«La crisi viene da una fede cieca nella potenza della tecnica a discapito dei valori, ossia delle cose che contano al di là della loro redditività» L’analisi del sociologo Mauro Magatti
Di Gerolamo Fazzini
Di Gerolamo Fazzini
«L’economia mondiale è stata colpita da un infarto, tamponato grazie a interventi opportuni e tempestivi. Ora siamo al bivio: tornare a condurre l’esistenza di prima, fingendo di essere completamente guariti, oppure cambiare stile di vita ». Non ha dubbi il professor Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica e preside della facoltà di Scienze politiche: è questo il nodo cruciale che gli attori politici e il sistema economico debbono affrontare se si vuole uscire dalla crisi con un orizzonte lungimirante. «In caso contrario, si perpetuerà l’instabilità attuale e potremmo assistere a crisi ben peggiori nel prossimo futuro». Classe 1960, laureato alla Bocconi in Discipline economiche e sociali, Magatti è un osservatore qualificato sulla crisi in atto: docente, fra l’altro, di Analisi e istituzioni del capitalismo contemporaneo, negli ultimi anni ha concentrato la sua attività di ricerca sullo studio della globalizzazione e dei suoi effetti.
Come legge, da sociologo, la crisi economica in atto?
«Paragono questa crisi a quanto accaduto negli anni Settanta; allora abbiamo avuto dieci anni di conflitti sociali derivanti dalla crisi dello Stato nazionale. Un modello, beninteso, che ha prodotto molti aspetti positivi, ma degenerato, con il tempo, nello statalismo. Analogamente, la crisi economica in atto, a mio avviso, rappresenta il segnale forte di un’altra crisi: quella del modello economico degli ultimi trent’anni, che – non dimentichiamolo – ha avuto il merito di migliorare i parametri economici e le condizioni di vita di milioni di persone. Ma, come ieri abbiamo visto i limiti dello statalismo, oggi assistiamo alla crisi del mercatismo e alle sue contraddizioni. La portata della crisi e la sua natura possano costituire l’occasione per avviare un processo di revisione profonda di alcune distorsioni progressivamente prodottesi in tale modello ».
In un libro di prossima pubblicazione da Feltrinelli, lei sostiene essere entrato in crisi un modello economico che lei chiama «capitalismo tecnico-nichilista». Che significa?
«La contraddizione di fondo di quel modello è racchiusa precisamente nell’espressione 'tecnico-nichilista' e nelle illusioni da esso generate. Quel tipo di capitalismo ha creduto ciecamente alla potenza della tecnica, indebolendo così la capacità dei soggetti di condividere valori, ossia le cose che contano al di là della redditività economica. La crisi finanziaria è l’emblema di questa contraddizione: i valori finanziari erano del tutto fittizi, in quanto slegati dalla realtà: come un uovo sbattuto, il cui volume aumenta artificialmente, per poi sgonfiarsi improvvisamente. Oggi che tutto questo è sotto i nostri occhi, bisogna aver voglia di imparare le lezione. Tradotto: la crescita economica è un bene, ma non può essere un fine in sé. Redditività e profitto vanno associati a uno sviluppo sociale, altrimenti producono architetture finanziarie che si rivelano essere, l’abbiamo visto, autentici castelli di carta, destinati a crollare. L’unico sviluppo economico solido è quello che accetta di andare un po’ più piano, ma fa crescere la società».
Uno sviluppo in qualche modo 'temperato', assoggettato a regole comuni…
«Negli ultimi decenni abbiamo costruito un legame stretto tra sviluppo economico e sociale a livello di Stati nazionali; ora occorre estendere tutto ciò su una scala più vasta. Di qui il problema delle regole, di cui tanto si parla. Il punto è: siamo disposti ad accettare di correre un po’ meno e di crescere, come collettività, un po’ di più? Non si può, perciò, non immaginare un’autorità in grado di stabilire dei limiti alla crescita. Per uscire dal vecchio capitalismo serve trovare nuovi equilibri e assetti istituzionali adeguati allo scopo ».
Che tipo di autorità immagina? Di natura economia o politica?
«La difficoltà è proprio questa! Non penso a un super-Stato, beninteso. Dico però che gli accordi di Bretton Woods sono un prodotto della Seconda guerra mondiale. Immaginare una nuova architettura economico- finanziaria che non sia figlia di una guerra è molto difficile. Sono richieste grande intelligenza politica e una visione di lungo respiro».
Dai segnali che osserva, stiamo andando in tale direzione? O non s’avverte, fra le righe di certe prese di posizione, una gran voglia di archiviare tutto e tornare allo status quo?
«L’economia ha subito un infarto, l’abbiamo detto. Tornare allo stile di vita di sempre non mi pare prudente. La fretta di dire che la crisi è superata, perciò, rappresenta un brutto segnale. È del tutto evidente, infatti, che ripensare l’orientamento economico complessivo è un lavoro che richiede anni, non mesi. Una crisi di questa portata può forse essere risolta in un anno, ma gli effetti sociali si protrarranno a lungo. E l’errore più grave sarebbe fingere che queste conseguenze di medio termine non esistano. Vedo il rischio concreto che si inneschi un processo di instabilità di lungo periodo».
Di recente lei ha dichiarato che «dopo anni di individualismo, forse è arrivato il momento di capire che c’ è un filo che ci lega gli uni agli altri. Come in montagna: essere in cordata aiuta, non è un limite alla libertà ». È ottimista sul futuro o pessimista, da questo punto di vista?
«Non si tratta di atteggiamenti... Mi limito a constatare che la crisi ha attestato che le risorse morali nella nostra società ci sono ancora (in Europa come negli Usa). Naturalmente, queste hanno bisogno di essere attivate e guidate; occorrono visioni culturali e politiche che le supportino. Certo è che nei momenti di decadimento morale le lezioni si imparano attraverso le sofferenze: lo dice la storia. Speriamo che prevalga la saggezza, così da evitare che si paghino alti costi sociali».
In un intervento di poche settimane fa lei si è soffermato sull’urgenza di coniugare in modo nuovo libertà e responsabilità come via per uscire dalla crisi. Perché?
«Al fondo di tutto, io credo, c’è precisamente il rapporto fra libertà e responsabilità. Di qui il titolo del mio prossimo libro, Libertà immaginaria. La vera partita, in futuro, si giocherà nel modo in cui pensiamo la libertà, in un mondo che ha prodotto lo sviluppo economico-sociale che abbiamo conosciuto, ma che ora domanda un surplus di responsabilità. Oggi ci troviamo – per così dire – nell’età dell’adolescenza dal punto di vista della libertà. Dopo aver pensato che libertà significhi fare quello che si vuole, sciogliendo tutti i legami, ora è tempo di farla maturare nella direzione della responsabilità, perché senza quest’ultima non esiste nemmeno la libertà. Credo si apra qui un grande spazio per un neo-personalismo, oltre le derive tecnico-nichiliste».
Come legge, da sociologo, la crisi economica in atto?
«Paragono questa crisi a quanto accaduto negli anni Settanta; allora abbiamo avuto dieci anni di conflitti sociali derivanti dalla crisi dello Stato nazionale. Un modello, beninteso, che ha prodotto molti aspetti positivi, ma degenerato, con il tempo, nello statalismo. Analogamente, la crisi economica in atto, a mio avviso, rappresenta il segnale forte di un’altra crisi: quella del modello economico degli ultimi trent’anni, che – non dimentichiamolo – ha avuto il merito di migliorare i parametri economici e le condizioni di vita di milioni di persone. Ma, come ieri abbiamo visto i limiti dello statalismo, oggi assistiamo alla crisi del mercatismo e alle sue contraddizioni. La portata della crisi e la sua natura possano costituire l’occasione per avviare un processo di revisione profonda di alcune distorsioni progressivamente prodottesi in tale modello ».
In un libro di prossima pubblicazione da Feltrinelli, lei sostiene essere entrato in crisi un modello economico che lei chiama «capitalismo tecnico-nichilista». Che significa?
«La contraddizione di fondo di quel modello è racchiusa precisamente nell’espressione 'tecnico-nichilista' e nelle illusioni da esso generate. Quel tipo di capitalismo ha creduto ciecamente alla potenza della tecnica, indebolendo così la capacità dei soggetti di condividere valori, ossia le cose che contano al di là della redditività economica. La crisi finanziaria è l’emblema di questa contraddizione: i valori finanziari erano del tutto fittizi, in quanto slegati dalla realtà: come un uovo sbattuto, il cui volume aumenta artificialmente, per poi sgonfiarsi improvvisamente. Oggi che tutto questo è sotto i nostri occhi, bisogna aver voglia di imparare le lezione. Tradotto: la crescita economica è un bene, ma non può essere un fine in sé. Redditività e profitto vanno associati a uno sviluppo sociale, altrimenti producono architetture finanziarie che si rivelano essere, l’abbiamo visto, autentici castelli di carta, destinati a crollare. L’unico sviluppo economico solido è quello che accetta di andare un po’ più piano, ma fa crescere la società».
Uno sviluppo in qualche modo 'temperato', assoggettato a regole comuni…
«Negli ultimi decenni abbiamo costruito un legame stretto tra sviluppo economico e sociale a livello di Stati nazionali; ora occorre estendere tutto ciò su una scala più vasta. Di qui il problema delle regole, di cui tanto si parla. Il punto è: siamo disposti ad accettare di correre un po’ meno e di crescere, come collettività, un po’ di più? Non si può, perciò, non immaginare un’autorità in grado di stabilire dei limiti alla crescita. Per uscire dal vecchio capitalismo serve trovare nuovi equilibri e assetti istituzionali adeguati allo scopo ».
Che tipo di autorità immagina? Di natura economia o politica?
«La difficoltà è proprio questa! Non penso a un super-Stato, beninteso. Dico però che gli accordi di Bretton Woods sono un prodotto della Seconda guerra mondiale. Immaginare una nuova architettura economico- finanziaria che non sia figlia di una guerra è molto difficile. Sono richieste grande intelligenza politica e una visione di lungo respiro».
Dai segnali che osserva, stiamo andando in tale direzione? O non s’avverte, fra le righe di certe prese di posizione, una gran voglia di archiviare tutto e tornare allo status quo?
«L’economia ha subito un infarto, l’abbiamo detto. Tornare allo stile di vita di sempre non mi pare prudente. La fretta di dire che la crisi è superata, perciò, rappresenta un brutto segnale. È del tutto evidente, infatti, che ripensare l’orientamento economico complessivo è un lavoro che richiede anni, non mesi. Una crisi di questa portata può forse essere risolta in un anno, ma gli effetti sociali si protrarranno a lungo. E l’errore più grave sarebbe fingere che queste conseguenze di medio termine non esistano. Vedo il rischio concreto che si inneschi un processo di instabilità di lungo periodo».
Di recente lei ha dichiarato che «dopo anni di individualismo, forse è arrivato il momento di capire che c’ è un filo che ci lega gli uni agli altri. Come in montagna: essere in cordata aiuta, non è un limite alla libertà ». È ottimista sul futuro o pessimista, da questo punto di vista?
«Non si tratta di atteggiamenti... Mi limito a constatare che la crisi ha attestato che le risorse morali nella nostra società ci sono ancora (in Europa come negli Usa). Naturalmente, queste hanno bisogno di essere attivate e guidate; occorrono visioni culturali e politiche che le supportino. Certo è che nei momenti di decadimento morale le lezioni si imparano attraverso le sofferenze: lo dice la storia. Speriamo che prevalga la saggezza, così da evitare che si paghino alti costi sociali».
In un intervento di poche settimane fa lei si è soffermato sull’urgenza di coniugare in modo nuovo libertà e responsabilità come via per uscire dalla crisi. Perché?
«Al fondo di tutto, io credo, c’è precisamente il rapporto fra libertà e responsabilità. Di qui il titolo del mio prossimo libro, Libertà immaginaria. La vera partita, in futuro, si giocherà nel modo in cui pensiamo la libertà, in un mondo che ha prodotto lo sviluppo economico-sociale che abbiamo conosciuto, ma che ora domanda un surplus di responsabilità. Oggi ci troviamo – per così dire – nell’età dell’adolescenza dal punto di vista della libertà. Dopo aver pensato che libertà significhi fare quello che si vuole, sciogliendo tutti i legami, ora è tempo di farla maturare nella direzione della responsabilità, perché senza quest’ultima non esiste nemmeno la libertà. Credo si apra qui un grande spazio per un neo-personalismo, oltre le derive tecnico-nichiliste».
«Avvenire» del 28 maggio 2009
Nessun commento:
Posta un commento