di Davide Rondoni
La proposta che vado facendo in giro per l’Italia e anche su queste colonne di smettere di insegnare letteratura in modo obbligatorio alle scuole superiori sta sollevando diverse reazioni.
Alcune, qualificate e acute, sono arrivate anche su «Avvenire». La mia proposta è, in sintesi, di proporre all’inizio dell’anno ai ragazzi da parte di insegnanti veramente motivati la lettura e lo studio di alcuni autori, di alcuni testi esemplari. I ragazzi che vorranno e vedranno nei loro insegnanti qualcosa che li persuade, dedicheranno 3, 4 ore facoltative a settimana alla lettura di poesia, di narrativa, alla scrittura, mentre gli altri si dedicheranno – che so – alla botanica, o approfondiranno altre materie. Le parti importanti di storia della letteratura entreranno – per quel che rileva – nel programma di storia.
Qualcuno ha reagito temendo che in questo modo si smantelli l’insegnamento della letteratura.
È esattamente ciò che intendo.
Gli esiti dell’attuale impostazione che è obbligatoria, idealista, strutturalisteggiante e socialsentimentaloide, sono evidenti: i grandi autori vengono uccisi dalla scuola; difficilmente dopo 5 anni in classe o grazie ad essi si coltivano passioni di lettura; i ragazzi e gli adulti che pur l’hanno studiata a scuola non conservano né il gusto, che potrebbe preservare da certe generali cadute, né il senso critico che solo la letteratura dà nei confronti delle umane cose. Le statistiche parlano chiaro almeno quanto l’esperienza in giro nei corridoi delle scuole. Di fronte a una situazione del genere allargare le braccia, affidarsi alle occasionali genialità di qualche docente o, peggio, smettere di pensare, sono atteggiamenti colpevoli. Non solo verso Dante, Manzoni e tutti i grandi. È una colpa soprattutto verso i giovani, privati di una delle grandi risorse educative e delle grandi avventure umane. Non a caso mi hanno risposto su queste pagine soprattutto dei poeti. Che sono sempre i cani lupo del futuro, lo fiutano, ne vedono i tratti. Come se il problema riguardasse loro, e non invece insegnanti, di scuola e di università, dirigenti scolastici, ministeriali… Dove sono con la testa, e con il cuore costoro? Non uno che dica nulla. Neanche un’ammissione di responsabilità nel concorso a creare una situazione del genere… Oh, certo, forse non si abbassano a discutere di queste cosa con uno che scrive poesie. Hanno i loro consulenti specialisti, pedagogisti, professoristi, schedatoristi, imbalsamatori… Hanno da fare. Il tiepidume di fronte a questa faccenda da parte di Ministero (anche quello della Cultura che fa?), insegnanti, presidi, eccetera è orrendo. Come se non gliene fregasse più se un ragazzo a scuola possa amare il Cantico delle creature o Leopardi, o i Promessi Sposi. Ma se la ministra Gelmini e il ministro Bondi non vogliono discuterne, ho trovato in giro per l’Italia un sacco di gente che s’è accesa all’idea, condividendola, correggendola, rilanciandola. Sia Maurizio Cucchi che Roberto Mussapi, intervenendo su queste colonne, hanno riaffermato la necessità dell’insegnamento della poesia. L’uno in quanto materia al pari della matematica o di altre nell’orizzonte dello scibile umano che deve formare un ragazzo; l’altro, Mussapi, insistendo sulla natura antropologica e «mitica» della poesia come dimensione senza la quale le stesse materie come storia, scienza, eccetera, risultano poco interessanti e impoverite. Entrambi, mi è parso, non contestano la mia «rivoluzione». Del resto, amare la poesia e la letteratura, per sé e per i nostri figli, significa puntare tutto sulla libertà. C’è chi vuole, per questo, correre il rischio di cambiare qualcosa.
Alcune, qualificate e acute, sono arrivate anche su «Avvenire». La mia proposta è, in sintesi, di proporre all’inizio dell’anno ai ragazzi da parte di insegnanti veramente motivati la lettura e lo studio di alcuni autori, di alcuni testi esemplari. I ragazzi che vorranno e vedranno nei loro insegnanti qualcosa che li persuade, dedicheranno 3, 4 ore facoltative a settimana alla lettura di poesia, di narrativa, alla scrittura, mentre gli altri si dedicheranno – che so – alla botanica, o approfondiranno altre materie. Le parti importanti di storia della letteratura entreranno – per quel che rileva – nel programma di storia.
Qualcuno ha reagito temendo che in questo modo si smantelli l’insegnamento della letteratura.
È esattamente ciò che intendo.
Gli esiti dell’attuale impostazione che è obbligatoria, idealista, strutturalisteggiante e socialsentimentaloide, sono evidenti: i grandi autori vengono uccisi dalla scuola; difficilmente dopo 5 anni in classe o grazie ad essi si coltivano passioni di lettura; i ragazzi e gli adulti che pur l’hanno studiata a scuola non conservano né il gusto, che potrebbe preservare da certe generali cadute, né il senso critico che solo la letteratura dà nei confronti delle umane cose. Le statistiche parlano chiaro almeno quanto l’esperienza in giro nei corridoi delle scuole. Di fronte a una situazione del genere allargare le braccia, affidarsi alle occasionali genialità di qualche docente o, peggio, smettere di pensare, sono atteggiamenti colpevoli. Non solo verso Dante, Manzoni e tutti i grandi. È una colpa soprattutto verso i giovani, privati di una delle grandi risorse educative e delle grandi avventure umane. Non a caso mi hanno risposto su queste pagine soprattutto dei poeti. Che sono sempre i cani lupo del futuro, lo fiutano, ne vedono i tratti. Come se il problema riguardasse loro, e non invece insegnanti, di scuola e di università, dirigenti scolastici, ministeriali… Dove sono con la testa, e con il cuore costoro? Non uno che dica nulla. Neanche un’ammissione di responsabilità nel concorso a creare una situazione del genere… Oh, certo, forse non si abbassano a discutere di queste cosa con uno che scrive poesie. Hanno i loro consulenti specialisti, pedagogisti, professoristi, schedatoristi, imbalsamatori… Hanno da fare. Il tiepidume di fronte a questa faccenda da parte di Ministero (anche quello della Cultura che fa?), insegnanti, presidi, eccetera è orrendo. Come se non gliene fregasse più se un ragazzo a scuola possa amare il Cantico delle creature o Leopardi, o i Promessi Sposi. Ma se la ministra Gelmini e il ministro Bondi non vogliono discuterne, ho trovato in giro per l’Italia un sacco di gente che s’è accesa all’idea, condividendola, correggendola, rilanciandola. Sia Maurizio Cucchi che Roberto Mussapi, intervenendo su queste colonne, hanno riaffermato la necessità dell’insegnamento della poesia. L’uno in quanto materia al pari della matematica o di altre nell’orizzonte dello scibile umano che deve formare un ragazzo; l’altro, Mussapi, insistendo sulla natura antropologica e «mitica» della poesia come dimensione senza la quale le stesse materie come storia, scienza, eccetera, risultano poco interessanti e impoverite. Entrambi, mi è parso, non contestano la mia «rivoluzione». Del resto, amare la poesia e la letteratura, per sé e per i nostri figli, significa puntare tutto sulla libertà. C’è chi vuole, per questo, correre il rischio di cambiare qualcosa.
«Avvenire» del 28 maggio 2009
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