Al convegno del IV centenario gli echi dei pregiudizi ideologici che ancora viziano un dialogo serio tra «cattolici» e «laici»
di Andrea Galli
Avrà mai fine il «caso Galileo»? O meglio, arriverà il momento in cui si potrà discutere delle peripezie dell’inquieto, geniale pisano in modo paritario tra laici e cattolici? Qualcuno lo aveva evidentemente auspicato e sperato. « Galileo 2009 » , il convegno che si tiene in questi giorni a Firenze, al Palazzo dei congressi, e che si chiuderà sabato con una tavola rotonda presso la villa «Il Gioiello» di Arcetri, dove Galileo visse dal 1631 fino alla morte nel 1642, era stato pensato proprio a questo scopo.
Promosso dalla gesuitica Fondazione Stensen, voleva mettere insieme per la prima volta, in un incontro di livello internazionale, 18 istituzioni coinvolte direttamente o no nell’affaire Galileo – dall’Università di Pisa all’Archivio storico della Compagnia di Gesù, dall’Accademia dei Lincei alla Specola Vaticana – e soprattutto studiosi di matrice sia laica, sia cattolica. «Il lavoro è stato faticoso, è durato quasi due anni – racconta il gesuita Ennio Brovedani –, ma pensavamo che fosse arrivato ormai il tempo di impostare un dialogo serio, un’iniziativa che fosse condivisa tra storici di diverso orientamento ». Che però il progetto non fosse semplice lo si è capito ancora meglio poche settimane fa, quando agli organizzatori è arrivata una email a nome di alcuni esponenti dell’ala laico-intransigente – tra cui Paolo Galluzzi, docente di Storia della Scienza all’Università di Arezzo – che minacciavano di ritirarsi dal convegno se non fosse stata cambiata una parte del comunicato stampa, per altro uscito a gennaio, che presentava l’evento di questi giorni. Motivo dell’indignazione era un titolo che qualificava il caso Galileo come una «secolare incomprensione», sottinteso fra Chiesa e mondo scientifico.
Non sia mai. Se di incomprensione si vuol parlare, secondo il club galileiano doc, questa ha da essere solo quella della Chiesa, onde evitare inaccettabili revisionismi.
Come commenta a margine dei lavori Federica Favino, ricercatrice presso il dipartimento di Storia moderna e contemporanea alla Sapienza di Roma, e autrice ieri di un interessante intervento sulla fortuna incontrata da Galileo nell’aristocrazia romana a lui contemporanea, sulla vera questione galileiana «anche da questi lavori non sembrano emergere novità sostanziali » . Se non discordanze su singoli punti.
Per esempio la versione del 1632 dell’ingiunzione fatta a Galileo nel 1616, quella in cui allo scienziato veniva proibita la difesa delle tesi copernicane, ritenuta più dura dell’originale e secondo alcuni falsa, scritta per aggravare la posizione dello stesso Galileo nel processo che poi lo vedrà condannato (contro la tesi della falsificazione è intervenuto l’accademico dei Lincei Annibale Fantoli, a favore Francesco Beretta, del Laboratorio di ricerche storiche di Lione).
Quella che invece si allarga è sicuramente la conoscenza del contesto storico e della ricezione dell’opera di Galileo nell’Europa moderna, dall’Inghilterra – che, come ha mostrato Franco Giudice, dell’Università di Bergamo, si infatuò irresistibilmente del «martire» dell’Inquisizione – alla Francia dei «filosofi e libertini» (che, ha ricorda- to Isabelle Pantin, docente di letteratura all’Ecole Normale Supérieure, fu il primo Paese europeo, fatta eccezione per l’Olanda, in cui fu dato alle stampe e circolò il testo della condanna di Galileo).
Anche se l’equilibro di alcune analisi storiche lascia più che dubbiosi. Per Vittorio Ferrone, ad esempio, l’idea espressa da Giovanni Paolo II nel discorso del 1992 di fronte alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, secondo cui il caso Galileo sarebbe stato un mito creato nell’età dei Lumi, è inaccettabile. Ovvero, secondo lo storico dell’Università di Torino, «oggi sappiamo che fu principalmente la cultura italiana del secolo XIX a costruire il mito del Galileo perseguitato e di una Chiesa geneticamente ostile alla scienza moderna: ed essa lo fece rispondendo, legittimamente io credo, alla Chiesa cattolica della Restaurazione, all’offensiva di quei settori più reazionari della gerarchia ecclesiastica decisi a imporre il principio dell’infallibilità pontificia e rilanciare la cultura repressiva e autoritaria del Tridentino ». Spendere parole di interesse e apprezzamento per la « cultura repressiva e autoritaria del Tridentino » è toccato a una ricercatrice israeliana, Rivka Feldhay, che ha messo in luce come il sistema educativo elaborato dai tanto vituperati figli di sant’Ignazio di Loyola fosse tutt’altro che oscurantista o «immobilista». Secondo la storica della scienza dell’Università di Tel Aviv, «la strategia educativa dei gesuiti di allora aveva creato una condizione da Alice nel paese delle meraviglie: un mondo in cui ognuno sembrava fermo nel rispetto scrupoloso della tradizione, anche della scienza aristotelica, ma in cui, in realtà, venivano trasmesse le nozioni più avanzate in campo filosofico, tecnico e scientifico».
Infine, a spostare decisamente l’attenzione dalle vicende inquisitoriali o dall’impatto culturale che queste ebbero in Occidente, su un piano meno battuto, cioè quello teologico, è stato Pietro Redondi dell’Università Bicocca di Milano. Redondi ha invitato, appunto, ad approfondire l’idea di Dio e di natura proprie del Galileo «teologo», poco definite e conosciute: « La rappresentazione della natura che Galileo dà nella famosa lettera a Cristina – ha detto lo studioso nel dibattito con il pubblico – è davvero inquietante: è una natura indifferente all’uomo, che non si occupa di essere conosciuta, ma segue esclusivamente i fini per i quali è stata programmata da Dio. Un Dio abbastanza ' parsimonioso', perché di lui Galileo ha bisogno per passare dal moto caotico dei corpi primordiali a un universo ordinato e gerarchico. Ma, dopo questo miracolo iniziale, ci si chiede a cosa serva Dio: forse soltanto, appunto, a fare dei miracoli».
Una « natura macchina » , in sostanza, e un Dio che – in controluce – sembra avviato all’evanescenza. «Non è Dio, in fondo, la misura di tutte le cose nell’universo di Galileo: è l’uomo».
Promosso dalla gesuitica Fondazione Stensen, voleva mettere insieme per la prima volta, in un incontro di livello internazionale, 18 istituzioni coinvolte direttamente o no nell’affaire Galileo – dall’Università di Pisa all’Archivio storico della Compagnia di Gesù, dall’Accademia dei Lincei alla Specola Vaticana – e soprattutto studiosi di matrice sia laica, sia cattolica. «Il lavoro è stato faticoso, è durato quasi due anni – racconta il gesuita Ennio Brovedani –, ma pensavamo che fosse arrivato ormai il tempo di impostare un dialogo serio, un’iniziativa che fosse condivisa tra storici di diverso orientamento ». Che però il progetto non fosse semplice lo si è capito ancora meglio poche settimane fa, quando agli organizzatori è arrivata una email a nome di alcuni esponenti dell’ala laico-intransigente – tra cui Paolo Galluzzi, docente di Storia della Scienza all’Università di Arezzo – che minacciavano di ritirarsi dal convegno se non fosse stata cambiata una parte del comunicato stampa, per altro uscito a gennaio, che presentava l’evento di questi giorni. Motivo dell’indignazione era un titolo che qualificava il caso Galileo come una «secolare incomprensione», sottinteso fra Chiesa e mondo scientifico.
Non sia mai. Se di incomprensione si vuol parlare, secondo il club galileiano doc, questa ha da essere solo quella della Chiesa, onde evitare inaccettabili revisionismi.
Come commenta a margine dei lavori Federica Favino, ricercatrice presso il dipartimento di Storia moderna e contemporanea alla Sapienza di Roma, e autrice ieri di un interessante intervento sulla fortuna incontrata da Galileo nell’aristocrazia romana a lui contemporanea, sulla vera questione galileiana «anche da questi lavori non sembrano emergere novità sostanziali » . Se non discordanze su singoli punti.
Per esempio la versione del 1632 dell’ingiunzione fatta a Galileo nel 1616, quella in cui allo scienziato veniva proibita la difesa delle tesi copernicane, ritenuta più dura dell’originale e secondo alcuni falsa, scritta per aggravare la posizione dello stesso Galileo nel processo che poi lo vedrà condannato (contro la tesi della falsificazione è intervenuto l’accademico dei Lincei Annibale Fantoli, a favore Francesco Beretta, del Laboratorio di ricerche storiche di Lione).
Quella che invece si allarga è sicuramente la conoscenza del contesto storico e della ricezione dell’opera di Galileo nell’Europa moderna, dall’Inghilterra – che, come ha mostrato Franco Giudice, dell’Università di Bergamo, si infatuò irresistibilmente del «martire» dell’Inquisizione – alla Francia dei «filosofi e libertini» (che, ha ricorda- to Isabelle Pantin, docente di letteratura all’Ecole Normale Supérieure, fu il primo Paese europeo, fatta eccezione per l’Olanda, in cui fu dato alle stampe e circolò il testo della condanna di Galileo).
Anche se l’equilibro di alcune analisi storiche lascia più che dubbiosi. Per Vittorio Ferrone, ad esempio, l’idea espressa da Giovanni Paolo II nel discorso del 1992 di fronte alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze, secondo cui il caso Galileo sarebbe stato un mito creato nell’età dei Lumi, è inaccettabile. Ovvero, secondo lo storico dell’Università di Torino, «oggi sappiamo che fu principalmente la cultura italiana del secolo XIX a costruire il mito del Galileo perseguitato e di una Chiesa geneticamente ostile alla scienza moderna: ed essa lo fece rispondendo, legittimamente io credo, alla Chiesa cattolica della Restaurazione, all’offensiva di quei settori più reazionari della gerarchia ecclesiastica decisi a imporre il principio dell’infallibilità pontificia e rilanciare la cultura repressiva e autoritaria del Tridentino ». Spendere parole di interesse e apprezzamento per la « cultura repressiva e autoritaria del Tridentino » è toccato a una ricercatrice israeliana, Rivka Feldhay, che ha messo in luce come il sistema educativo elaborato dai tanto vituperati figli di sant’Ignazio di Loyola fosse tutt’altro che oscurantista o «immobilista». Secondo la storica della scienza dell’Università di Tel Aviv, «la strategia educativa dei gesuiti di allora aveva creato una condizione da Alice nel paese delle meraviglie: un mondo in cui ognuno sembrava fermo nel rispetto scrupoloso della tradizione, anche della scienza aristotelica, ma in cui, in realtà, venivano trasmesse le nozioni più avanzate in campo filosofico, tecnico e scientifico».
Infine, a spostare decisamente l’attenzione dalle vicende inquisitoriali o dall’impatto culturale che queste ebbero in Occidente, su un piano meno battuto, cioè quello teologico, è stato Pietro Redondi dell’Università Bicocca di Milano. Redondi ha invitato, appunto, ad approfondire l’idea di Dio e di natura proprie del Galileo «teologo», poco definite e conosciute: « La rappresentazione della natura che Galileo dà nella famosa lettera a Cristina – ha detto lo studioso nel dibattito con il pubblico – è davvero inquietante: è una natura indifferente all’uomo, che non si occupa di essere conosciuta, ma segue esclusivamente i fini per i quali è stata programmata da Dio. Un Dio abbastanza ' parsimonioso', perché di lui Galileo ha bisogno per passare dal moto caotico dei corpi primordiali a un universo ordinato e gerarchico. Ma, dopo questo miracolo iniziale, ci si chiede a cosa serva Dio: forse soltanto, appunto, a fare dei miracoli».
Una « natura macchina » , in sostanza, e un Dio che – in controluce – sembra avviato all’evanescenza. «Non è Dio, in fondo, la misura di tutte le cose nell’universo di Galileo: è l’uomo».
«Avvenire» del 29 gennaio 2009
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