultimi decenni richiama gli uomini, i cittadini, il legislatore, a far uso della ragione, non impone nulla ma prospetta scelte che devono essere fatte confrontandosi senza muri o steccati di sorta.
«Avvenire» del 24 maggio 2009
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