Cresce la consapevolezza che l’universo è così variabile da non rientrare in schemi rigidi e le basi della scienza « esatta » vacillano. All’intelligenza ( umana e artificiale) occorre una nuova logica: non più in bianco e nero, ma capace di infinite sfumature
di Andrea Vaccaro
di Andrea Vaccaro
Salgo sulla mia bilancia pesapersone e la freccia si allinea sopra la seconda tacchetta successiva al numero 65. Nell’ambulatorio di medicina sportiva, la strumentazione è più raffinata e scopro, in realtà, di pesare 67,08 kg. Nel laboratorio di un mio amico, una bilancia digitale indica fino a quattro cifre dopo la virgola e mi attesta ad un 67,0819. Mi chiedo se potrò mai conoscere con esattezza assoluta quello che sommariamente chiamiamo il nostro 'peso' e immagino uno strumento di misurazione talmente sofisticato da oscillare tra il momento in cui sono in piena inspirazione e quello della massima espirazione. Mi rassegno ad accettare che il mio peso non equivale ad un numero, ma ad una banda di oscillazione e penso che si misurava meglio quando si misurava peggio. A parte la considerazione finale, è questa una situazione in tipico stile fuzzy, dove il principio che domina suona: più cresce l’informazione, più emerge la natura fuzzy delle cose, ovvero il loro avere contorni sfrangiati e nebulosi, il loro essere chiaroscurali e imprecise. Ed affinché la conoscenza corrisponda alla realtà, occorre che anche i concetti, al pari delle cose, debbano essere vaghi e sfumati. Con una similare concettualità, Bart Kosko, docente di Ingegneria elettrica all’Università della California del Sud, esattamente quindici anni fa lanciava il Fuzzy Thinking (in Italia compare due anni dopo come Il fuzzypensiero, presso Baldini e Castoldi), esportando uno speciale modo di ragionare dai laboratori di matematica e di logica ai più svariati settori della nostra vita ordinaria. Nella quotidianità, così, fuzzy diveniva sinonimo di atteggiamento flessibile, sguardo morbido e soffuso, visione aperta e crepuscolare. In ambito accademico, in realtà, il termine fuzzy aveva visto il suo conio già nel 1965, quando uno dei maestri di Kosko, il matematico di origini iraniane Lotfi Zadeh pubblicò il suo saggio sugli insiemi sfumati, Fuzzy Sets appunto, basato su una logica dei valori intermedi, ovvero sull’idea che un oggetto possa essere non solo bianco o nero, A o non-A, ma anche parzialmente-A, quasi-A, abbastanza-A, eccetera. La scienza classica non accolse con grande entusiasmo questa innovazione. In effetti, il trauma non era di lieve entità. Il pensiero fuzzy, infatti, significava l’addio alle vecchie certezze della rigida logica binaria aristotelica, ove la gradualità tra il vero e il falso non è data; implicava il pensionamento delle cartesiane idee chiare e distinte perché, come sottolineava Bertrand Russell nel suo Vagueness, «esse non sono applicabili a questa vita terrena, ma solo a una vita celeste immaginaria»; comportava inoltre il congedo al mito della perdurante oggettività delle qualità primarie galileiane (figura, peso, movimento …), nonché al mito della ripetibilità dell’esperimento, perché anche nel più asettico laboratorio non si daranno mai contesti di micro-variabili completamente identiche. In questo senso, Kosko poteva aprire il suo testo con un’affermazione lapidaria: «Un bel giorno ho capito che la scienza non era vera. Non ricordo il giorno, ma ricordo il momento. Il dio del XX secolo non era più dio». L’accostamento non è superficiale, perché proprio quella scienza che nel passato si era armata per attaccare i dogmi della religione si trovava adesso sulla difensiva, nella arroccata salvaguardia dei propri 'dogmi' quali, ad esempio, quello della conoscenza oggettiva indipendente dal soggetto conoscente, quello della esclusività del metodo riduzionista o quello della linearità del vincolo 'una causa-un effetto'. Dopo la scoperta di Russell dei paradossi nei fondamenti stessi della matematica moderna e la codificazione da parte di Werner Heisenberg del principio di indeterminazione della fisica quantistica, ogni certezza ed ogni oggettività scientifica veniva meno.
Non è affatto necessario, però, osserva Kosko, studiare complicate teorie per accorgersi della natura fuzzy delle cose.
Qualcuno forse può assegnare confini nettamente delineati alla stratosfera, al buco nell’ozono, alle macchie solari, alla galassia detta Via Lattea? Se dall’immensamente grande si passa alla dimensione micro, il registro non muta: si pensi a quanta precisione possa sussistere in una nube di elettroni, nell’equilibrio molecolare, nel moto dei quark. Ci accorgiamo facilmente che anche la storia è fuzzy quando si tenta di definire eventi come la battaglia di Waterloo, la Grande depressione, qualunque rivoluzione e qualunque epoca. Che lo sia pure il sistema giuridico non v’è cittadino che lo ignori. E il nostro stesso io non trova mai stabilità, sia nella lanterna magica della nostra vita interiore, sia a livello fisico, con il nostro incessante invecchiare e con gli atomi del nostro corpo che turbinano, collidono e si avvolgono con gli atomi dell’aria tutta intorno. Tutto è indefinito e indefinibile, intrecciato, lanuginoso, miscelato, in un’interazione inestricabile con il resto che non ha limiti spaziali. Una misura di quanto la logica fuzzy sia divenuta degna di considerazione ed efficace è data dalla sua applicazione a quell’ex-campione di logica binaria che è il computer. Soprattutto in Giappone, culla del concetto di 'impermanenza', la tecnologia fuzzy – neologismo che ivi è stato significativamente tradotto con 'intelligente' – si è largamente affermata, mostrando in certi settori (ad esempio, lavatrici, videocamere, sistemi di controllo), una funzionalità ancor più efficiente. Anche coloro che commistono verità con applicabilità o operatività hanno avuto così la loro risposta.
La vera portata del pensiero fuzzy, comunque, rimane di natura teorica, nel segnalare l’ineludibile paradossalità interna alle nostre 'certezze'. Il pensiero fuzzy è, fondamentalmente, rimarcare che alla base della nostra geometria, come postulato, sta la definizione di 'segmento' come porzione finita di retta, formata da infiniti punti; che la nostra fisica ruota su un concetto di 'materia' che è composta, ultimativamente, da qualcosa che materia non è; che la nostra aritmetica, nel suo passo più breve (quello da 0 a 1), frappone una distanza di infiniti numeri (0,1; 0,11; 0,111, eccetera); che la nostra computazione del tempo prevede un luogo fisico (quello segnato dal 180° meridiano, agli antipodi di Greenwich) dove una persona può stare con una gamba nell’oggi e con l’altra nello ieri e prevede altresì che il conteggio della nostra stessa età inizi in una data presa assai arbitrariamente lungo il corso della nostra esistenza reale. Su questi e su molti altri consimili aspetti fa forza il fuzzy- pensiero. Non tanto perché si scivoli nel principio, con parvenze talora arrendevoli, del «sapere di non sapere», piuttosto perché si solleciti criticamente e si tenga sempre vivo un altro principio: quello del «sapere che cosa si finge di sapere con esattezza».
Non è affatto necessario, però, osserva Kosko, studiare complicate teorie per accorgersi della natura fuzzy delle cose.
Qualcuno forse può assegnare confini nettamente delineati alla stratosfera, al buco nell’ozono, alle macchie solari, alla galassia detta Via Lattea? Se dall’immensamente grande si passa alla dimensione micro, il registro non muta: si pensi a quanta precisione possa sussistere in una nube di elettroni, nell’equilibrio molecolare, nel moto dei quark. Ci accorgiamo facilmente che anche la storia è fuzzy quando si tenta di definire eventi come la battaglia di Waterloo, la Grande depressione, qualunque rivoluzione e qualunque epoca. Che lo sia pure il sistema giuridico non v’è cittadino che lo ignori. E il nostro stesso io non trova mai stabilità, sia nella lanterna magica della nostra vita interiore, sia a livello fisico, con il nostro incessante invecchiare e con gli atomi del nostro corpo che turbinano, collidono e si avvolgono con gli atomi dell’aria tutta intorno. Tutto è indefinito e indefinibile, intrecciato, lanuginoso, miscelato, in un’interazione inestricabile con il resto che non ha limiti spaziali. Una misura di quanto la logica fuzzy sia divenuta degna di considerazione ed efficace è data dalla sua applicazione a quell’ex-campione di logica binaria che è il computer. Soprattutto in Giappone, culla del concetto di 'impermanenza', la tecnologia fuzzy – neologismo che ivi è stato significativamente tradotto con 'intelligente' – si è largamente affermata, mostrando in certi settori (ad esempio, lavatrici, videocamere, sistemi di controllo), una funzionalità ancor più efficiente. Anche coloro che commistono verità con applicabilità o operatività hanno avuto così la loro risposta.
La vera portata del pensiero fuzzy, comunque, rimane di natura teorica, nel segnalare l’ineludibile paradossalità interna alle nostre 'certezze'. Il pensiero fuzzy è, fondamentalmente, rimarcare che alla base della nostra geometria, come postulato, sta la definizione di 'segmento' come porzione finita di retta, formata da infiniti punti; che la nostra fisica ruota su un concetto di 'materia' che è composta, ultimativamente, da qualcosa che materia non è; che la nostra aritmetica, nel suo passo più breve (quello da 0 a 1), frappone una distanza di infiniti numeri (0,1; 0,11; 0,111, eccetera); che la nostra computazione del tempo prevede un luogo fisico (quello segnato dal 180° meridiano, agli antipodi di Greenwich) dove una persona può stare con una gamba nell’oggi e con l’altra nello ieri e prevede altresì che il conteggio della nostra stessa età inizi in una data presa assai arbitrariamente lungo il corso della nostra esistenza reale. Su questi e su molti altri consimili aspetti fa forza il fuzzy- pensiero. Non tanto perché si scivoli nel principio, con parvenze talora arrendevoli, del «sapere di non sapere», piuttosto perché si solleciti criticamente e si tenga sempre vivo un altro principio: quello del «sapere che cosa si finge di sapere con esattezza».
«Avvenire» del 30 novembre 2008
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