di Antonia Arslan
Un narratore sconosciuto che esplode alla prima prova, come Alessandro D’Avenia con Bianca come il latte, rossa come il sangue, e inoltre si fregia anche di un nome elegante e scorrevole, tanto calzante da sembrare uno pseudonimo, non può che aspettarsi sopracciglia alzate e molti «sì, però...» al secondo libro. La cosiddetta "società letteraria italiana" è smilza, gelosa e percorsa da brividi di robusta invidia. Si sgomita per una segnalazione, si ucciderebbe per ottenere quello che il bravo D’Avenia ha ottenuto in un soffio, con grazia spavalda e sofferta: lettori appassionati ed esigenti, un identificarsi amoroso e selvaggio di moltissimi giovani, che lo vedono come un maestro (e a ragione: la capacità di questo giovane scrittore di trasmettere ai suoi lettori versi e voci della grande poesia e della grande letteratura ha del prodigioso: si vede bene quanto li ama, i suoi classici, di quell’amore religioso e umile che li rende sempre nuovi). E invece la scommessa del secondo libro (Cose che nessuno sa, Mondadori, pagine 332, euro 19, in libreria dal 2 novembre) mi pare sostanzialmente riuscita. Anche perché si appoggia robustamente su alcuni "miti fondanti" di grande tenuta emotiva, capaci di generare immagini forti, che giacciono nel profondo di ciascuno di noi. Prima di tutto c’è Omero, e un’Odissea resa contemporanea, rivissuta e riamata, come è giusto che si amino i grandi libri. Margherita, la quattordicenne protagonista, ascolta dal suo professore, che per lei diventa veramente psicopompo, la storia di Telemaco, il figlio dell’eroe, che deve andare alla ricerca del padre Odisseo, lontano da lunghissimi anni. Quella storia diventa la sua; quelle parole immortali, Margherita sente che sono state create per lei. Allora se ne appropria, e le usa per comprendere il proprio smarrimento e il proprio dolore per la fuga del padre amatissimo: e del personaggio di Telemaco fa il suo modello e la sua guida. E così si abbandona a una fuga generosa e folle, verso Genova, verso il mare dove il padre ha un suo rifugio: da là non risponde e non dà cenni di vita, ma la figlia è sicura di trovarcelo. La accompagna il secondo protagonista, Giulio, un ragazzo abbandonato dalla nascita, chiuso in un’autosufficienza maligna che cela una disperazione profonda. Ma con Margherita si sono guardati, di uno sguardo che si è inciso nell’anima di entrambi con forza straziante, adulta. Un altro grande mito (che si intensifica e si giustifica nella seconda parte, man mano che la trama si fa più lineare e drammatica) è quello della perla, e si gioca fin dall’inizio sul nome: margarita in latino (ma anche in antico italiano) vuol dire appunto "perla". D’Avenia ha molto riflettuto sulla magica, lenta opera della conchiglia che secerne strati e strati di madreperla per avvolgere il predatore che si è annidato al suo interno, e sul modo in cui dalla bruttezza mortifera di un male esce alla fine la bellezza translucida e vivente di una perla perfetta, col suo luminescente chiarore. E attribuisce alla sua protagonista, inconsapevole di sé ma carica di destino, la capacità silenziosa ma smisurata di fare del suo dolore un centro di forza, ponendosi al centro delle vite e dei destini di tutti i personaggi che la circondano. Questa centralità si snoda pagina dopo pagina lungo tutto il libro, ma si rivela con la massima chiarezza verso la fine, quando la ragazzina è in coma dopo un brutto incidente, ma "sente" la forza dell’amore che salva, e riannoda i destini di tutti, come tenendosi in equilibrio su una corda da funambolo, tesa nel cielo del suo sogno, nel mondo silenzioso e vigile in cui si trova: «Sentiva l’urgenza di piangere, ma le lacrime non potevano uscire. Allora cominciarono a fluire dentro di lei, calcificandosi lentamente attorno al predatore». Se la piccola Margherita è la perla, allora è intorno a lei che tutte le vite degli altri si riordinano, almeno provvisoriamente: «La più fragile di tutti su quel filo stava portando ciascuno di loro lassù, a considerare quanto fossero fragili. L’unica forza per stare in equilibrio sul filo della vita è il peso dell’amore». Margherita è il funambolo che «trasforma la gravità in leggerezza, il peso in ali». Il terzo tema che percorre tutto il libro, sottotraccia ma fortissimo, è il mito dell’isola, incarnato nella nonna siciliana. Anche Teresa conserva un segreto, che sarà svelato solo nelle ultime pagine; ma la sua sola presenza è affascinante e riequilibra il libro sul versante della quotidianità, là dove la preparazione del cibo si confonde con la luce ferma e i mille proverbi, gli odori e i sapori della Sicilia. Le confidenze dei nipoti si intrecciano agli ingredienti delle torte; la preparazione della cassata è un pezzo di bravura di straordinaria efficacia. E non è un caso che il libro si concluda proprio nella casa sull’isola. La lingua di D’Avenia è soave e sfrangiata, ma sempre appoggiata su una cultura profonda e profondamente amata; ma alcune frasi, come il titolo, ricorrono più e più volte, come i ritornelli delle ballate e delle canzoni ottocentesche, a screziare la compattezza del testo con misteriosi echi musicali.
«Avvenire» del 1 novembre 2011
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