Il memoriale di un testimone rimette in gioco quel che è stato sempre negato: la richiesta nazista ai colpevoli di costituirsi Il diario inedito dell’antifascista dottor Vittorio Claudi, che ospitò nella sua clinica una vittima delle Ardeatine
Di Paolo Simoncelli
«Io ricordo perfettamente un manifesto con l’avviso che se l’autore dell’attentato non si fosse presentato, ci sarebbe stata l’esecuzione di 10 uomini per ogni tedesco»
Di Paolo Simoncelli
«Io ricordo perfettamente un manifesto con l’avviso che se l’autore dell’attentato non si fosse presentato, ci sarebbe stata l’esecuzione di 10 uomini per ogni tedesco»
«Fosse Ardeatine sono due parole che suonano al mio orecchio e credo all’orecchio di tutti gli Italiani come due parole sacre». È il passo d’una lettera inedita del 19 ottobre 1944, scritta dalla sorella minore di un fucilato, il maggiore Ayroldi, alla sorella di chi lo aveva tenuto nascosto. La lettera, insieme ad altra documentazione storica, emerge in occasione dei 65 anni dalla strage di via Rasella e dalla rappresaglia delle Fosse Ardeatine dalla Fondazione Claudi, dove è conservata; e consente qualche messa a fuoco su particolari non irrilevanti di quelle circostanze su cui del resto (addirittura a partire dal numero dei morti complessivi) non tutto è chiaro.
La famiglia Claudi è originaria di San Severino Marche; Adolfo, farmacista, aveva inventato una lozione utile a curare i dolori sciatici, fece fortuna e si trasferì a Roma alla fine degli anni ’30, dove addirittura la famiglia poté avviare una clinica, «Villa Bianca Maria» in via Guido d’Arezzo, mentre i due figli maschi studiavano aspirando ad alti traguardi: Claudio, già allievo della Normale di Pisa, nella classe di Lettere (subito affascinato da Capitini), da cui però era stato espulso per indisciplina, finisce gli studi a Firenze, ammalandosi poi gravemente ma formando comunque nel dopoguerra un cenacolo letterario e artistico di prim’ordine nella casa di famiglia a Roma; Vittorio, studente di Medicina a Roma dal 1939. Famiglia antifascista; già il padre, nella provincia marchigiana, aveva subìto i controlli delle locali sezioni del Fascio; Vittorio fu controllato più volte dalla polizia. Con il collasso politico- militare dello Stato, nel 1943, la gestione d’una clinica privata nella capitale acquisisce un valore aggiunto straordinario. Puntualmente infatti – mentre il cugino dei due fratelli, Tonio Claudi, diventa nelle Marche un leggendario capo partigiano – «Villa Bianca Maria» diviene un ricovero di partigiani ed ebrei «segnalati da un certo monsignor Montini ». A darci il quadro vivo e tragico di quei mesi è un memoriale inedito di Vittorio Claudi (morto nel 2006) che, come studente di Medicina, contribuiva alla gestione della clinica. Le sue pagine contengono osservazioni sparse, spesso divaganti tra letteratura, arte, ricordi privati, tra cui s’affaccia il comandante Ayroldi con altri ufficiali che costituirono il primo nucleo della resistenza romana, agli ordini del colonnello Montezemolo (parimenti fucilato alle Fosse Ardeatine). In quella clinica Ayroldi venne «ricoverato» con piena consapevolezza del suo ruolo da parte dei vertici amministrativi e del personale medico (addirittura si sottopose a uno strumentale intervento di appendicectomia).
«Ayroldi, l’uomo più coraggioso e sorridente che mi sia stato dato di incontrare», lasciava nottetempo la clinica e vi rientrava furtivamente; «Era diventato ufficiale dalla gavetta. Perduto il padre in giovane età, doveva mantenere la madre e un nugolo di sorelline. Allora poteva ave- re 33 anni, era maggiore dello Stato Maggiore; nelle formazioni badogliane – lo sapemmo dopo – era il vice-comandante della zona Castelli e Lazio sud. Ma una sera (aveva detto che sarebbe tornato) al termine del coprifuoco ancora non c’era»; tre quarti d’ora dopo, la sua stanza venne prudentemente «ripulita» da tutto ciò che poteva essere compromettente; vi si rinvennero molte banconote « e un notes semplicemente esplosivo dove erano annotate tutte le elargizioni ricevute(…). Quel notes fu fatto a pezzettini e, con più scarichi, inghiottito dalle cloache di Roma». Dopo giorni di assenza che denunciavano il peggio, giunse alla clinica un uomo che disse «di essere un muratore che lavorava in via Tasso, che aveva avuto da un prigioniero questo biglietto». Il sospetto di essere davanti a un agente provocatore avvolse tutti: «La descrizione che dava di colui che avrebbe dovuto essere Ayroldi non corrispondeva. Il messaggio, scritto sul bordo di un pezzetto di giornale clandestino, Giustizia e libertà aveva una calligrafia incerta a lapis che non ci sembrava, a memoria, quella di Ayroldi (…). Il messaggio, di poche parole, era di non preoccuparsi, che stava bene». Circostanze che imponevano l’evasività: « Ci si comportò anche noi (io e mamma) nella maniera più ambigua e non compromettente».
In realtà Ayroldi veniva sottoposto a interrogatori e torture a Via Tasso; confessò la versione già concordata con la clinica: vi era stato ricoverato per un’operazione di appendicite. A «Villa Bianca Maria» giunsero le SS. Cominciò l’interrogatorio del personale e la « versione ufficiale » resse: «Per recuperare la stanza vuofucilati, ta abbiamo messo nella sua valigia le sue robe. Anzi la sua valigia è in questo armadio. Le domande dei tre erano martellanti, mentre scucivano i vestiti, sfibravano la valigia alla ricerca di elementi». Il «colloquio» s’era svolto nella direzione della clinica; « se appena avessero messo fuori il muso dalla Direzione e fossero entrati in qualche stanza sarebbe stata un’ecatombe»: vi erano ricoverati una ventina di ebrei.
«Dovevano attribuire molta importanza ad Ayroldi. Ma non vennero più. Era il 23 marzo e in quelle stesse ore avveniva l’attentato di Via Rasella. Ayroldi fu incluso nei 320 fucilati. (…). Dopo un po’, nascondemmo ancora qualche altro ebreo, sempre segnalatoci da Montini». 320 scrive Claudi; in un primo momento sembrava infatti che i morti altoatesini del battaglione Bozen dilaniati dall’attentato gappista fossero 32. «Di Ayroldi – così Claudi avrebbe concluso questa prima parte del suo memoriale – non ci rimane che una foto segnaletica e la corda che legava le sue mani, sporca di terra, consegnataci da patrioti del Cln, e che mia madre ha conservato come una reliquia» (questa corda fu così cara a Vittorio che la compagna, Ursula Magura, ha voluto gli fosse inserita nella bara).
La certificazione partigiana, intestata « Comando raggruppamenti patrioti Italia centrale. Raggruppamento Castelli - Lazio sud», dava atto alla clinica «Bianca Maria», alla proprietaria Anna Claudi, al direttore dottor Leonardo Valletti, d’aver « collaborato tangibilmente con questo Comando. Ha ospitato per vari mesi il Magg. Antonio Ayroldi (fucilato dai nazisti il 23 marzo), pur conoscendo l’attività clandestina che questi svolgeva. Ha offerto gratis il ricovero e la cura di altri ufficiali, tra cui il Ten. Col. Rossi Gino (fucilato il 2 febbraio) e il Cap. Pratesi, anch’essi facenti parte del fronte clandestino. In più il dottor Valletti, direttore della Clinica ha offerto gratis la sua opera professionale a beneficio del personale e dell’organizzazione. Merita pieno riconoscimento. Dal novembre 1943 al giugno 1944». Poi, nel memoriale di Vittorio Claudi, un lampo: «Io ricordo perfettamente un manifesto affisso a Piazza Verdi, di fronte al Poligrafico (…) che recava tra due bande nere, una sopra e una sotto, l’avvertimento che qualora l’autore ( o gli autori) dell’attentato non si fosse presentato, ci sarebbe stata l’esecuzione di 10 uomini per ogni soldato tedesco, secondo la legge di guerra tedesca». Una fonte non sospetta dunque rimette in gioco quel che è stato sempre graniticamente negato da autori e mandanti dell’attentato di via Rasella: ovvero l’esistenza del manifesto, in base al quale la responsabilità dei partigiani sarebbe più pesante.
La famiglia Claudi è originaria di San Severino Marche; Adolfo, farmacista, aveva inventato una lozione utile a curare i dolori sciatici, fece fortuna e si trasferì a Roma alla fine degli anni ’30, dove addirittura la famiglia poté avviare una clinica, «Villa Bianca Maria» in via Guido d’Arezzo, mentre i due figli maschi studiavano aspirando ad alti traguardi: Claudio, già allievo della Normale di Pisa, nella classe di Lettere (subito affascinato da Capitini), da cui però era stato espulso per indisciplina, finisce gli studi a Firenze, ammalandosi poi gravemente ma formando comunque nel dopoguerra un cenacolo letterario e artistico di prim’ordine nella casa di famiglia a Roma; Vittorio, studente di Medicina a Roma dal 1939. Famiglia antifascista; già il padre, nella provincia marchigiana, aveva subìto i controlli delle locali sezioni del Fascio; Vittorio fu controllato più volte dalla polizia. Con il collasso politico- militare dello Stato, nel 1943, la gestione d’una clinica privata nella capitale acquisisce un valore aggiunto straordinario. Puntualmente infatti – mentre il cugino dei due fratelli, Tonio Claudi, diventa nelle Marche un leggendario capo partigiano – «Villa Bianca Maria» diviene un ricovero di partigiani ed ebrei «segnalati da un certo monsignor Montini ». A darci il quadro vivo e tragico di quei mesi è un memoriale inedito di Vittorio Claudi (morto nel 2006) che, come studente di Medicina, contribuiva alla gestione della clinica. Le sue pagine contengono osservazioni sparse, spesso divaganti tra letteratura, arte, ricordi privati, tra cui s’affaccia il comandante Ayroldi con altri ufficiali che costituirono il primo nucleo della resistenza romana, agli ordini del colonnello Montezemolo (parimenti fucilato alle Fosse Ardeatine). In quella clinica Ayroldi venne «ricoverato» con piena consapevolezza del suo ruolo da parte dei vertici amministrativi e del personale medico (addirittura si sottopose a uno strumentale intervento di appendicectomia).
«Ayroldi, l’uomo più coraggioso e sorridente che mi sia stato dato di incontrare», lasciava nottetempo la clinica e vi rientrava furtivamente; «Era diventato ufficiale dalla gavetta. Perduto il padre in giovane età, doveva mantenere la madre e un nugolo di sorelline. Allora poteva ave- re 33 anni, era maggiore dello Stato Maggiore; nelle formazioni badogliane – lo sapemmo dopo – era il vice-comandante della zona Castelli e Lazio sud. Ma una sera (aveva detto che sarebbe tornato) al termine del coprifuoco ancora non c’era»; tre quarti d’ora dopo, la sua stanza venne prudentemente «ripulita» da tutto ciò che poteva essere compromettente; vi si rinvennero molte banconote « e un notes semplicemente esplosivo dove erano annotate tutte le elargizioni ricevute(…). Quel notes fu fatto a pezzettini e, con più scarichi, inghiottito dalle cloache di Roma». Dopo giorni di assenza che denunciavano il peggio, giunse alla clinica un uomo che disse «di essere un muratore che lavorava in via Tasso, che aveva avuto da un prigioniero questo biglietto». Il sospetto di essere davanti a un agente provocatore avvolse tutti: «La descrizione che dava di colui che avrebbe dovuto essere Ayroldi non corrispondeva. Il messaggio, scritto sul bordo di un pezzetto di giornale clandestino, Giustizia e libertà aveva una calligrafia incerta a lapis che non ci sembrava, a memoria, quella di Ayroldi (…). Il messaggio, di poche parole, era di non preoccuparsi, che stava bene». Circostanze che imponevano l’evasività: « Ci si comportò anche noi (io e mamma) nella maniera più ambigua e non compromettente».
In realtà Ayroldi veniva sottoposto a interrogatori e torture a Via Tasso; confessò la versione già concordata con la clinica: vi era stato ricoverato per un’operazione di appendicite. A «Villa Bianca Maria» giunsero le SS. Cominciò l’interrogatorio del personale e la « versione ufficiale » resse: «Per recuperare la stanza vuofucilati, ta abbiamo messo nella sua valigia le sue robe. Anzi la sua valigia è in questo armadio. Le domande dei tre erano martellanti, mentre scucivano i vestiti, sfibravano la valigia alla ricerca di elementi». Il «colloquio» s’era svolto nella direzione della clinica; « se appena avessero messo fuori il muso dalla Direzione e fossero entrati in qualche stanza sarebbe stata un’ecatombe»: vi erano ricoverati una ventina di ebrei.
«Dovevano attribuire molta importanza ad Ayroldi. Ma non vennero più. Era il 23 marzo e in quelle stesse ore avveniva l’attentato di Via Rasella. Ayroldi fu incluso nei 320 fucilati. (…). Dopo un po’, nascondemmo ancora qualche altro ebreo, sempre segnalatoci da Montini». 320 scrive Claudi; in un primo momento sembrava infatti che i morti altoatesini del battaglione Bozen dilaniati dall’attentato gappista fossero 32. «Di Ayroldi – così Claudi avrebbe concluso questa prima parte del suo memoriale – non ci rimane che una foto segnaletica e la corda che legava le sue mani, sporca di terra, consegnataci da patrioti del Cln, e che mia madre ha conservato come una reliquia» (questa corda fu così cara a Vittorio che la compagna, Ursula Magura, ha voluto gli fosse inserita nella bara).
La certificazione partigiana, intestata « Comando raggruppamenti patrioti Italia centrale. Raggruppamento Castelli - Lazio sud», dava atto alla clinica «Bianca Maria», alla proprietaria Anna Claudi, al direttore dottor Leonardo Valletti, d’aver « collaborato tangibilmente con questo Comando. Ha ospitato per vari mesi il Magg. Antonio Ayroldi (fucilato dai nazisti il 23 marzo), pur conoscendo l’attività clandestina che questi svolgeva. Ha offerto gratis il ricovero e la cura di altri ufficiali, tra cui il Ten. Col. Rossi Gino (fucilato il 2 febbraio) e il Cap. Pratesi, anch’essi facenti parte del fronte clandestino. In più il dottor Valletti, direttore della Clinica ha offerto gratis la sua opera professionale a beneficio del personale e dell’organizzazione. Merita pieno riconoscimento. Dal novembre 1943 al giugno 1944». Poi, nel memoriale di Vittorio Claudi, un lampo: «Io ricordo perfettamente un manifesto affisso a Piazza Verdi, di fronte al Poligrafico (…) che recava tra due bande nere, una sopra e una sotto, l’avvertimento che qualora l’autore ( o gli autori) dell’attentato non si fosse presentato, ci sarebbe stata l’esecuzione di 10 uomini per ogni soldato tedesco, secondo la legge di guerra tedesca». Una fonte non sospetta dunque rimette in gioco quel che è stato sempre graniticamente negato da autori e mandanti dell’attentato di via Rasella: ovvero l’esistenza del manifesto, in base al quale la responsabilità dei partigiani sarebbe più pesante.
“Avvenire” del 17 marzo 2009
Nessun commento:
Posta un commento