Il governo Monti ha già rinunciato a governare. La rinuncia è in una dichiarazione di sudditanza alla dottrina monetaria tedesca che è all’origine dell’attuale disastro finanziario...
di di Giuliano Ferrara
Il governo Monti ha già rinunciato a governare. La rinuncia è in una dichiarazione di sudditanza alla dottrina monetaria tedesca che è all’origine dell’attuale disastro finanziario capace di scuotere fatalmente il futuro della moneta comune e dell’Unione: non c’è ragione, ha detto il professore,di introdurre cambiamenti nel ruolo della Banca centrale europea. Fatto, anzi disfatto. Governare vuol dire prendere un problema e risolverlo, affrontare le questioni strategiche e non limitarsi al minimalismo. Il problema d’emergenza in nome del quale è stato tolto di mezzo Berlusconi, capo di un esecutivo eletto, e rimpiazzato con un ministero parlamentare vecchia scuola, per di più tecnico e connotato fin dall’origine da uno sfregio alla sovranità nazionale travestito da cortesia e incoraggiamento europei, il governo del Preside con il suo Consiglio di facoltà, si chiama «titoli pubblici di debito dello stato italiano espressi in euro». Gli eccessivi rendimenti richiesti dal mercato finanziario, la ormai famosa Lady Spread, sono un attentato progressivo al lavoro, alle imprese, alle famiglie, e minacciano una crisi di liquidità capace di inchiodare all’immobilismo il sistema del credito e portarci dritti in recessione, con una tendenza deflazionistica di lungo periodo che confermerebbe, invece di invertirla, la cronica incapacità di crescere a tassi di sviluppo accettabili dell’economia reale italiana.
Questa la vulgata universalmente accettata. Questo il «FATE PRESTO» gridato in prima pagina dal giornale della Confindustria, poveretta. A sconto dei catastrofismi demenziali e politicamente, anzi faziosamente, motivati, questa vulgata è anche la verità.
Non è una verità piccola. Richiede riflessione e coraggio rimettere in discussione l’ortodossia germanica della moneta comune, che non è comune perché alla sua prima vera prova diventa un fattore di affossamento di mezza Europa, Francia compresa, e di tutela della sola economia tedesca con la sua virtuosa possanza. Le cronache riferiscono che Berlino è divisa: gli industriali sono tentati di cambiare le cose, perché sanno che le conseguenze della crisi da debito si faranno sentire anche per le loro esportazioni, ma la Cancelleria e le euroburocrazie modellate sulla Bundesbank sono succubi della paura dell’inflazione, che negli anni Venti produsse la grande catastrofe tedesca. Non solo, lo stato tedesco esprime una concezione del mercato, la famosa «economia sociale di mercato» di cui Monti è testimone accademico per l’Italia, che è in flagrante contraddizione con la mondializzazione della rete finanziaria e con la scelta di dare una moneta cosiddetta comune a economie che non hanno molto in comune e che non dispongono di un potere politico federale in grado di armonizzarle nei loro pilastri: il welfare, le tasse, la previdenza e la libertà dei commerci e della produzione dai lacci corporativi.
Lo scontro, sottolineato in questi giorni in modo clamoroso dall’invito pressante degli anglosassoni a cambiamenti radicali nella gestione della crisi da debito dell’euro, è tra un modello capitalistico di crescita e un modello socialistoide di stagnazione, fondato su tasse e prelievi punitivi socialmente e concepiti nell’insana idea che il debito non è un problema, è una colpa. Ha scritto il Wall Street Journal, ed è solo l’ultimo caso tra mille, che «il fardello del debito italiano non ha le sue radici nei recenti eccessi del governo- specie se confrontati con altri paesi del mondo- bensì deriva in gran parte da politiche introdotte più di trent’anni fa, che posero le fondamenta per l’euro». Abbiamo al governo un campionario della classe dirigente che ha assecondato e messo in opera quelle politiche, che crede in quel modello, e che si appresta a fare del motto «tasse & equità» il nuovo mantra controriformista e illiberale della nazione.
E invece gli italiani per tre volte avevano votato la libertà economica, che non ha saputo realizzarsi per i bestiali difetti e le anomalie della classe dirigente berlusconiana. Con il paradosso che un governo inchiodato al dottrinarismo rigorista cieco di Tremonti ora è sostituito, e dicono senza ridere che sia per garantire la cura della crescita, da un governo che di quel dottrinarismo è il portavoce storico. Le voglio proprio vedere le riforme liberali di Monti. Voglio vedere come si trasformerà in sviluppo il ripristino di buoni rapporti protocollari con la Merkel a Berlino.
Voglio vedere se andremo oltre la ricapitalizzazione del debito pubblico, con una finta soluzione della crisi, fatta tutta a spese del ceto medio e della povera gente. Cominciamo male, e se la destra non riuscirà a definire una linea seria di uscita dalla crisi dopo la fase equivoca del governo di tregua e di sospensione della democrazia, finiremo peggio.
Questa la vulgata universalmente accettata. Questo il «FATE PRESTO» gridato in prima pagina dal giornale della Confindustria, poveretta. A sconto dei catastrofismi demenziali e politicamente, anzi faziosamente, motivati, questa vulgata è anche la verità.
Non è una verità piccola. Richiede riflessione e coraggio rimettere in discussione l’ortodossia germanica della moneta comune, che non è comune perché alla sua prima vera prova diventa un fattore di affossamento di mezza Europa, Francia compresa, e di tutela della sola economia tedesca con la sua virtuosa possanza. Le cronache riferiscono che Berlino è divisa: gli industriali sono tentati di cambiare le cose, perché sanno che le conseguenze della crisi da debito si faranno sentire anche per le loro esportazioni, ma la Cancelleria e le euroburocrazie modellate sulla Bundesbank sono succubi della paura dell’inflazione, che negli anni Venti produsse la grande catastrofe tedesca. Non solo, lo stato tedesco esprime una concezione del mercato, la famosa «economia sociale di mercato» di cui Monti è testimone accademico per l’Italia, che è in flagrante contraddizione con la mondializzazione della rete finanziaria e con la scelta di dare una moneta cosiddetta comune a economie che non hanno molto in comune e che non dispongono di un potere politico federale in grado di armonizzarle nei loro pilastri: il welfare, le tasse, la previdenza e la libertà dei commerci e della produzione dai lacci corporativi.
Lo scontro, sottolineato in questi giorni in modo clamoroso dall’invito pressante degli anglosassoni a cambiamenti radicali nella gestione della crisi da debito dell’euro, è tra un modello capitalistico di crescita e un modello socialistoide di stagnazione, fondato su tasse e prelievi punitivi socialmente e concepiti nell’insana idea che il debito non è un problema, è una colpa. Ha scritto il Wall Street Journal, ed è solo l’ultimo caso tra mille, che «il fardello del debito italiano non ha le sue radici nei recenti eccessi del governo- specie se confrontati con altri paesi del mondo- bensì deriva in gran parte da politiche introdotte più di trent’anni fa, che posero le fondamenta per l’euro». Abbiamo al governo un campionario della classe dirigente che ha assecondato e messo in opera quelle politiche, che crede in quel modello, e che si appresta a fare del motto «tasse & equità» il nuovo mantra controriformista e illiberale della nazione.
E invece gli italiani per tre volte avevano votato la libertà economica, che non ha saputo realizzarsi per i bestiali difetti e le anomalie della classe dirigente berlusconiana. Con il paradosso che un governo inchiodato al dottrinarismo rigorista cieco di Tremonti ora è sostituito, e dicono senza ridere che sia per garantire la cura della crescita, da un governo che di quel dottrinarismo è il portavoce storico. Le voglio proprio vedere le riforme liberali di Monti. Voglio vedere come si trasformerà in sviluppo il ripristino di buoni rapporti protocollari con la Merkel a Berlino.
Voglio vedere se andremo oltre la ricapitalizzazione del debito pubblico, con una finta soluzione della crisi, fatta tutta a spese del ceto medio e della povera gente. Cominciamo male, e se la destra non riuscirà a definire una linea seria di uscita dalla crisi dopo la fase equivoca del governo di tregua e di sospensione della democrazia, finiremo peggio.
«Il Giornale» del 20 novembre 2011
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