Il mito omerico nella versione dello scrittore ebreo tedesco Lion Feuchtwanger, che sottolinea il rapporto tra arte e potere
di Claudio Magris
Il destino dell’eroe moderno incapace di ritrovare se stesso
Lion Feuchtwanger non è propriamente un classico, uno di quegli autori le cui pagine colgono una volta per sempre qualche volto essenziale della vita, individuale e collettiva, e rimangono esemplari nel fluire del tempo. È un vigoroso - talora anche troppo - romanziere, coinvolto, in particolare quale ebreo tedesco, nelle tragedie del Novecento e nelle passioni ideologiche che le hanno accompagnate e alle quali ha saputo dare voce e risonanza. Nato a Monaco nel 1884, dopo aver lasciato la Germania nazista ha pubblicato a Mosca insieme ad altri autori esuli la rivista «Das Wort»; amato nella Ddr, è morto a Los Angeles nel 1958. Scrittore di piglio e di effetto, ha fra l’altro narrato, con sanguigno realismo, il torvo antisemitismo (Süss l’ebreo, 1925) e l’eroica e sanguinosa resistenza ebraica ai Romani (La guerra ebraica, 1932). Ma il suo libro forse più bello è fra i meno noti e meriterebbe di essere proposto ai lettori italiani; è una ripresa del tema di Ulisse, che dopo Omero attraversa la letteratura dei più diversi secoli e Paesi, ponendosi soprattutto la domanda, squisitamente moderna, se Ulisse possa tornare a Itaca, ossia se il viaggio della vita possa ricondurre a casa l’individuo, confermato nella sua identità e nei suoi valori - oppure se egli sia destinato a non ritornare, a ripartire, a perdere se stesso e il senso della vita in un viaggio che può essere solo naufragio. Tranne il capolavoro del classico e conservatore Joyce, che fa ritornare il suo Ulisse alla casa, agli affetti e ai valori di sempre, l’odissea dei moderni è in genere un’odissea senza ritorno, una dissoluzione dell’eroe navigatore ossia dell’Io. Nel suo romanzo Odysseus und die Schweine (Ulisse e i maiali, 1950), Feuchtwanger si sofferma originalmente su due momenti essenziali dell’Odissea. Anche Ulisse sale sul letto di Circe, come poco prima i suoi compagni trasformati subito in porci, ma, lungi dal farsi sopraffare dal pure intenso desiderio animale, è lui a domare la maga e a costringerla a tramutare di nuovo in uomini i suoi marinai imbestiati. Fin qui, Omero. Ma nel romanzo di Feuchtwanger uno di questi marinai non vuole tornare al dolore dell’esistenza umana. Vorrebbe restare animale, in grembo a una natura che non conosce ancora la dignità e il tormento della coscienza, in un beato abbandono. È Ulisse che lo costringe a tornare uomo contro la sua volontà; che lo obbliga, con la prepotenza di chi comanda e si arroga di stabilire il bene e il destino degli altri, a riassumere la dignità e il peso dell’umanità; poco dopo, per sua fortuna - e forse non involontariamente - il marinaio morirà. Per Feuchtwanger - come mezzo secolo prima, con altissimi risultati poetici, per il Pascoli dell’Ultimo viaggio - l’odissea umana è nostalgia della regressione, vana fuga dal disagio della civiltà. Ulisse stesso paga le sue vittorie con l’autocontrollo: «Tu devi essere Ulisse, colui che non si lascia affascinare», gli dice Circe, quando si accorge che non le riesce di risucchiarlo nel gorgo del sesso. È una vittoria che si accompagna ad una perdita, perché non lasciarsi affascinare è una difesa che preclude tanti abbandoni e tante felicità. Ma Feuchtwanger è ancor più grande - e sorprendentemente attuale - nel finale. Ulisse, tornato a Itaca, restaura il suo potere, sterminando i Proci e i loro complici - i collaborazionisti, si direbbe oggi - comprese le dodici ancelle che vengono impiccate. Risparmia però Femio, il cantore, pur più gravemente compromesso - visto il suo ruolo - con gli usurpatori; lo risparmia forse perché ogni potere ha bisogno dell’intellettuale ovvero dell’arte ovvero dell’autorità mediatica che lo glorifichi e lo consacri. Femio dunque compone il canto che celebra il ritorno vittorioso di Ulisse e la strage dei suoi nemici. Una vittoria ha bisogno di vittime: quelle realmente cadute per mano di Ulisse sono 39 - troppo poche, per il canto ufficiale, perché la gloria ha bisogno di un numero imponente di morti. Femio corregge il canto e parla di 200 vittime - troppe, rischierebbero di rendere poco credibile l’intera vicenda. Femio sceglie dunque un numero intermedio, 118 - abbastanza grande, secondo le dimensioni di allora, per dar lustro al trionfo, ma non troppo esagerato, per non apparire gonfiato. Sembra di leggere la conta delle vittime della storia recente, continuamente contestata e corretta. Per il giornalista moderno si tratta di una riga in più o in meno spostata su una pagina del quotidiano, per l’aedo di famiglia di Ulisse si tratta di qualche sillaba in più o in meno, a seconda dei numeri composti di poche o molte lettere, da adattare alla metrica e alla melodia del canto. Anche i poeti, come proclama un antico detto greco, dicono molte menzogne.
« Corriere della Sera» del 17 maggio
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