Luca Ricolfi demolisce vecchi pregiudizi e indica la retta via Ma la cultura progressista non è pronta al cambiamento...
di Dino Cofrancesco
Assieme ad Angelo Panebianco, a Piero Ostellino e a pochi altri, Luca Ricolfi sembra un sopravvissuto di una scuola di pensiero che, nel nostro paese, sembra in via di estinzione, anche se tutti, a destra e a sinistra, si richiamano ai classici del liberalismo. Certo spesso gli capita di ribadire il suo collocarsi a sinistra ma la lettura dei suoi articoli e saggi, e specialmente del suo ultimo, magistrale, libro La Repubblica delle tasse. Perché l’Italia non cresce più (Rizzoli) lascia l’impressione di un critico implacabile dell’antropologia culturale della sinistra italiana. Ricolfi ne ha anche (e come!) per il centrodestra, e soprattutto per la sua componente leghista, ma a dettare la sua ostilità al governo Berlusconi è una speranza delusa, non un pregiudizio «razziale».
«La colpa più grande di Berlusconi non è di aver reso l’Italia meno democratica, ma di non aver mantenuto nessuna delle sue migliori promesse: più liberalizzazioni, più meritocrazia, più crescita, meno tasse, meno sprechi, meno burocrazia». In questo suo motivato convincimento, Ricolfi si pone in netta antitesi con la cultura egemone nella sinistra intellettuale italiana - la cultura di Repubblica e di MicroMega etc. - la quale ritiene che in Italia la democrazia sia in pericolo, dacché un nuovo ducetto mediatico ha inferto un duro colpo alla libertà dell’informazione, all’autonomia della magistratura, all’assetto istituzionale.
Sennonché, se mette a fuoco, in maniera impietosa, gli abiti mentali e la falsa coscienza delle (varie) sinistre italiane, sembra poi stranamente non rendersi conto che con le sue idee, in politica e in economia, s’è rotto i ponti alle spalle, essendo andato ben oltre il revisionismo e lo stesso riformismo di un tempo.
Per Ricolfi, infatti, il benessere economico e il progresso civile di un popolo si giocano sul piano della crescita e dell’aumento della produttività in un’economia capitalistica di mercato, non su quello di un’equa distribuzione del prodotto sociale. «Il fattore decisivo non è la pressione fiscale complessiva, che può benissimo essere alta se esiste un generoso Stato sociale, bensì la pressione fiscale sui produttori, a partire dalla regina di tutte le tasse, ossia l’imposta societaria». In quest’ottica, vengono colpiti a morte non pochi pregiudizi interessati, sottesi a misure come l’abbattimento del debito pubblico, la lotta contro gli evasori, le riforme burocratiche, l’abolizione dei privilegi della «casta». Quelle misure corrispondono certo a esigenze e a valori profondamente sentiti dalla società civile ma non sono, di per sé, risolutive. «Pensare che il debito pubblico si possa abbattere senza crescita, semplicemente azzerando il deficit, è già alquanto azzardato, ma pensare che la crescita possa ripartire con questo livello di pressione fiscale sui produttori lo è forse ancora di più». In particolare, per quel che riguarda l’evasione fiscale, si rileva trattarsi di un «mostro» che «non ha un solo genitore, ma ne ha due. Ed è solo quanto la mancanza di cultura civica (la madre) si sposa a un fisco oppressivo (il padre) che il ragazzaccio diventa un mostro». A quanti, commentatori economici e professionisti della politica, non vogliono vedere che «i paesi che crescono di più non sono quelli con la pressione fiscale aggregata più bassa, ma quelli che hanno i migliori servizi e le imposte societarie più basse», piace trastullarsi con la retorica delle riforme ma queste, senza una crescita di almeno il 2%, daranno solo più potere ai politici incaricati di porre mano alle sempre nuove istituzioni dello «stato sociale».
Un discorso ineccepibile, che, però, dà l’impressione di sottovalutare i fondamentali della «democratie en Italie». Quest’ultima è rinata, dopo la parentesi fascista, da due political cultures, la cattolica e la marxista, che hanno fondato la Repubblica «sul lavoro» equiparando, sostanzialmente, diritti civili e politici, da un lato, e «diritti sociali», dall’altro. Nelle vecchie società liberali, come nei paesi poveri, «il benessere non è considerato un diritto» e il mercato del lavoro allineava i salari alla produttività: il «diritto al lavoro» (diritto sociale) non vanificava la libertà d’impresa (diritto civile). Da noi, «se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizione e parti sociali li avrebbero massacrati». Il dramma, caro Ricolfi, è proprio questo.
«La colpa più grande di Berlusconi non è di aver reso l’Italia meno democratica, ma di non aver mantenuto nessuna delle sue migliori promesse: più liberalizzazioni, più meritocrazia, più crescita, meno tasse, meno sprechi, meno burocrazia». In questo suo motivato convincimento, Ricolfi si pone in netta antitesi con la cultura egemone nella sinistra intellettuale italiana - la cultura di Repubblica e di MicroMega etc. - la quale ritiene che in Italia la democrazia sia in pericolo, dacché un nuovo ducetto mediatico ha inferto un duro colpo alla libertà dell’informazione, all’autonomia della magistratura, all’assetto istituzionale.
Sennonché, se mette a fuoco, in maniera impietosa, gli abiti mentali e la falsa coscienza delle (varie) sinistre italiane, sembra poi stranamente non rendersi conto che con le sue idee, in politica e in economia, s’è rotto i ponti alle spalle, essendo andato ben oltre il revisionismo e lo stesso riformismo di un tempo.
Per Ricolfi, infatti, il benessere economico e il progresso civile di un popolo si giocano sul piano della crescita e dell’aumento della produttività in un’economia capitalistica di mercato, non su quello di un’equa distribuzione del prodotto sociale. «Il fattore decisivo non è la pressione fiscale complessiva, che può benissimo essere alta se esiste un generoso Stato sociale, bensì la pressione fiscale sui produttori, a partire dalla regina di tutte le tasse, ossia l’imposta societaria». In quest’ottica, vengono colpiti a morte non pochi pregiudizi interessati, sottesi a misure come l’abbattimento del debito pubblico, la lotta contro gli evasori, le riforme burocratiche, l’abolizione dei privilegi della «casta». Quelle misure corrispondono certo a esigenze e a valori profondamente sentiti dalla società civile ma non sono, di per sé, risolutive. «Pensare che il debito pubblico si possa abbattere senza crescita, semplicemente azzerando il deficit, è già alquanto azzardato, ma pensare che la crescita possa ripartire con questo livello di pressione fiscale sui produttori lo è forse ancora di più». In particolare, per quel che riguarda l’evasione fiscale, si rileva trattarsi di un «mostro» che «non ha un solo genitore, ma ne ha due. Ed è solo quanto la mancanza di cultura civica (la madre) si sposa a un fisco oppressivo (il padre) che il ragazzaccio diventa un mostro». A quanti, commentatori economici e professionisti della politica, non vogliono vedere che «i paesi che crescono di più non sono quelli con la pressione fiscale aggregata più bassa, ma quelli che hanno i migliori servizi e le imposte societarie più basse», piace trastullarsi con la retorica delle riforme ma queste, senza una crescita di almeno il 2%, daranno solo più potere ai politici incaricati di porre mano alle sempre nuove istituzioni dello «stato sociale».
Un discorso ineccepibile, che, però, dà l’impressione di sottovalutare i fondamentali della «democratie en Italie». Quest’ultima è rinata, dopo la parentesi fascista, da due political cultures, la cattolica e la marxista, che hanno fondato la Repubblica «sul lavoro» equiparando, sostanzialmente, diritti civili e politici, da un lato, e «diritti sociali», dall’altro. Nelle vecchie società liberali, come nei paesi poveri, «il benessere non è considerato un diritto» e il mercato del lavoro allineava i salari alla produttività: il «diritto al lavoro» (diritto sociale) non vanificava la libertà d’impresa (diritto civile). Da noi, «se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizione e parti sociali li avrebbero massacrati». Il dramma, caro Ricolfi, è proprio questo.
«Il Giornale» del 14 novembre 2011
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