Parla l’europarlamentare Franz Ludwig von Stauffenberg, figlio del generale Claus autore del fallito complotto contro il Führer
Di Diego Vanzi
Di Diego Vanzi
«La decisione di opporsi alla brutalità hitleriana è sorta nello spirito della nostra famiglia, dove ha sempre avuto un ruolo preponderante la religione»
Franz Ludwig Schenk von Stauffenberg sarà ospite del festival «èStoria» domenica 24 maggio; l’incontro di Stefano Mesurati con il figlio di Claus Schenk von Stauffenberg, che pagò con la vita il tentativo di eliminare Hitler, sarà preceduto dall’incontro «I misteri di Hitler» in cui dialogheranno Alberto Garlini, Giorgio Galli e Anna Maria Sigmund.
La vicenda del 20 luglio è stata recentemente portata - o meglio riportata - sugli schermi con il titolo «Operazione Valchiria». Ha notato nel film discordanze rispetto a quanto realmente accaduto?
«Si tratta appunto di un film e non di un documentario. Raccontare in solo un’ora e mezzo la resistenza e l’intera vicenda del 20 luglio non sarebbe stato possibile. Posso dire che sotto l’aspetto storico si tratta di un film da apprezzare, migliore di altri film girati sullo stesso tema. Una mia riserva riguarda come la figura di mio padre appaia sempre sulla scena del film e ne faccia quasi un 'one man show'. Forse doveva apparire così. Ma la resistenza è stata molto più vasta, differenziata e rappresentativa della minoranza che appare nel film».
Perché si afferma che la nobiltà tedesca ha ben poco contribuito alla resistenza contro il regime hitleriano?
«Ciò non è affatto vero! È un’affermazione antistorica. Bisogna invece chiedersi perché proprio nel caso del 20 luglio furono implicati tanti nobili e pochissimi uomini dell’amministrazione e dell’apparato statale. Affermare oggi che la nobiltà tedesca ha fallito significa falsificare la storia con scopi ideologici di una falsa socializzazione».
Lei aveva sei anni all’epoca dell’attentato del 20 luglio. Ha qualche ricordo di quei giorni?
«Ricordo che mia madre è venuta da noi bambini e ci ha comunicato che nostro padre era morto. Fu un momento estremamente doloroso. Il giorno seguente la Gestapo la portò via assieme ad un nostro zio. Due giorni più tardi è stata la volta della nonna e di sua sorella. Arrivarono due persone sempre della Gestapo che presero per così dire il comando in casa. Qualche tempo dopo anche noi bambini siamo stati prelevati e portati in un asilo nello Harz. Siamo rimasti lì a lungo, finché una nostra zia, ex superiora della Croce Rossa, dopo la fine della guerra nel giugno del 1945 è riuscita a rintracciarci ed a portarci via».
Gli Stauffenberg sono una famiglia cattolica. Pensa che questo abbia avuto un ruolo nella decisione di opporsi al nazismo?
«Naturalmente la decisione di opporsi alla brutalità hitleriana di mio padre, suo fratello, il cugino e lo zio, tutti poi uccisi, è sorta nello spirito della nostra famiglia, della cultura, dell’educazione e in tutto questo ha sempre avuto un ruolo preponderante la religione. Non solo quella cattolica. Nella famiglia di mio padre c’erano molti protestanti, sua madre era evangelica ma non c’è mai stata tra noi alcuna divergenza. Per noi l’essenziale veniva dalle radici cristiane. Era ovvia l’opposizione contro un regime inumano e criminale. Per quanto riguarda mio padre devo però dire che a volte era piuttosto critico nei confronti della Chiesa ufficiale».
Perché dopo la guerra parte dell’opinione pubblica tedesca non ha visto negli oppositori al nazismo figure degne di ammirazione, anzi talvolta è avvenuto il contrario?
«Ci sono state opinioni diverse. Ci furono molti tedeschi che hanno sofferto per aver dovuto riconoscere al più tardi dopo la guerra di aver servito il Male, di aver seguito le persone sbagliate, che hanno dovuto rispondere del loro passato e hanno avuto difficoltà a riconoscere i meriti dei pochi che si erano rifiutati di obbedire. Ci sono stati però altri che hanno provato profonda ammirazione per questi pochi. Dopo la guerra ho vissuto in campagna nel Baden-Württemberg e non ho mai sentito una parola di rifiuto verso gli oppositori. Più tardi da deputato al Bundestag e poi al Parlamento europeo ho ricevuto sì odiosi messaggi anonimi, sempre e solo anonimi, ma nessuno di fronte a me ha mai offeso la memoria di mio padre. Dunque il rifiuto che c’è stato, e c’è ancor oggi, è per lo più legato ad un vile anonimato ».
Oggi, 65 anni dopo quel 20 luglio, cosa è rimasto del tentativo di abbattere Hitler?
«Quello che resta oggi di un’epoca segnata dall’ingiustizia, dal terrore, dall’illegalità e dalle sciagure è il coraggio di quei pochi come mio padre che non si sono piegati, e agendo contro l’opinione pubblica dell’epoca, hanno tentato di opporsi ad una dittatura totalitaria. Il loro coraggio civile, pagato con la vita, dev’essere ancor oggi degno di ammirazione».
La vicenda del 20 luglio è stata recentemente portata - o meglio riportata - sugli schermi con il titolo «Operazione Valchiria». Ha notato nel film discordanze rispetto a quanto realmente accaduto?
«Si tratta appunto di un film e non di un documentario. Raccontare in solo un’ora e mezzo la resistenza e l’intera vicenda del 20 luglio non sarebbe stato possibile. Posso dire che sotto l’aspetto storico si tratta di un film da apprezzare, migliore di altri film girati sullo stesso tema. Una mia riserva riguarda come la figura di mio padre appaia sempre sulla scena del film e ne faccia quasi un 'one man show'. Forse doveva apparire così. Ma la resistenza è stata molto più vasta, differenziata e rappresentativa della minoranza che appare nel film».
Perché si afferma che la nobiltà tedesca ha ben poco contribuito alla resistenza contro il regime hitleriano?
«Ciò non è affatto vero! È un’affermazione antistorica. Bisogna invece chiedersi perché proprio nel caso del 20 luglio furono implicati tanti nobili e pochissimi uomini dell’amministrazione e dell’apparato statale. Affermare oggi che la nobiltà tedesca ha fallito significa falsificare la storia con scopi ideologici di una falsa socializzazione».
Lei aveva sei anni all’epoca dell’attentato del 20 luglio. Ha qualche ricordo di quei giorni?
«Ricordo che mia madre è venuta da noi bambini e ci ha comunicato che nostro padre era morto. Fu un momento estremamente doloroso. Il giorno seguente la Gestapo la portò via assieme ad un nostro zio. Due giorni più tardi è stata la volta della nonna e di sua sorella. Arrivarono due persone sempre della Gestapo che presero per così dire il comando in casa. Qualche tempo dopo anche noi bambini siamo stati prelevati e portati in un asilo nello Harz. Siamo rimasti lì a lungo, finché una nostra zia, ex superiora della Croce Rossa, dopo la fine della guerra nel giugno del 1945 è riuscita a rintracciarci ed a portarci via».
Gli Stauffenberg sono una famiglia cattolica. Pensa che questo abbia avuto un ruolo nella decisione di opporsi al nazismo?
«Naturalmente la decisione di opporsi alla brutalità hitleriana di mio padre, suo fratello, il cugino e lo zio, tutti poi uccisi, è sorta nello spirito della nostra famiglia, della cultura, dell’educazione e in tutto questo ha sempre avuto un ruolo preponderante la religione. Non solo quella cattolica. Nella famiglia di mio padre c’erano molti protestanti, sua madre era evangelica ma non c’è mai stata tra noi alcuna divergenza. Per noi l’essenziale veniva dalle radici cristiane. Era ovvia l’opposizione contro un regime inumano e criminale. Per quanto riguarda mio padre devo però dire che a volte era piuttosto critico nei confronti della Chiesa ufficiale».
Perché dopo la guerra parte dell’opinione pubblica tedesca non ha visto negli oppositori al nazismo figure degne di ammirazione, anzi talvolta è avvenuto il contrario?
«Ci sono state opinioni diverse. Ci furono molti tedeschi che hanno sofferto per aver dovuto riconoscere al più tardi dopo la guerra di aver servito il Male, di aver seguito le persone sbagliate, che hanno dovuto rispondere del loro passato e hanno avuto difficoltà a riconoscere i meriti dei pochi che si erano rifiutati di obbedire. Ci sono stati però altri che hanno provato profonda ammirazione per questi pochi. Dopo la guerra ho vissuto in campagna nel Baden-Württemberg e non ho mai sentito una parola di rifiuto verso gli oppositori. Più tardi da deputato al Bundestag e poi al Parlamento europeo ho ricevuto sì odiosi messaggi anonimi, sempre e solo anonimi, ma nessuno di fronte a me ha mai offeso la memoria di mio padre. Dunque il rifiuto che c’è stato, e c’è ancor oggi, è per lo più legato ad un vile anonimato ».
Oggi, 65 anni dopo quel 20 luglio, cosa è rimasto del tentativo di abbattere Hitler?
«Quello che resta oggi di un’epoca segnata dall’ingiustizia, dal terrore, dall’illegalità e dalle sciagure è il coraggio di quei pochi come mio padre che non si sono piegati, e agendo contro l’opinione pubblica dell’epoca, hanno tentato di opporsi ad una dittatura totalitaria. Il loro coraggio civile, pagato con la vita, dev’essere ancor oggi degno di ammirazione».
«Avvenire» del 20 maggio 2009
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