La sentenza forza i termini della questione
Di Francesco D’Agostino
Di Francesco D’Agostino
Il Tar della Lombardia prende posizione sul caso di Eluana Englaro, annullando l’atto con cui la Regione Lombardia si era rifiutata di accoglierla nelle proprie strutture, per farla 'morire dolcemente' (cioè per sottoporla a 'eu-tanasia'). È giusta questa sentenza? Assolutamente no (se sia 'valida' o come se ne possa accertare la 'validità' è questione che lascio volentieri ai dibattiti dei giuristi). Perché questa sentenza è ingiusta? Perché prende posizione (con accenti indebitamente perentori) su di una delicatissima questione biogiuridica e ancor più bioetica, ignorandone gli aspetti problematici, forzando i termini della questione e lo stesso dettato del diritto positivo.
Se infatti è vero che è diritto di ogni persona quello di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge), perché questo (ma questo soltanto!) dispone l’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, non è vero che questo diritto possa automaticamente essere interpretato come un diritto a prestazioni mediche che favoriscano l’eutanasia passiva. Il malato, ancorché gravissimo (purché maggiorenne e capace di intendere e di volere) può certamente rifiutare (se debitamente informato) l’ospedalizzazione e qualsiasi atto medico o chirurgico che gli venga proposto: non può però pretendere che medici e sanitari abbiano il dovere di operare attivamente per dare attuazione alla sua volontà di eutanasia. Sbagliano i magistrati, quando sostengono che cessare di alimentare Eluana non implichi l’eutanasia, ma solo il rispetto per una sua scelta insindacabile: rispettare una scelta, infatti, non comporta il dovere di cooperare con chi la compie per aiutarlo nel realizzarla, quando si ritiene che tale scelta sia eticamente e socialmente criticabile, oltre che deontologicamente problematica (e soprattutto quando si abbiano legittimi dubbi che la scelta sia veramente tale: siamo certi che Eluana fosse realmente informata, in modo adeguato e completo, di cosa comporta la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, di quanti giorni sono necessari per morire?). È indubbio che sia i singoli medici sia la sanità come istituzione hanno dovere di rispettare la volontà di chicchessia di non curarsi, ma è altrettanto indubbio che non possono diventare destinatari di un dovere di aiutare un paziente a morire: lo proibisce non solo l’etica medica, ma lo stesso diritto penale, quando sanziona l’aiuto al suicidio. Ma il Tar pensa il contrario e sembra non rendersi conto che questa sua pronuncia, come altre che l’hanno preceduta, feriscono gravemente lo statuto della medicina ippocratica. Non è certo questa la prima volta che l’astratto (e formalmente valido) ragionamento di un giudice fa violenza alla giustizia e non sarà certo questa l’ultima volta in cui saremo costretti a rilevarlo. L’importante è che non si pensi che in tal modo si accendono nuove inutili polemiche; qui non stiamo confondendo diritto e morale (come qualcuno si ostina a sostenere), ma stiamo difendendo il diritto e la sua vocazione prioritaria, che è la difesa della vita, contro la pericolosissima deformazione ideologica, di chi vuole ridurlo a tecnica di (dolce!) regolamentazione burocratica della morte.
Ecco perché il Parlamento (di cui il Tar in questa sentenza rileva l’inerzia, con accenti che mi sembrano molto inopportuni) ha il dovere di intervenire con la massima rapidità per approvare una legge sulla fine della vita umana e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, una legge che risponda a minimi requisiti di giustizia. È essenziale che la legge, nel riconoscere il diritto al dichiarante di chiedere o rifiutare specifici trattamenti sanitari, escluda quelli attivamente o passivamente eutanasici (e la sospensione dell’alimentazione è eutanasia!). Ed è altrettanto essenziale che la legge indichi i criteri per un rigoroso accertamento dell’autentica volontà del dichiarante e della sua compiuta competenza e informazione.
Accanto a questi requisiti un altro è assolutamente indispensabile, per strette ragioni di giustizia: una volta imposto al medico, destinatario delle dichiarazioni, il dovere di prenderle rigorosamente in considerazione, gli si deve riconoscere altresì il diritto di disattenderle, con adeguata motivazione, quando egli ritenga in scienza e coscienza che esse vadano contro il bene del malato, quel bene che egli si è impegnato con un giuramento a tutelare, sempre e comunque.
Se infatti è vero che è diritto di ogni persona quello di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge), perché questo (ma questo soltanto!) dispone l’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, non è vero che questo diritto possa automaticamente essere interpretato come un diritto a prestazioni mediche che favoriscano l’eutanasia passiva. Il malato, ancorché gravissimo (purché maggiorenne e capace di intendere e di volere) può certamente rifiutare (se debitamente informato) l’ospedalizzazione e qualsiasi atto medico o chirurgico che gli venga proposto: non può però pretendere che medici e sanitari abbiano il dovere di operare attivamente per dare attuazione alla sua volontà di eutanasia. Sbagliano i magistrati, quando sostengono che cessare di alimentare Eluana non implichi l’eutanasia, ma solo il rispetto per una sua scelta insindacabile: rispettare una scelta, infatti, non comporta il dovere di cooperare con chi la compie per aiutarlo nel realizzarla, quando si ritiene che tale scelta sia eticamente e socialmente criticabile, oltre che deontologicamente problematica (e soprattutto quando si abbiano legittimi dubbi che la scelta sia veramente tale: siamo certi che Eluana fosse realmente informata, in modo adeguato e completo, di cosa comporta la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, di quanti giorni sono necessari per morire?). È indubbio che sia i singoli medici sia la sanità come istituzione hanno dovere di rispettare la volontà di chicchessia di non curarsi, ma è altrettanto indubbio che non possono diventare destinatari di un dovere di aiutare un paziente a morire: lo proibisce non solo l’etica medica, ma lo stesso diritto penale, quando sanziona l’aiuto al suicidio. Ma il Tar pensa il contrario e sembra non rendersi conto che questa sua pronuncia, come altre che l’hanno preceduta, feriscono gravemente lo statuto della medicina ippocratica. Non è certo questa la prima volta che l’astratto (e formalmente valido) ragionamento di un giudice fa violenza alla giustizia e non sarà certo questa l’ultima volta in cui saremo costretti a rilevarlo. L’importante è che non si pensi che in tal modo si accendono nuove inutili polemiche; qui non stiamo confondendo diritto e morale (come qualcuno si ostina a sostenere), ma stiamo difendendo il diritto e la sua vocazione prioritaria, che è la difesa della vita, contro la pericolosissima deformazione ideologica, di chi vuole ridurlo a tecnica di (dolce!) regolamentazione burocratica della morte.
Ecco perché il Parlamento (di cui il Tar in questa sentenza rileva l’inerzia, con accenti che mi sembrano molto inopportuni) ha il dovere di intervenire con la massima rapidità per approvare una legge sulla fine della vita umana e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, una legge che risponda a minimi requisiti di giustizia. È essenziale che la legge, nel riconoscere il diritto al dichiarante di chiedere o rifiutare specifici trattamenti sanitari, escluda quelli attivamente o passivamente eutanasici (e la sospensione dell’alimentazione è eutanasia!). Ed è altrettanto essenziale che la legge indichi i criteri per un rigoroso accertamento dell’autentica volontà del dichiarante e della sua compiuta competenza e informazione.
Accanto a questi requisiti un altro è assolutamente indispensabile, per strette ragioni di giustizia: una volta imposto al medico, destinatario delle dichiarazioni, il dovere di prenderle rigorosamente in considerazione, gli si deve riconoscere altresì il diritto di disattenderle, con adeguata motivazione, quando egli ritenga in scienza e coscienza che esse vadano contro il bene del malato, quel bene che egli si è impegnato con un giuramento a tutelare, sempre e comunque.
«Avvenire» del 28 febbraio 2009
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