Nei nuovi «Fiori del male» tradotti da Caproni spicca l’elemento del viaggio archetipico, con i novelli Ulisse – il cigno in fuga, l’albatro deriso – a incarnare il destino dell’esule e del poeta in una civiltà ancora in via di definizione
Di Roberto Mussapi
Di Roberto Mussapi
Riprende il tema centrale da cui nasce la poesia d’Occidente: il viaggio. L’angoscia e lo stupore di Ulisse, il brivido d’avventura omerico, l’esperienza buia e poi ascensionale di Dante. Charles Baudelaire è il sommo poeta che introduce alla modernità partendo dall’archetipo stesso della poesia.
Lo comprende il gigante del Novecento, T.S. Eliot, che a lui si ispira nei suoi personaggi desolati, gli uomini vuoti che vagano senza meta in una grande città, in notti astellate, tra gusci di conchiglie sul marciapiede, accanto ai bidoni della spazzatura dei ristoranti, emblemi infinitamente più potenti, poiché inurbati, dei consequenziali, nobili ma minori, Ossi di seppia di Montale. Charles Baudelaire, che ogni sera, ogni notte, cammina per le strade della metropoli, la capitale del mondo di quell’età – la Parigi che nell’Ottocento assume il ruolo che fu di Londra dall’età elisabettiana al Settecento, e di Roma, prima, per qualche secolo – è colui che viaggia per viaggiare, il vero viaggiatore. Noi partiamo all’alba, scrive in una poesia leggendaria dei Fiori del male, il cuore gonfio di rancore e di amari desideri, salpiamo sulle acque degli oceani, lieti, gli uni, di fuggire una patria infame, gli altri, l’orrore della loro terra, ed altri, annegati dentro gli occhi d’una donna, gli incantesimi di una Circe tirannica. Ognuno parte per fuggire qualcosa, un’oppressione, per cercare una nuova terra. «Ma può dirsi un viaggiatore/ solo chi parte per partire: lieve // ha il cuore e la somiglianza del pallone, / non si allontana mai dal suo destino, / senza saper perché dice: partiamo!». Il viaggiatore è colui che mosso da spleen, dall’angoscia del nulla e dal desiderio di scoperta, parte per partire. Non è l’ozioso vagabondo celebrato dal romanticismo minore e giustamente messo alla berlina dal grande Dickens nei viaggi insulsi di Picwick e amici, ma l’uomo che, similmente a Ulisse, teme davvero, per un attimo, di essere Nessuno, e quindi va a cercarsi altrove.
Prendiamo la poesia Il cigno. Parigi non è più la stessa, agli occhi dell’infaticabile viandante metropolitano che ogni pomeriggio, ogni sera, ogni notte la percorre seguendone le apparizioni, scrutandone le ombre: là sorgeva, un tempo, un serraglio: da cui, un mattino, era fuggito un cigno, uscendo dalla gabbia. Il poeta lo rivede di colpo, come allora: raspa l’arido selciato con i piedi palmati, trascinando le bianche piume sul suolo sporco e scabro, spalanca il becco per abbeverarsi a un arido rigagnolo, mentre il bianco piumaggio si inzacchera di fango che sta asciugando e polvere, e nel cuore ha infisso il lago in cui nacque e visse infanzia e giovinezza. E il viandante della grande città e delle ombre comprende la lingua del cigno, che grida: «Quando cadrai, pioggia? Quando tuonerai, folgore?». Ancora pensa al suo gran cigno con i suoi gesti folli in quella strada, sublime e ridicolo come ogni esule, le zampe goffe dell’uccello nato per scivolare sull’acqua e salire volando le scale del cielo, che di colpo svela il destino universale della grande nostra anima imprigionata. Consapevole che l’eroico viaggiatore è ormai un esule, come il cigno fuggito dal serraglio o l’albatro di un’altra poesia, che, non in volo, ma sulla tolda della nave, è goffo, con le ali cadute, preda degli scherzi della ciurma volgare: il destino dell’esule e del poeta nella civiltà che si sta definendo. Molto importante che il capolavoro di Baudelaire, I fiori del male, venga ora proposto da Marsilio, nella traduzione di Giorgio Caproni, uno dei massimi poeti italiani del Novecento, e con l’eccellente curatela di Luca Pietromarchi. Personalmente credo che l’esito, a causa della scelta prevalente della traduzione in prosa e anche di una compensazione lessicalmente elevata rispetto alla grandezza naturale della lingua di Baudelaire, non sia del tutto convincente. Ma ciò non significa che la traduzione non sia ricca di spunti e di accessi al nucleo poetico del genio di Baudelaire. La lingua di Caproni è comunque originale, quanto fluente, morbida elegante quella di un altro importante poeta traduttore del francese, Giovanni Raboni. L’edizione di Marsilio è comunque imperdibile, per l’itinerario di Caproni a Baudelaire, originalissimo. E per le mirabili considerazioni dell’ottimo curatore Luca Pietromarchi.
Lo comprende il gigante del Novecento, T.S. Eliot, che a lui si ispira nei suoi personaggi desolati, gli uomini vuoti che vagano senza meta in una grande città, in notti astellate, tra gusci di conchiglie sul marciapiede, accanto ai bidoni della spazzatura dei ristoranti, emblemi infinitamente più potenti, poiché inurbati, dei consequenziali, nobili ma minori, Ossi di seppia di Montale. Charles Baudelaire, che ogni sera, ogni notte, cammina per le strade della metropoli, la capitale del mondo di quell’età – la Parigi che nell’Ottocento assume il ruolo che fu di Londra dall’età elisabettiana al Settecento, e di Roma, prima, per qualche secolo – è colui che viaggia per viaggiare, il vero viaggiatore. Noi partiamo all’alba, scrive in una poesia leggendaria dei Fiori del male, il cuore gonfio di rancore e di amari desideri, salpiamo sulle acque degli oceani, lieti, gli uni, di fuggire una patria infame, gli altri, l’orrore della loro terra, ed altri, annegati dentro gli occhi d’una donna, gli incantesimi di una Circe tirannica. Ognuno parte per fuggire qualcosa, un’oppressione, per cercare una nuova terra. «Ma può dirsi un viaggiatore/ solo chi parte per partire: lieve // ha il cuore e la somiglianza del pallone, / non si allontana mai dal suo destino, / senza saper perché dice: partiamo!». Il viaggiatore è colui che mosso da spleen, dall’angoscia del nulla e dal desiderio di scoperta, parte per partire. Non è l’ozioso vagabondo celebrato dal romanticismo minore e giustamente messo alla berlina dal grande Dickens nei viaggi insulsi di Picwick e amici, ma l’uomo che, similmente a Ulisse, teme davvero, per un attimo, di essere Nessuno, e quindi va a cercarsi altrove.
Prendiamo la poesia Il cigno. Parigi non è più la stessa, agli occhi dell’infaticabile viandante metropolitano che ogni pomeriggio, ogni sera, ogni notte la percorre seguendone le apparizioni, scrutandone le ombre: là sorgeva, un tempo, un serraglio: da cui, un mattino, era fuggito un cigno, uscendo dalla gabbia. Il poeta lo rivede di colpo, come allora: raspa l’arido selciato con i piedi palmati, trascinando le bianche piume sul suolo sporco e scabro, spalanca il becco per abbeverarsi a un arido rigagnolo, mentre il bianco piumaggio si inzacchera di fango che sta asciugando e polvere, e nel cuore ha infisso il lago in cui nacque e visse infanzia e giovinezza. E il viandante della grande città e delle ombre comprende la lingua del cigno, che grida: «Quando cadrai, pioggia? Quando tuonerai, folgore?». Ancora pensa al suo gran cigno con i suoi gesti folli in quella strada, sublime e ridicolo come ogni esule, le zampe goffe dell’uccello nato per scivolare sull’acqua e salire volando le scale del cielo, che di colpo svela il destino universale della grande nostra anima imprigionata. Consapevole che l’eroico viaggiatore è ormai un esule, come il cigno fuggito dal serraglio o l’albatro di un’altra poesia, che, non in volo, ma sulla tolda della nave, è goffo, con le ali cadute, preda degli scherzi della ciurma volgare: il destino dell’esule e del poeta nella civiltà che si sta definendo. Molto importante che il capolavoro di Baudelaire, I fiori del male, venga ora proposto da Marsilio, nella traduzione di Giorgio Caproni, uno dei massimi poeti italiani del Novecento, e con l’eccellente curatela di Luca Pietromarchi. Personalmente credo che l’esito, a causa della scelta prevalente della traduzione in prosa e anche di una compensazione lessicalmente elevata rispetto alla grandezza naturale della lingua di Baudelaire, non sia del tutto convincente. Ma ciò non significa che la traduzione non sia ricca di spunti e di accessi al nucleo poetico del genio di Baudelaire. La lingua di Caproni è comunque originale, quanto fluente, morbida elegante quella di un altro importante poeta traduttore del francese, Giovanni Raboni. L’edizione di Marsilio è comunque imperdibile, per l’itinerario di Caproni a Baudelaire, originalissimo. E per le mirabili considerazioni dell’ottimo curatore Luca Pietromarchi.
«Avvenire» del 28 febbraio 2009
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