di Lauretta Maganzani
«Proprio in quel tempo il Tevere o per la pioggia abbondante caduta un po’ a nord di Roma o per il forte vento che spirando dal mare spingeva indietro la sua corrente o, più probabilmente, per la volontà di qualche dio, come si sospettava, all’improvviso straripò con tale violenza da inondare tutti i luoghi bassi della città e raggiungere molte delle località più alte. I muri delle case, che erano fatti di mattoni, si inzupparono d’acqua e precipitarono, e tutte le bestie morirono annegate. Tutti gli uomini che non fecero in tempo a rifugiarsi su luoghi elevati, morirono».
«Una paura particolare sia per il disastro attuale che per il futuro (venne) da un’improvvisa inondazione del Tevere, che con uno smisurato ingrossamento, abbattuto il ponte Sublicio e riversatosi per la rovina della diga contrapposta, allagò non solo le parti basse e piane della città, ma anche quelle sicure contro sciagure di tal genere; molti furono trascinati fuori dalla pubblica via, parecchi furono sorpresi nelle osterie e nelle camere da letto. Fra il popolo dilagò la fame, la povertà e la carestia. Le fondamenta dei caseggiati furono danneggiate dalle acque stagnanti». Se non fosse per il richiamo alla volontà divina come una delle possibili cause della furia delle acque, che poco si avvicina alla mentalità moderna, questi resoconti si adatterebbero bene alle alluvioni che in questi giorni travolgono le nostre città e ci lasciano attoniti e inorriditi davanti ai teleschermi. Si tratta infatti di resoconti storici di fatti analoghi avvenuti a Roma antica nel 54 a.C. e nel 69 d.C. e ne sono autori rispettivamente gli storici romani Cassio Dione e Tacito. Del resto, nella sola capitale, dal 414 a.C. al 398 d.C. le inondazioni del Tevere furono poco più di una trentina e ciascuna lasciò nella popolazione un’indelebile impressione di impotenza a fronte della violenza incontrollabile della corrente: una drammaticità che fa eco nelle riflessioni dei giuristi romani, dove le inondazioni vengono descritte come casi di «forza maggiore cui è impossibile resistere» e come fenomeni ammantati di un vigore divino, visto che nessuno sforzo dell’uomo è in grado di contrastarli.
Ma, nonostante questa consapevolezza, i Romani non mancavano di intervenire sulla prevenzione, non solo con interventi di pianificazione territoriale su larga scala, ma anche stimolando nei privati una vera e propria «presa di coscienza collettiva» così da mettere ogni cittadino in condizione di cooperare per quanto possibile all’interesse generale. Ciò avveniva non di rado per intervento del pretore, il magistrato giurisdizionale dotato di imperium che, col suo editto, poteva intervenire coattivamente nella vita dei singoli e imporre loro l’osservanza di alcune regole di rispetto.
Qualche esempio: i Romani sapevano che, per contrastare le inondazioni, occorre in primo luogo rimuovere i materiali solidi e la vegetazione dal letto del fiume per il ripristino del suo regolare deflusso. Sapevano, infatti, che l’accumulo di detriti e la formazione di vegetazione in alveo o di alberi pericolanti sulle rive riducono la capacità di smaltimento nella rete delle portate in transito e quindi inducono le tracimazioni. Per questo, come ci racconta Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C., un pretore di età repubblicana diede ai privati la possibilità di agire in giudizio nell’interesse generale contro quell’appaltatore che, nonostante l’impegno assunto verso la collettività, non avesse eseguito il lavoro a regola d’arte. I Romani erano anche consapevoli che l’erosione delle sponde poteva, col trasporto dei detriti, alterare l’equilibrio energetico del fiume e, alla prima pioggia, causare inondazioni a valle: per questo favorivano la cosiddetta munitio riparum, cioè il rinforzo delle sponde, ben consci che quest’opera rispondeva anche all’interesse generale benché normalmente fosse effettuata dai proprietari rivieraschi privatamente e per propri interessi personali.
Questa munitio riparum si effettuava, per esempio, mettendo a dimora in riva colture arboree ed arbustive contro l’attività erosiva del fiume, oppure effettuando la manutenzione di argini naturali o realizzandone di artificiali anche con materiali rudimentali reperiti in loco (legno, pietra). Tali interventi sono spesso documentati dalla ricerca archeologica. Ebbene, lo scopo di tutelare la munitio riparum era realizzato dall’editto del pretore attraverso un’apposita prescrizione (il cosiddetto interdictum de ripa munienda) che colpiva chiunque in qualunque modo impedisse ad altri privati di effettuare lavori di rafforzamento delle rive: anche qui si vede come, nell’ambito del tribunale del pretore, venissero imposte ai privati regole giuridiche tese a supportare gli interventi di carattere tecnico contro le inondazioni.
Passando, infine, all’ambito rurale, possiamo ricordare gli eccezionali sforzi dei geometri romani per il drenaggio delle acque superficiali e l’irreggimentazione dei fiumi, finalizzati a potenziare al massimo le capacità produttive del territorio ma anche a limitare gli effetti disastrosi delle piene. Questo avveniva talvolta con la deviazione dei fiumi in canali secondari, a loro volta distribuiti in una rete capillare di canalette destinate all’irrigazione dei singoli poderi: ma anche qui la collaborazione dei privati era essenziale perché, senza un’adeguata pulizia dei canali, si sarebbe aggravato il rischio delle piene. È noto, inoltre, che i Romani solevano lasciare al fiume, soprattutto nei meandri, bacini laterali di espansione privi di edifici, proprio al fine di proteggere dalle piene gli abitati rurali delle vicinanze, spesso situati sulle alture.
Certo, come ricorda Plinio il Vecchio alludendo alle piene del Po, difficilmente tali opere si rivelavano risolutive a fronte dell’impeto inarrestabile dei grandi fiumi, ma ad ogni catastrofe seguiva la ripresa del controllo antropico sul territorio perché – come dice Strabone a proposito del Po – «l’esperienza supera anche le più grandi difficoltà». Viceversa, in età tardo-antica, con la diminuzione del presidio umano sulle aree fluviali, le coltivazioni lasciarono per lo più il posto all’incolto, alle selve e alle paludi e le opere di regimazione, senza la necessaria manutenzione, persero d’efficacia o addirittura favorirono gli impaludamenti.
Senza voler a tutti i costi idealizzare il mondo antico, è importante imparare sul punto la lezione dei Romani: al di là della gestione dell’emergenza, la prevenzione esige l’elaborazione e l’imposizione ai privati da parte della pubblica autorità di semplici e funzionali regole di rispetto, in modo che ciascuno sia messo in condizione di operare nel suo piccolo per far fonte in comune ad un problema di portata generale.
«Una paura particolare sia per il disastro attuale che per il futuro (venne) da un’improvvisa inondazione del Tevere, che con uno smisurato ingrossamento, abbattuto il ponte Sublicio e riversatosi per la rovina della diga contrapposta, allagò non solo le parti basse e piane della città, ma anche quelle sicure contro sciagure di tal genere; molti furono trascinati fuori dalla pubblica via, parecchi furono sorpresi nelle osterie e nelle camere da letto. Fra il popolo dilagò la fame, la povertà e la carestia. Le fondamenta dei caseggiati furono danneggiate dalle acque stagnanti». Se non fosse per il richiamo alla volontà divina come una delle possibili cause della furia delle acque, che poco si avvicina alla mentalità moderna, questi resoconti si adatterebbero bene alle alluvioni che in questi giorni travolgono le nostre città e ci lasciano attoniti e inorriditi davanti ai teleschermi. Si tratta infatti di resoconti storici di fatti analoghi avvenuti a Roma antica nel 54 a.C. e nel 69 d.C. e ne sono autori rispettivamente gli storici romani Cassio Dione e Tacito. Del resto, nella sola capitale, dal 414 a.C. al 398 d.C. le inondazioni del Tevere furono poco più di una trentina e ciascuna lasciò nella popolazione un’indelebile impressione di impotenza a fronte della violenza incontrollabile della corrente: una drammaticità che fa eco nelle riflessioni dei giuristi romani, dove le inondazioni vengono descritte come casi di «forza maggiore cui è impossibile resistere» e come fenomeni ammantati di un vigore divino, visto che nessuno sforzo dell’uomo è in grado di contrastarli.
Ma, nonostante questa consapevolezza, i Romani non mancavano di intervenire sulla prevenzione, non solo con interventi di pianificazione territoriale su larga scala, ma anche stimolando nei privati una vera e propria «presa di coscienza collettiva» così da mettere ogni cittadino in condizione di cooperare per quanto possibile all’interesse generale. Ciò avveniva non di rado per intervento del pretore, il magistrato giurisdizionale dotato di imperium che, col suo editto, poteva intervenire coattivamente nella vita dei singoli e imporre loro l’osservanza di alcune regole di rispetto.
Qualche esempio: i Romani sapevano che, per contrastare le inondazioni, occorre in primo luogo rimuovere i materiali solidi e la vegetazione dal letto del fiume per il ripristino del suo regolare deflusso. Sapevano, infatti, che l’accumulo di detriti e la formazione di vegetazione in alveo o di alberi pericolanti sulle rive riducono la capacità di smaltimento nella rete delle portate in transito e quindi inducono le tracimazioni. Per questo, come ci racconta Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C., un pretore di età repubblicana diede ai privati la possibilità di agire in giudizio nell’interesse generale contro quell’appaltatore che, nonostante l’impegno assunto verso la collettività, non avesse eseguito il lavoro a regola d’arte. I Romani erano anche consapevoli che l’erosione delle sponde poteva, col trasporto dei detriti, alterare l’equilibrio energetico del fiume e, alla prima pioggia, causare inondazioni a valle: per questo favorivano la cosiddetta munitio riparum, cioè il rinforzo delle sponde, ben consci che quest’opera rispondeva anche all’interesse generale benché normalmente fosse effettuata dai proprietari rivieraschi privatamente e per propri interessi personali.
Questa munitio riparum si effettuava, per esempio, mettendo a dimora in riva colture arboree ed arbustive contro l’attività erosiva del fiume, oppure effettuando la manutenzione di argini naturali o realizzandone di artificiali anche con materiali rudimentali reperiti in loco (legno, pietra). Tali interventi sono spesso documentati dalla ricerca archeologica. Ebbene, lo scopo di tutelare la munitio riparum era realizzato dall’editto del pretore attraverso un’apposita prescrizione (il cosiddetto interdictum de ripa munienda) che colpiva chiunque in qualunque modo impedisse ad altri privati di effettuare lavori di rafforzamento delle rive: anche qui si vede come, nell’ambito del tribunale del pretore, venissero imposte ai privati regole giuridiche tese a supportare gli interventi di carattere tecnico contro le inondazioni.
Passando, infine, all’ambito rurale, possiamo ricordare gli eccezionali sforzi dei geometri romani per il drenaggio delle acque superficiali e l’irreggimentazione dei fiumi, finalizzati a potenziare al massimo le capacità produttive del territorio ma anche a limitare gli effetti disastrosi delle piene. Questo avveniva talvolta con la deviazione dei fiumi in canali secondari, a loro volta distribuiti in una rete capillare di canalette destinate all’irrigazione dei singoli poderi: ma anche qui la collaborazione dei privati era essenziale perché, senza un’adeguata pulizia dei canali, si sarebbe aggravato il rischio delle piene. È noto, inoltre, che i Romani solevano lasciare al fiume, soprattutto nei meandri, bacini laterali di espansione privi di edifici, proprio al fine di proteggere dalle piene gli abitati rurali delle vicinanze, spesso situati sulle alture.
Certo, come ricorda Plinio il Vecchio alludendo alle piene del Po, difficilmente tali opere si rivelavano risolutive a fronte dell’impeto inarrestabile dei grandi fiumi, ma ad ogni catastrofe seguiva la ripresa del controllo antropico sul territorio perché – come dice Strabone a proposito del Po – «l’esperienza supera anche le più grandi difficoltà». Viceversa, in età tardo-antica, con la diminuzione del presidio umano sulle aree fluviali, le coltivazioni lasciarono per lo più il posto all’incolto, alle selve e alle paludi e le opere di regimazione, senza la necessaria manutenzione, persero d’efficacia o addirittura favorirono gli impaludamenti.
Senza voler a tutti i costi idealizzare il mondo antico, è importante imparare sul punto la lezione dei Romani: al di là della gestione dell’emergenza, la prevenzione esige l’elaborazione e l’imposizione ai privati da parte della pubblica autorità di semplici e funzionali regole di rispetto, in modo che ciascuno sia messo in condizione di operare nel suo piccolo per far fonte in comune ad un problema di portata generale.
«Avvenire» del 23 novembre 2011
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