Più che creare, vogliamo ricordare: un critico musicale inglese battezza la "Retromania", che in Italia celebra il suo trionfo sociale, culturale e estetico
di Jacopo Iacoboni
I ragazzini entrano nei negozi di scarpe e chiedono le Converse, che mettevamo noi nei primissimi anni 80 post-punk. Tra i più grandi successi al cinema celebriamo remake come Alien, prequel del Pianeta delle scimmie o Ang Lee che gira un film su Woodstock. Andiamo a comprare dischi e siamo assaliti da revival e cover; chi vuole qualcosa di pulsante deve farsi largo in mezzo a cumuli di rifacimenti. Gli unici negozi d’abbigliamento che orientano un minimo il gusto sono, inesorabilmente, vintage. Circola una battuta illuminante, «il revival degli Anni 80 sta durando più degli Anni 80». In letteratura i geni più grandi sono tristemente non italiani, ma sono anche loro dei postpostmoderni: nel senso che i più dotati citano, ricitano, rileggono; in sostanza scrivono anche capolavori, ma del genere «mash up». In politica siamo stati troppo a lungo governati da un uomo di 75 anni che raccontava barzellette andate, e nei vertici internazionali si girava a guardare da dietro una collega danese ultraquarantenne; l’opposizione, dice con giusta franchezza Alessandro Baricco, «è quanto di più conservatore ci sia in questo Paese», sempre con gli occhi voltati all’indietro, monopolizzata da un gruppo dirigente il cui telefilm di riferimento è tuttora Happy Days. Nel sonno dei media tradizionali l’età media di analisti e commentatori sale a 68 anni (fonte: Vision). Tutto il resto è noia.
Il default italiano non è solo un’eventualità contabile e una crisi di fiducia dei mercati: è uno stato d’animo cupo e passatista. L’Italia celebra il trionfo - sociale, culturale, estetico della Retromania , titolo del brillante saggio di Simon Reynolds appena tradotto da Isbn. Reynolds è un grande critico musicale inglese, firma del Guardian , ha cinquant’anni e ha scritto libri importanti, sia sulla musica techno e l’esplosione rave degli Anni 90, sia soprattutto sul post-punk, la grande stagione della musica indie seguita al 1976, ai Clash e i Sex Pistols, e culminata nel ‘79 con tre capolavori assoluti, Unknown Pleasures dei Joy Division, Metal box dei Pil, Fear of Music dei Talking Heads. Era, scrive adesso Reynolds, musica che sapeva innovare; scavava nelle profondità della società per indagare il nuovo. Come l’Angelus Novus di Walter Benjamin (che Reynols cita) aveva le ali conficcate nel passato ma lo sguardo proiettato sul futuro. Oggi non è più così. «Se gli Anni 70 hanno avuto la disco music e il punk, gli Anni 80 l’hip-hop e gli Anni 90 il rave e il grunge, qual è stato l’imprescindibile fenomeno musicale che ha dominato il mondo della musica pop negli anni zero? (Imbarazzato silenzio)». L’era pop che viviamo è impazzita per tutto ciò che è retrò e commemorativo, un «nostalgico blocco che impedisce di guardare avanti».
E siccome a detta di Reynolds «la musica non è altro che un araldo, che coglie prima degli altri i cambiamenti e quanto va succedendo nella società», possiamo ipotizzare che stia succedendo esattamente qualcosa del genere altrove, in qualche caso, come in Italia, con un di più di passatismo? Il critico suggerisce alcuni esempi, tra musica, economia, filosofia. Il più grande fenomeno pop di questo tempo, per esempio: lady Gaga è solo «un riciclaggio di decadenza glam dei 70 (Bowie), look eccessivo degli 80 (Madonna), neo-dark dei 90 (Marilyn Manson)». Quand’è stata in concerto a Milano, teenager italiane giovani ma già vecchie sono impazzite. Decine di band indie, come i newyorchesi Interpol, non fanno che rifare i Joy Division. Amy Winehouse, sulle cui spoglie s’è lanciata un’industria culturale avida di miti che non esistono più, non è che ripetizione del R&B Anni 60, della Motown, e molto probabilmente di Nina Simone. Gli Oasis dei fratelli Gallagher, se proprio vogliamo considerarli, a esser molto gentili con loro si ispirano assai ai Beatles della stagione Revolver . I Black Crowes sono dei Rolling Stones riciclati e fuori tempo massimo.
Dice lo scrittore Aldo Nove che lo schema «è fondamentale per capire anche dove siamo oggi. E non solo musicalmente». In effetti, la retromania sembra connotata anche economicamente. Confida Reynolds che i processi sono analoghi a quella che gli economisti chiamano «sovraccumulazione», c’è un surplus di capitali che trovano poco sbocco per investimenti nell’economia reale, a causa delle difficoltà del mercato dei consumatori, e dunque «si dirige verso la speculazione». Più si è fermi e bloccati, con lo sguardo rivolto indietro, più si è immobili prede. Il bombardamento digitale sarà una ricchezza, ha modificato in modo rivoluzionario le forme della fruizione; ma i contenuti?
Gli esempi potrebbero essere numerosi. Tra le applicazioni più scaricate da noi c’è iPhone Instagram: siccome le foto digitali non possono invecchiare e conquistare storia, il pubblico va pazzo per questa funzione che consente di seppiare le foto, invecchiarle. Quello che vogliamo: essere antichi. È come se non esistesse più un futuro e, per paradosso, proprio ora che pensiamo di averlo a portata di mano. Nei social network come Twitter trova una diffusione enorme (fonte New York Times ) l’abilità di Aaron Wood, un grafico che trasferisce nel mondo digitale i modelli visivi dei vecchi poster di propaganda. Vende a otto dollari immagini che hanno il pregio di sembrare vecchie.
Sostiene il filosofo Maurizio Ferraris (in Anima e iPad, Guanda) che la civiltà dell’iPad - e tanto più se declinata all’italiana - anziché disegnare territori incogniti, potenzia l’esigenza antichissima di avere un’anima, ossia una memoria più ricca. Vogliamo «ricordare, non creare». Agogniamo la tavoletta perché archivia (il passato), non perché illumina (un futuro), condannati a esser retromani col gadget in tasca, lady Gaga nelle cuffie, e a sentirci chiamare giovani a quarant’anni.
Il default italiano non è solo un’eventualità contabile e una crisi di fiducia dei mercati: è uno stato d’animo cupo e passatista. L’Italia celebra il trionfo - sociale, culturale, estetico della Retromania , titolo del brillante saggio di Simon Reynolds appena tradotto da Isbn. Reynolds è un grande critico musicale inglese, firma del Guardian , ha cinquant’anni e ha scritto libri importanti, sia sulla musica techno e l’esplosione rave degli Anni 90, sia soprattutto sul post-punk, la grande stagione della musica indie seguita al 1976, ai Clash e i Sex Pistols, e culminata nel ‘79 con tre capolavori assoluti, Unknown Pleasures dei Joy Division, Metal box dei Pil, Fear of Music dei Talking Heads. Era, scrive adesso Reynolds, musica che sapeva innovare; scavava nelle profondità della società per indagare il nuovo. Come l’Angelus Novus di Walter Benjamin (che Reynols cita) aveva le ali conficcate nel passato ma lo sguardo proiettato sul futuro. Oggi non è più così. «Se gli Anni 70 hanno avuto la disco music e il punk, gli Anni 80 l’hip-hop e gli Anni 90 il rave e il grunge, qual è stato l’imprescindibile fenomeno musicale che ha dominato il mondo della musica pop negli anni zero? (Imbarazzato silenzio)». L’era pop che viviamo è impazzita per tutto ciò che è retrò e commemorativo, un «nostalgico blocco che impedisce di guardare avanti».
E siccome a detta di Reynolds «la musica non è altro che un araldo, che coglie prima degli altri i cambiamenti e quanto va succedendo nella società», possiamo ipotizzare che stia succedendo esattamente qualcosa del genere altrove, in qualche caso, come in Italia, con un di più di passatismo? Il critico suggerisce alcuni esempi, tra musica, economia, filosofia. Il più grande fenomeno pop di questo tempo, per esempio: lady Gaga è solo «un riciclaggio di decadenza glam dei 70 (Bowie), look eccessivo degli 80 (Madonna), neo-dark dei 90 (Marilyn Manson)». Quand’è stata in concerto a Milano, teenager italiane giovani ma già vecchie sono impazzite. Decine di band indie, come i newyorchesi Interpol, non fanno che rifare i Joy Division. Amy Winehouse, sulle cui spoglie s’è lanciata un’industria culturale avida di miti che non esistono più, non è che ripetizione del R&B Anni 60, della Motown, e molto probabilmente di Nina Simone. Gli Oasis dei fratelli Gallagher, se proprio vogliamo considerarli, a esser molto gentili con loro si ispirano assai ai Beatles della stagione Revolver . I Black Crowes sono dei Rolling Stones riciclati e fuori tempo massimo.
Dice lo scrittore Aldo Nove che lo schema «è fondamentale per capire anche dove siamo oggi. E non solo musicalmente». In effetti, la retromania sembra connotata anche economicamente. Confida Reynolds che i processi sono analoghi a quella che gli economisti chiamano «sovraccumulazione», c’è un surplus di capitali che trovano poco sbocco per investimenti nell’economia reale, a causa delle difficoltà del mercato dei consumatori, e dunque «si dirige verso la speculazione». Più si è fermi e bloccati, con lo sguardo rivolto indietro, più si è immobili prede. Il bombardamento digitale sarà una ricchezza, ha modificato in modo rivoluzionario le forme della fruizione; ma i contenuti?
Gli esempi potrebbero essere numerosi. Tra le applicazioni più scaricate da noi c’è iPhone Instagram: siccome le foto digitali non possono invecchiare e conquistare storia, il pubblico va pazzo per questa funzione che consente di seppiare le foto, invecchiarle. Quello che vogliamo: essere antichi. È come se non esistesse più un futuro e, per paradosso, proprio ora che pensiamo di averlo a portata di mano. Nei social network come Twitter trova una diffusione enorme (fonte New York Times ) l’abilità di Aaron Wood, un grafico che trasferisce nel mondo digitale i modelli visivi dei vecchi poster di propaganda. Vende a otto dollari immagini che hanno il pregio di sembrare vecchie.
Sostiene il filosofo Maurizio Ferraris (in Anima e iPad, Guanda) che la civiltà dell’iPad - e tanto più se declinata all’italiana - anziché disegnare territori incogniti, potenzia l’esigenza antichissima di avere un’anima, ossia una memoria più ricca. Vogliamo «ricordare, non creare». Agogniamo la tavoletta perché archivia (il passato), non perché illumina (un futuro), condannati a esser retromani col gadget in tasca, lady Gaga nelle cuffie, e a sentirci chiamare giovani a quarant’anni.
«La Stampa» dell'11 novembre 2011
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