Chissà cosa direbbe Pericle nel vedere la sua amata e tanto deturpata democrazia violentata da quattro professori
di Marcello Veneziani
Ma che succede alla democrazia? È ancora una priorità assoluta, un bene primario da tutelare, oppure sta lentamente ma inesorabilmente declinando? Lo dico guardando a quel che accade in Italia, col Parlamento che si arrende alla Borsa e abdica alla sovranità politica in favore di quella tecnico-economica, invocando un premier che il popolo sovrano non ha mai votato. Ma il processo è più grande e più profondo, e non riguarda solo la traballante democrazia italiana e le sue anomalie. Percorre le democrazie occidentali, mai come oggi dipendenti dai mercati e delle banche centrali.
Un tempo si sosteneva che Democrazia e Mercato fossero un binomio inscindibile. Non c’è libero mercato senza democrazia liberale, e viceversa, non c’è democrazia liberale senza libero mercato. Questa era la tesi liberale prevalente. Ma l’identificazione non è così pacifica e così automatica: abbiamo visto regimi autoritari, la Cina dopo Mao, ancora comunista ma semi-liberista, ma anche il Cile di Pinochet, un regime autoritario con una linea economica liberista ispirata da Milton Friedman, e poi i regimi sauditi e alcuni latino-americani, dove il Mercato è garantito da regimi illibertari. Mao-thatcherismo, mercatismo islamico, liberismo paramilitare...
Nei Paesi occidentali crescono gli oligopoli, i poteri delle multinazionali, il dominio del mercato finanziario sul mercato dei beni reali. E gli assetti transnazionali, a cominciare dall’Europa, tendono inesorabilmente, sotto il tambureggiare delle crisi economiche e delle emergenze finanziarie, a ridurre le sovranità popolari e nazionali, a commissariare i Paesi che non si adeguano alle direttive, lasciando in definitiva ai tecnici, agli eurocrati e alle banche centrali il ruolo di guida. E intanto continua a restringersi nelle democrazie occidentali la partecipazione dei cittadini alle scelte, al voto e alle idee politiche; cresce da anni l’astensione, la disaffezione.
Che succede, sta tramontando la democrazia? Le emergenze che si affacciano nel futuro, legate all’ambiente, all’energia, alla Borsa, alla salute, alla sicurezza, ai flussi migratori, esigono decisioni rapide, talvolta autoritarie e spesso impopolari. O diventano sontuosi alibi per giustificare il restringersi della libertà nel nome della sicurezza. La democrazia rischia così di essere commissariata tramite golpe bianchi e dorati, magari provvisori, ma le emergenze sono così molteplici e consecutive da rischiare di cronicizzarsi e di esigere governi che usino la democrazia come un rivestimento.
Non si tratta di evocare congiure di poteri oscuri e dietrologie pittoresche. E non si tratta nemmeno di assestarsi a difendere ad ogni costo la sovranità popolare; la democrazia non è un valore assoluto, un principio teologico. È semplicemente la forma che ci pare la meno dannosa di tutte, perché consente di rimediare agli errori, di avvicendare chi è al potere e di rendere il più possibile trasparenti le decisioni e gli assetti di potere. Non esistono governi dei popoli, tutti i governi sono governi dei pochi; la vera differenza è che ci sono governi dei pochi nell'interesse dei molti e governi dei pochi negli interessi di pochi. Ci sono poi decisioni rapide e impopolari che non possono passare dal dalle mediazioni e dal Parlamento: ad esempio dimezzare il numero dei parlamentari per migliorare il tessuto stesso della democrazia (oltre che i costi della politica) è un’esigenza vera ma non potrà mai essere varata dal Parlamento medesimo. E allora cosa resta da fare? Resta da porre l’accento sull’autonomia sovrana dell’esecutivo, garantire governi meno ricattabili e meno dipendenti dai parlamenti, garantiti per la legislatura, con un mandato forte e ampio, revocabile solo in caso di grave pericolo. Governi che rispondono del loro operato in ogni sede, ma solo alla fine del mandato politico ricevuto. Non conosciamo altra soluzione per garantire stabilità, efficienza e decisione, senza cadere in soluzioni antidemocratiche.
La tendenza verso cui stiamo andando, e qui torno al caso italiano, è esattamente opposta: i parlamenti possono impallinare i governi ma poi non offrono governi alternativi e dunque consegnano la sovranità a poteri che non sono legittimati democraticamente e non rispondono ai cittadini medesimi. E poi, in Italia, senza avere un presidenzialismo eletto dal popolo, abbiamo un presidenzialismo implicito, sotto traccia, con un Capo dello Stato elevato a regista dei ribaltoni politico-istituzionali. Fino a sospendere la democrazia e svuotare la sovranità popolare.
A questo punto la democrazia va blindata con una corazza a due strati, decisionista e comunitaria: ovvero un presidenzialismo esplicito, decisionista, autorevole, con ampi poteri per tutto il mandato ricevuto; e sul piano della coesione sociale una democrazia comunitaria che tutela e promuove i valori e gli interessi comuni.
Sul piano dei principi le fonti del potere sono tre: la maggioranza, l’esperienza e la competenza. Ovvero il verdetto del voto popolare (democrazia), l’esperienza della storia, il patrimonio acquisito e le usanze di una civiltà (tradizione) e il ruolo dei decisori (élite e capi responsabili). Una buona politica regge sull’equilibrio tra queste tre fonti di potere; le singole decisioni sono assunte nel nome di almeno una delle tre fonti, a patto che non siano contraddette dalle altre due. Questa è la teoria; la buona pratica è ciò che meno si allontana da quei principi. La guida dell’Europa presente, e dell’Italia in particolare, è lontana dalla sua triplice legittimazione. Solo oligarchie e poteri autoreferenziali. Ma i poteri non democratici crescono non solo per la loro forza espansiva ma anche per la debolezza della politica. Quando la politica non ha la forza della decisione e il carisma della comunità, quando non interpreta bisogni reali e passioni civili e ideali, allora cede il passo ai Tecnici. Rigenerare la politica è l’impresa difficile dei prossimi anni.
Un tempo si sosteneva che Democrazia e Mercato fossero un binomio inscindibile. Non c’è libero mercato senza democrazia liberale, e viceversa, non c’è democrazia liberale senza libero mercato. Questa era la tesi liberale prevalente. Ma l’identificazione non è così pacifica e così automatica: abbiamo visto regimi autoritari, la Cina dopo Mao, ancora comunista ma semi-liberista, ma anche il Cile di Pinochet, un regime autoritario con una linea economica liberista ispirata da Milton Friedman, e poi i regimi sauditi e alcuni latino-americani, dove il Mercato è garantito da regimi illibertari. Mao-thatcherismo, mercatismo islamico, liberismo paramilitare...
Nei Paesi occidentali crescono gli oligopoli, i poteri delle multinazionali, il dominio del mercato finanziario sul mercato dei beni reali. E gli assetti transnazionali, a cominciare dall’Europa, tendono inesorabilmente, sotto il tambureggiare delle crisi economiche e delle emergenze finanziarie, a ridurre le sovranità popolari e nazionali, a commissariare i Paesi che non si adeguano alle direttive, lasciando in definitiva ai tecnici, agli eurocrati e alle banche centrali il ruolo di guida. E intanto continua a restringersi nelle democrazie occidentali la partecipazione dei cittadini alle scelte, al voto e alle idee politiche; cresce da anni l’astensione, la disaffezione.
Che succede, sta tramontando la democrazia? Le emergenze che si affacciano nel futuro, legate all’ambiente, all’energia, alla Borsa, alla salute, alla sicurezza, ai flussi migratori, esigono decisioni rapide, talvolta autoritarie e spesso impopolari. O diventano sontuosi alibi per giustificare il restringersi della libertà nel nome della sicurezza. La democrazia rischia così di essere commissariata tramite golpe bianchi e dorati, magari provvisori, ma le emergenze sono così molteplici e consecutive da rischiare di cronicizzarsi e di esigere governi che usino la democrazia come un rivestimento.
Non si tratta di evocare congiure di poteri oscuri e dietrologie pittoresche. E non si tratta nemmeno di assestarsi a difendere ad ogni costo la sovranità popolare; la democrazia non è un valore assoluto, un principio teologico. È semplicemente la forma che ci pare la meno dannosa di tutte, perché consente di rimediare agli errori, di avvicendare chi è al potere e di rendere il più possibile trasparenti le decisioni e gli assetti di potere. Non esistono governi dei popoli, tutti i governi sono governi dei pochi; la vera differenza è che ci sono governi dei pochi nell'interesse dei molti e governi dei pochi negli interessi di pochi. Ci sono poi decisioni rapide e impopolari che non possono passare dal dalle mediazioni e dal Parlamento: ad esempio dimezzare il numero dei parlamentari per migliorare il tessuto stesso della democrazia (oltre che i costi della politica) è un’esigenza vera ma non potrà mai essere varata dal Parlamento medesimo. E allora cosa resta da fare? Resta da porre l’accento sull’autonomia sovrana dell’esecutivo, garantire governi meno ricattabili e meno dipendenti dai parlamenti, garantiti per la legislatura, con un mandato forte e ampio, revocabile solo in caso di grave pericolo. Governi che rispondono del loro operato in ogni sede, ma solo alla fine del mandato politico ricevuto. Non conosciamo altra soluzione per garantire stabilità, efficienza e decisione, senza cadere in soluzioni antidemocratiche.
La tendenza verso cui stiamo andando, e qui torno al caso italiano, è esattamente opposta: i parlamenti possono impallinare i governi ma poi non offrono governi alternativi e dunque consegnano la sovranità a poteri che non sono legittimati democraticamente e non rispondono ai cittadini medesimi. E poi, in Italia, senza avere un presidenzialismo eletto dal popolo, abbiamo un presidenzialismo implicito, sotto traccia, con un Capo dello Stato elevato a regista dei ribaltoni politico-istituzionali. Fino a sospendere la democrazia e svuotare la sovranità popolare.
A questo punto la democrazia va blindata con una corazza a due strati, decisionista e comunitaria: ovvero un presidenzialismo esplicito, decisionista, autorevole, con ampi poteri per tutto il mandato ricevuto; e sul piano della coesione sociale una democrazia comunitaria che tutela e promuove i valori e gli interessi comuni.
Sul piano dei principi le fonti del potere sono tre: la maggioranza, l’esperienza e la competenza. Ovvero il verdetto del voto popolare (democrazia), l’esperienza della storia, il patrimonio acquisito e le usanze di una civiltà (tradizione) e il ruolo dei decisori (élite e capi responsabili). Una buona politica regge sull’equilibrio tra queste tre fonti di potere; le singole decisioni sono assunte nel nome di almeno una delle tre fonti, a patto che non siano contraddette dalle altre due. Questa è la teoria; la buona pratica è ciò che meno si allontana da quei principi. La guida dell’Europa presente, e dell’Italia in particolare, è lontana dalla sua triplice legittimazione. Solo oligarchie e poteri autoreferenziali. Ma i poteri non democratici crescono non solo per la loro forza espansiva ma anche per la debolezza della politica. Quando la politica non ha la forza della decisione e il carisma della comunità, quando non interpreta bisogni reali e passioni civili e ideali, allora cede il passo ai Tecnici. Rigenerare la politica è l’impresa difficile dei prossimi anni.
«Il Giornale» del 14 novembre 2011
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