Il reportage (1)
di Paolo Lambruschi
«Di incontrare i predoni beduini non se ne parla proprio», dice il contatto, l’uomo che con loro ha lavorato per anni da El Arish. Qualche giorno fa c’è stato uno scontro a fuoco con la polizia, e troppi media si stanno interessando alla vicenda degli ostaggi nel Sinai. Sono loro, però, la chiave per capire i misteri del Sinai, quanti sono attualmente i rapiti e dove è finita parte degli eritrei, quella che non riposa fuori dal cimitero di El Arish.
Secondo un agghiacciante lancio dell’agenzia di stampa palestinese Ma’an, l’azione dei trafficanti di organi sul confine tra Egitto e Israele è stata denunciata già a settembre da un profugo eritreo sfuggito ai suoi sequestratori beduini. L’uomo aveva denunciato l’uccisione dei suoi compagni dopo che era stato preso loro il denaro e asportati gli organi. I corpi erano stati gettati nei bagagliai delle auto dei predoni.
Che in Egitto fiorisca un mercato clandestino di organi è noto. Lo scorso giugno è stata approvata una legge che lo contrasta, ma nel 2010 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha definito il Paese un hub – uno snodo – per il traffico verso il mondo arabo, classificandolo nei primi cinque Stati attivi in questo immondo mercato. Giudizio aggravato per il 2011 dal Dipartimento di Stato americano, che lo ha portato al terzo posto. Nel deserto il business milionario dei sequestri si sarebbe così saldato con quello altrettanto florido degli organi umani a spese degli africani. Il rischio è infatti pari a zero, le ambasciate dei Paesi di appartenenza non reclamano per la sparizione di disperati privi di documenti, e la polizia egiziana non interviene. I predoni, dal canto loro, si sono ben guardati dal rapire occidentali.
Parte degli introiti del mercato nero dal Sinai prende probabilmente la strada del Cairo, altri finanzierebbero il terrorismo islamico. Ma qui la pista diventa troppo intricata, difficile separare le responsabilità criminali in un Paese dove è alto il tasso di corruzione anche nelle forze dell’ordine, indebolite dalla rivoluzione, che nel deserto non intervengono troppo.
I dati confermano comunque che i due luridi mercati, uomini e organi, si alimentano. I sequestri, infatti, continuano. Sono almeno 500 le persone in ostaggio da settembre dei rapitori che hanno creato un triangolo della morte nel deserto della Bibbia. Dopo un anno di indagini da parte delle organizzazioni umanitarie, che hanno pazientemente raccolto le testimonianze delle vittime, sono noti persino i nomi dei mercanti di uomini e dei loro complici eritrei che attirano i profughi in trappola e riscuotono i ricatti via money transfer.
E sono stati trasmessi sia alla polizia israeliana sia a quella egiziana, ma senza esito.
«Dopo 12 mesi – spiega don Mosè Zerai, il sacerdote cattolico eritreo che vive a Roma – il flusso di migranti che vanno volontariamente sulla rotta del Sinai è diminuito. Però i riscatti sono aumentati, da qualche mese vengono chiesti 26 mila dollari per ostaggio».
Da Stoccolma la giornalista eritrea Meron Estefanos lancia da luglio un nuovo allarme: «I Rashaida rapiscono gli eritrei fuori dai campi profughi di Shegarab, in Sudan. Poi li vendono ai beduini in Egitto. Li scelgono tra i più giovani, temiamo che chi non possa pagare sia rivenduto ai trafficanti d’organi».
Dall’altra parte del confine Sigal Rozen, avvocato e attivista israeliana per i diritti umani dell’associazione Hotline for Migrant Workers di Tel Aviv, ha raccolto migliaia di testimonianze di eritrei in due anni. Ecco cosa ha concluso: «Non è vero che nel traffico d’organi finisca solo chi non paga il riscatto. Ci sono ragazze giovani e carine segregate per mesi anche dopo i pagamenti solo per continuare a stuprarle. E molti giovani uomini le cui famiglie hanno pagato spariscono senza aver mai contattato i loro cari. Probabile che dopo aver incassato il denaro i beduini li abbiano comunque scelti per l’asportazione di fegato, reni e cornee moltiplicando così i guadagni, e poi li abbiano uccisi».
Le gang più note fanno capo ai palestinesi Abu Khaled e Abu Ahmed, ma secondo le testimonianze dei superstiti, il più crudele e sadico è Abu Abdallah, arrestato in maggio dalla polizia egiziana e subito liberato: un beduino 40enne padre di otto figli, originario di Mekleh vicino a Nahkhab che agisce con il fratello, noto come Abu Musa. Di costoro sono conosciuti persino i cellulari, eppure sono liberi di girare sulla rotta del traffico che va da Aswan a Rafah.
I predoni beduini hanno chiuso i canale, mi dice il contatto di El Arish. Alla Cnn un leader della tribù beduina Sawarka, una delle più grandi nel Sinai, ha ammesso il traffico di persone e le violenze, e ha puntato l’indice su «alcune canaglie» del clan.
Un altro capo della tribù Tarabin ha riconosciuto il traffico con i Sawarka, spiegando che «su 150mila beduini riguarderebbe 50 persone». Anche lo sceicco del clan Tihi ha parlato in un filmato trasmesso a fine ottobre dall’emittente privata egiziana Channel 25 e girato a Nekhel, nel cuore del Sinai. Anche questo video è rintracciabile su YouTube. Mostra le fosse comuni con i cadaveri calcinati di africani privi di organi, dissanguati e poi strangolati. Il video mostra i resti di un accampamento, e poi farmaci, lacci emostatici. E documenti bruciacchiati di eritrei. Il capo beduino fa il nome del trafficante d’organi: è Solomon Abdallah, alias Abu Abdallah.
Probabilmente per smarcarsi i predoni beduini hanno rilasciato mercoledì 600 persone alla frontiera con Israele, secondo l’Acnur. Un fatto senza precedenti: i rilasci sono sempre avvenuti a piccoli gruppi. Non si sa quanti siano attualmente i prigionieri, ed è presto per dire se il clamore mediatico abbia interrotto lo spregevole mercato.
Il filmato di Channel 25 riporta – scritti nella lingua ge’ez usata dalla Chiesa cattolica eritrea – i nomi di alcuni prigionieri scritti sulle rocce, poco lontano dal luogo dove, di lì a poco, avrebbero trovato la morte più orribile. I nomi di questi cristiani uccisi come bestie sono Kibrom, Wedi Teyki, Almaz, Nazu, Yerus Wehatila, Feven, Ephrem, Eyob, Tsgum Dbarwa, Yonas. All’Occidente e alla sua coscienza addormentata nulla importa di loro, ma la diaspora eritrea li ricorda oggi con una fiaccolata in molte città.
Abbiamo visto dove sono finiti gli eritrei morti nel Sinai, partiamo ora a cercare i sopravvissuti nelle galere egiziane, da El Arish fino ad Aswan.
Secondo un agghiacciante lancio dell’agenzia di stampa palestinese Ma’an, l’azione dei trafficanti di organi sul confine tra Egitto e Israele è stata denunciata già a settembre da un profugo eritreo sfuggito ai suoi sequestratori beduini. L’uomo aveva denunciato l’uccisione dei suoi compagni dopo che era stato preso loro il denaro e asportati gli organi. I corpi erano stati gettati nei bagagliai delle auto dei predoni.
Che in Egitto fiorisca un mercato clandestino di organi è noto. Lo scorso giugno è stata approvata una legge che lo contrasta, ma nel 2010 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha definito il Paese un hub – uno snodo – per il traffico verso il mondo arabo, classificandolo nei primi cinque Stati attivi in questo immondo mercato. Giudizio aggravato per il 2011 dal Dipartimento di Stato americano, che lo ha portato al terzo posto. Nel deserto il business milionario dei sequestri si sarebbe così saldato con quello altrettanto florido degli organi umani a spese degli africani. Il rischio è infatti pari a zero, le ambasciate dei Paesi di appartenenza non reclamano per la sparizione di disperati privi di documenti, e la polizia egiziana non interviene. I predoni, dal canto loro, si sono ben guardati dal rapire occidentali.
Parte degli introiti del mercato nero dal Sinai prende probabilmente la strada del Cairo, altri finanzierebbero il terrorismo islamico. Ma qui la pista diventa troppo intricata, difficile separare le responsabilità criminali in un Paese dove è alto il tasso di corruzione anche nelle forze dell’ordine, indebolite dalla rivoluzione, che nel deserto non intervengono troppo.
I dati confermano comunque che i due luridi mercati, uomini e organi, si alimentano. I sequestri, infatti, continuano. Sono almeno 500 le persone in ostaggio da settembre dei rapitori che hanno creato un triangolo della morte nel deserto della Bibbia. Dopo un anno di indagini da parte delle organizzazioni umanitarie, che hanno pazientemente raccolto le testimonianze delle vittime, sono noti persino i nomi dei mercanti di uomini e dei loro complici eritrei che attirano i profughi in trappola e riscuotono i ricatti via money transfer.
E sono stati trasmessi sia alla polizia israeliana sia a quella egiziana, ma senza esito.
«Dopo 12 mesi – spiega don Mosè Zerai, il sacerdote cattolico eritreo che vive a Roma – il flusso di migranti che vanno volontariamente sulla rotta del Sinai è diminuito. Però i riscatti sono aumentati, da qualche mese vengono chiesti 26 mila dollari per ostaggio».
Da Stoccolma la giornalista eritrea Meron Estefanos lancia da luglio un nuovo allarme: «I Rashaida rapiscono gli eritrei fuori dai campi profughi di Shegarab, in Sudan. Poi li vendono ai beduini in Egitto. Li scelgono tra i più giovani, temiamo che chi non possa pagare sia rivenduto ai trafficanti d’organi».
Dall’altra parte del confine Sigal Rozen, avvocato e attivista israeliana per i diritti umani dell’associazione Hotline for Migrant Workers di Tel Aviv, ha raccolto migliaia di testimonianze di eritrei in due anni. Ecco cosa ha concluso: «Non è vero che nel traffico d’organi finisca solo chi non paga il riscatto. Ci sono ragazze giovani e carine segregate per mesi anche dopo i pagamenti solo per continuare a stuprarle. E molti giovani uomini le cui famiglie hanno pagato spariscono senza aver mai contattato i loro cari. Probabile che dopo aver incassato il denaro i beduini li abbiano comunque scelti per l’asportazione di fegato, reni e cornee moltiplicando così i guadagni, e poi li abbiano uccisi».
Le gang più note fanno capo ai palestinesi Abu Khaled e Abu Ahmed, ma secondo le testimonianze dei superstiti, il più crudele e sadico è Abu Abdallah, arrestato in maggio dalla polizia egiziana e subito liberato: un beduino 40enne padre di otto figli, originario di Mekleh vicino a Nahkhab che agisce con il fratello, noto come Abu Musa. Di costoro sono conosciuti persino i cellulari, eppure sono liberi di girare sulla rotta del traffico che va da Aswan a Rafah.
I predoni beduini hanno chiuso i canale, mi dice il contatto di El Arish. Alla Cnn un leader della tribù beduina Sawarka, una delle più grandi nel Sinai, ha ammesso il traffico di persone e le violenze, e ha puntato l’indice su «alcune canaglie» del clan.
Un altro capo della tribù Tarabin ha riconosciuto il traffico con i Sawarka, spiegando che «su 150mila beduini riguarderebbe 50 persone». Anche lo sceicco del clan Tihi ha parlato in un filmato trasmesso a fine ottobre dall’emittente privata egiziana Channel 25 e girato a Nekhel, nel cuore del Sinai. Anche questo video è rintracciabile su YouTube. Mostra le fosse comuni con i cadaveri calcinati di africani privi di organi, dissanguati e poi strangolati. Il video mostra i resti di un accampamento, e poi farmaci, lacci emostatici. E documenti bruciacchiati di eritrei. Il capo beduino fa il nome del trafficante d’organi: è Solomon Abdallah, alias Abu Abdallah.
Probabilmente per smarcarsi i predoni beduini hanno rilasciato mercoledì 600 persone alla frontiera con Israele, secondo l’Acnur. Un fatto senza precedenti: i rilasci sono sempre avvenuti a piccoli gruppi. Non si sa quanti siano attualmente i prigionieri, ed è presto per dire se il clamore mediatico abbia interrotto lo spregevole mercato.
Il filmato di Channel 25 riporta – scritti nella lingua ge’ez usata dalla Chiesa cattolica eritrea – i nomi di alcuni prigionieri scritti sulle rocce, poco lontano dal luogo dove, di lì a poco, avrebbero trovato la morte più orribile. I nomi di questi cristiani uccisi come bestie sono Kibrom, Wedi Teyki, Almaz, Nazu, Yerus Wehatila, Feven, Ephrem, Eyob, Tsgum Dbarwa, Yonas. All’Occidente e alla sua coscienza addormentata nulla importa di loro, ma la diaspora eritrea li ricorda oggi con una fiaccolata in molte città.
Abbiamo visto dove sono finiti gli eritrei morti nel Sinai, partiamo ora a cercare i sopravvissuti nelle galere egiziane, da El Arish fino ad Aswan.
«Avvenire» dell'11 novembre 2011
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