di Marcello Flores
Negli anni in cui lo stalinismo stava assumendo in pieno il suo carattere di “grande terrore”, in Europa ma anche negli Stati Uniti si assiste al momento forse più esteso di consenso e di fascinazione per l’Urss, in parte replicato proprio tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta senza però, come in quel caso, la presenza di una robusta e crescente schiera di intellettuali schierati apertamente contro il comunismo. Il più importante dei congressi degli intellettuali negli anni Trenta, quello che divenne il simbolo stesso del loro impegno politico, ebbe luogo a Parigi a fine giugno 1935.
Il I Congresso internazionale degli scrittori in difesa della libertà della cultura era nato su sollecitazione di Erenburg, lo scrittore sovietico che, benché avesse combattuto la guerra civile dalla parte dei bianchi contro i bolscevichi, era diventato in epoca staliniana l’uomo di fiducia per i rapporti con l’occidente e in particolar modo con il mondo della cultura. Il congresso era stato organizzato dai nomi più noti dell’intelligencija comunista, Aragon e Vaillant-Couturier, e da alcuni degli scrittori francesi più noti e rappresentativi, Gide e Malraux. Dal congresso venne escluso Breton, per un litigio avvenuto alla vigilia con Erenburg, e mancarono tanto scrittori conservatori come Henry de Montherlant e François Mauriac quanto coloro che simpatizzavano per il trockismo e le correnti rivoluzionarie antistaliniane. Tra i francesi vi erano anche Barbusse, Nizan, Benda, Tzara; tra gli stranieri Musil, Forster, Huxley, Toller, Brecht, Klaus e Heinrich Mann, Salvemini e Ernst Bloch; nella delegazione sovietica, tra altri, Pasternak e Babel’.
Il compito di inaugurare il congresso toccò a Gide, lo scrittore che si era “convertito” al comunismo qualche anno addietro. Nella sua relazione rivendicò il suo essere, insieme, francese e internazionalista, comunista e individualista, e attribuì alla letteratura la straordinaria capacità di intrecciare il particolare con il generale. «L’Urss – disse – ci offre attualmente uno spettacolo senza precedenti, d’immensa importanza, insperata e, oso aggiungere, esemplare. Quello di un paese in cui lo scrittore entra in comunione diretta con i suoi lettori». La maggior parte degli intervenuti, pur con accenti tra loro molto diversi, si dichiararono coesi attorno al progetto antifascista guidato dall’Urss.
Voci discordi furono quella di Emmanuel Mounier, che parlò di un nuovo umanesimo e di valorizzazione della persona e poco dopo, in un commento al convegno, avrebbe stigmatizzato «il conformismo e la bassezza nei confronti del grande Stalin e dell’infallibile Urss». E anche di Musil che dovette apparire a molti una sorta di sopravvissuto e di anacronistico retaggio del passato. L’intervento dello scrittore austriaco, che le cronache coeve e successive passarono quasi sotto silenzio, partiva da una pacata richiesta di potersi sottrarre alle “pretese” della politica. Consapevole dell’accentuato collettivismo che caratterizzava l’intera storia dell’epoca, Musil si domandava se la cultura ne sarebbe stata fecondata o distrutta e invitava i suoi colleghi a imparare la nobile arte femminile «del non concedersi», visto che i politici erano «soliti considerare una splendida cultura come la preda naturale della loro politica, così come una volta le donne spettavano ai vincitori».
Ricordando l’assioma di Nietzsche secondo cui la vittoria di un ideale morale si otteneva con gli strumenti immorali di ogni vittoria – la violenza, l’inganno, la calunnia, l’ingiustizia – invitava a lasciare libertà allo scrittore nella scelta della forma politica con cui identificarsi. Intendendo per libertà non un concetto politico riduttivo ma un’idea psicologica, l’audacia, l’irrequietezza dello spirito, il piacere della ricerca, la schiettezza e il senso di responsabilità. «Deve essere anche presente l’amore per la verità – concluse –; vorrei ricordarlo perché al momento attuale non è troppo grande e ciò che definiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, eppure nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità».
Il problema della verità venne fuori con una drammaticità che forse Musil non si aspettava nella serata di lunedì 24 giugno, il penultimo giorno del congresso. In mattinata la parte del leone era toccata a Boris Pasternak. Il poeta russo, che non si aspettava il clima acceso e pesante che cominciava ad aleggiare sui lavori del congresso, si limitò a un brevissimo intervento che inneggiava alla poesia.
Dopo aver atteso che terminasse la lunga e calorosa ovazione con cui lo salutarono i presenti, disse: «La poesia resta sempre qualcosa che si libra più in alto delle Alpi e giace al tempo stesso dovunque nell’erba, sotto i nostri piedi in modo che basta piegarsi per vederla e poterla afferrare. La poesia è qualcosa di troppo semplice per essere discussa in congressi e riunioni, è qualcosa che manifesta il destino felice dell’uomo, di colui che dispone dei doni benedetti del linguaggio.
E dunque più felicità ci sarà sulla terra, più facile sarà essere poeti». Fu Gaetano Salvemini che sollevò quello che costituì un imbarazzante momento di verità per tutto il congresso, il “caso Serge”. Lo scrittore anarchico russobelga, che aveva soggiornato a lungo in Francia prima di recarsi in Russia a fianco della rivoluzione bolscevica, si trovava deportato all’interno dell’Urss da quasi tre anni.
L’ultimo giorno del congresso il “caso Serge” tornò alla ribalta, grazie alla determinazione di Magdeleine Marx cui si associò il romanziere belga Charles Plisnier. Erenburg difese l’operato del governo sovietico e parlò della necessità di ogni rivoluzione di difendersi dai suoi nemici, mentre Anna Seghers cercò di screditare gli amici di Serge sostenendo che chi non parlava delle vittime del nazismo si mostrava per ciò stesso ostile all’Unione Sovietica. Il congresso si concluse con un clima dominante di umanesimo generico e contraddittorio ma caratterizzato soprattutto dal patronage politico che aveva aleggiato in tutte le giornate e che era costituito dalla conquistata egemonia comunista sull’intelligencija e dal ruolo di faro, guida e difesa dal fascismo che si attribuiva all’Unione Sovietica.
Il I Congresso internazionale degli scrittori in difesa della libertà della cultura era nato su sollecitazione di Erenburg, lo scrittore sovietico che, benché avesse combattuto la guerra civile dalla parte dei bianchi contro i bolscevichi, era diventato in epoca staliniana l’uomo di fiducia per i rapporti con l’occidente e in particolar modo con il mondo della cultura. Il congresso era stato organizzato dai nomi più noti dell’intelligencija comunista, Aragon e Vaillant-Couturier, e da alcuni degli scrittori francesi più noti e rappresentativi, Gide e Malraux. Dal congresso venne escluso Breton, per un litigio avvenuto alla vigilia con Erenburg, e mancarono tanto scrittori conservatori come Henry de Montherlant e François Mauriac quanto coloro che simpatizzavano per il trockismo e le correnti rivoluzionarie antistaliniane. Tra i francesi vi erano anche Barbusse, Nizan, Benda, Tzara; tra gli stranieri Musil, Forster, Huxley, Toller, Brecht, Klaus e Heinrich Mann, Salvemini e Ernst Bloch; nella delegazione sovietica, tra altri, Pasternak e Babel’.
Il compito di inaugurare il congresso toccò a Gide, lo scrittore che si era “convertito” al comunismo qualche anno addietro. Nella sua relazione rivendicò il suo essere, insieme, francese e internazionalista, comunista e individualista, e attribuì alla letteratura la straordinaria capacità di intrecciare il particolare con il generale. «L’Urss – disse – ci offre attualmente uno spettacolo senza precedenti, d’immensa importanza, insperata e, oso aggiungere, esemplare. Quello di un paese in cui lo scrittore entra in comunione diretta con i suoi lettori». La maggior parte degli intervenuti, pur con accenti tra loro molto diversi, si dichiararono coesi attorno al progetto antifascista guidato dall’Urss.
Voci discordi furono quella di Emmanuel Mounier, che parlò di un nuovo umanesimo e di valorizzazione della persona e poco dopo, in un commento al convegno, avrebbe stigmatizzato «il conformismo e la bassezza nei confronti del grande Stalin e dell’infallibile Urss». E anche di Musil che dovette apparire a molti una sorta di sopravvissuto e di anacronistico retaggio del passato. L’intervento dello scrittore austriaco, che le cronache coeve e successive passarono quasi sotto silenzio, partiva da una pacata richiesta di potersi sottrarre alle “pretese” della politica. Consapevole dell’accentuato collettivismo che caratterizzava l’intera storia dell’epoca, Musil si domandava se la cultura ne sarebbe stata fecondata o distrutta e invitava i suoi colleghi a imparare la nobile arte femminile «del non concedersi», visto che i politici erano «soliti considerare una splendida cultura come la preda naturale della loro politica, così come una volta le donne spettavano ai vincitori».
Ricordando l’assioma di Nietzsche secondo cui la vittoria di un ideale morale si otteneva con gli strumenti immorali di ogni vittoria – la violenza, l’inganno, la calunnia, l’ingiustizia – invitava a lasciare libertà allo scrittore nella scelta della forma politica con cui identificarsi. Intendendo per libertà non un concetto politico riduttivo ma un’idea psicologica, l’audacia, l’irrequietezza dello spirito, il piacere della ricerca, la schiettezza e il senso di responsabilità. «Deve essere anche presente l’amore per la verità – concluse –; vorrei ricordarlo perché al momento attuale non è troppo grande e ciò che definiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, eppure nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità».
Il problema della verità venne fuori con una drammaticità che forse Musil non si aspettava nella serata di lunedì 24 giugno, il penultimo giorno del congresso. In mattinata la parte del leone era toccata a Boris Pasternak. Il poeta russo, che non si aspettava il clima acceso e pesante che cominciava ad aleggiare sui lavori del congresso, si limitò a un brevissimo intervento che inneggiava alla poesia.
Dopo aver atteso che terminasse la lunga e calorosa ovazione con cui lo salutarono i presenti, disse: «La poesia resta sempre qualcosa che si libra più in alto delle Alpi e giace al tempo stesso dovunque nell’erba, sotto i nostri piedi in modo che basta piegarsi per vederla e poterla afferrare. La poesia è qualcosa di troppo semplice per essere discussa in congressi e riunioni, è qualcosa che manifesta il destino felice dell’uomo, di colui che dispone dei doni benedetti del linguaggio.
E dunque più felicità ci sarà sulla terra, più facile sarà essere poeti». Fu Gaetano Salvemini che sollevò quello che costituì un imbarazzante momento di verità per tutto il congresso, il “caso Serge”. Lo scrittore anarchico russobelga, che aveva soggiornato a lungo in Francia prima di recarsi in Russia a fianco della rivoluzione bolscevica, si trovava deportato all’interno dell’Urss da quasi tre anni.
L’ultimo giorno del congresso il “caso Serge” tornò alla ribalta, grazie alla determinazione di Magdeleine Marx cui si associò il romanziere belga Charles Plisnier. Erenburg difese l’operato del governo sovietico e parlò della necessità di ogni rivoluzione di difendersi dai suoi nemici, mentre Anna Seghers cercò di screditare gli amici di Serge sostenendo che chi non parlava delle vittime del nazismo si mostrava per ciò stesso ostile all’Unione Sovietica. Il congresso si concluse con un clima dominante di umanesimo generico e contraddittorio ma caratterizzato soprattutto dal patronage politico che aveva aleggiato in tutte le giornate e che era costituito dalla conquistata egemonia comunista sull’intelligencija e dal ruolo di faro, guida e difesa dal fascismo che si attribuiva all’Unione Sovietica.
«Avvenire» del 25 novembre 2011
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