di Roberto I. Zanini
Klaus Demmer non ha dubbi: «Per affrontare le sfide del nostro tempo servono sacerdoti pii e colti... E un laicato cattolico preparato». Proprio oggi Demmer, docente emerito di Teologia morale alla Gregoriana, tiene una lectio magistralis nella medesima università pontificia, sul tema: "Le teologia morale contemporanea, sfide e prospettive". Una sorta di omaggio per i suoi 80 anni, che si affianca alla pubblicazione di un volume della San Paolo (Pensare l’agire morale), a cura di Aristide Fumagalli e Vincenzo Viva, con i contributi di un gruppo di teologi morali italiani suoi ex allievi. Magro, dall’aspetto simpatico e ascetico al contempo, Demmer, che è sacerdote Missionario del Sacro Cuore, insiste sulla necessità di dar vita nella Chiesa a una «nuova consapevolezza dell’essere cristiani».
Professor Demmer, nell’immagine del Sacro Cuore, Gesù indica se stesso come fulcro della vita del cristiano. Oggi lo si considera un linguaggio superato dai tempi.
«Si tratta di una devozione sviluppatasi fra ’700 e ’800, ma se compresa, ancora oggi apre un accesso molto umano al mistero inscrutabile di Dio. Tendiamo a dimenticarci che il centro gravitazionale del cristianesimo è l’amore di Dio per l’uomo. Nell’immagine del Sacro Cuore si rende visibile il mistero del Dio onnipotente che ama l’uomo in maniera incondizionata. Come dice Eberhard Jungel, in questo miracolo è l’eccellenza del cristianesimo».
Come può comprendere queste cose l’uomo di oggi, sempre più lontano dalla spiritualità?
«Il problema non riguarda solo questa devozione, ma è tutto l’accesso al mistero cristiano che risulta ostacolato e difficile. Oggi è come se l’uomo fosse monodimensionale, succube della dittatura di un’unica forma di pensiero, legata a ciò che è concreto, scientificamente dimostrabile. Ciò che riguarda lo spirito viene denigrato, escluso».
Conta solo ciò che si spiega attraverso la scienza...
«E così tutti i fenomeni che hanno una parvenza di spiritualità vengono tacitamente "naturalizzati", resi dimostrabili. Ecco allora che le neuroscienze riducono l’essere umano ai suoi soli processi cerebrali. L’uomo e quindi la sua morale, è il semplice prodotto del suo cervello, dei suoi geni. E anche per la libertà non c’è più spazio».
Per la libertà?
«Sì! Perché se tu sei in quanto funzione dei tuoi geni e dei tuoi collegamenti neuronali, sei automaticamente chiuso nella gabbia di una sorta di predestinazione secolarizzata. La tua vita, le tue scelte, anche quelle morali e della fede, tutto di te si può spiegare in termini biologici, tutto è già scritto nel tuo Dna. E quel che è più grave è che insieme alla libertà soggettiva svanisce anche il concetto di colpa, di responsabilità».
Quale impegno ci aspetta per uscire da questo collo di bottiglia?
«Prima di tutto penso sia fondamentale una filosofia sensibile alle sfide del nostro tempo e finalmente capace di dialogare con la teologia. La collaborazione fra teologia e filosofia è fondamentale per riesaminare tutte le categorie essenziali, a cominciare dai concetti di finalità, ordine, sostanza... Del resto è insito nella storia del cristianesimo: il teologo ha bisogno del filosofo. Oggi serve una teologia arricchita da concreti elementi filosofici».
Questo come si traduce in termini pastorali?
«Prima di tutto è necessario un clero capace di combinare una profonda devozione con un alto livello di cultura. E questo deve trasparire. Il fedele deve percepire che il sacerdote è uomo di cultura capace di competere con gli intellettuali. Ciò che assolutamente non serve è un clero semplicista, bigotto».
E i laici?
«La Chiesa deve prendersi cura di una forte educazione teologica del laicato. I laici sono impreparati alle sfide del nostro tempo, confusi dalla massiccia quantità di messaggi in contrasto con le ragioni della fede. Per la Chiesa è una sfida essenziale».
C’è bisogno di far conoscere nuovamente chi è il vero Dio?
«Molte volte la gente ha un’idea infantile di Dio. Coloro che combattono la fede hanno spesso una concezione bigotta e falsa di Dio. Per questo c’è urgenza di preti e laici preparati».
Ma la fede non passa solo attraverso la cultura.
«La cultura è una via, un accesso. La fede passa attraverso la testimonianza di vita di uomini convinti».
Quindi la cultura senza testimonianza...
«Non vale nulla. Ma la testimonianza si deve adeguare ai tempi che corrono. Per questo dico che il prete moderno deve essere pio e colto».
In una società che non sa più interpretare il male deve essere anche capace di insegnare il discernimento?
«È essenziale. Per troppo tempo si è insegnato a valutare la colpa e il peccato come qualcosa che si misura a peso, quando invece la malizia del cuore non si può misurare. I confessori devono tornare a prendere sul serio questa malizia, che è diabolica e se non lo si comprende non si riesce a spiegare come riesca a generare assenza di spirito di riconciliazione e di perdono. Come produca una generalizzata durezza di animo, che è l’esatto contrario del Cristo che ama offrendo il suo cuore».
Senza perdono non si costruisce la società?
«Nemmeno la famiglia. Molti matrimoni falliscono per questo motivo. Ci sono aspettative deluse, non si perdona e ci si separa, secondo il significato della parola "Diavolo": ciò che divide. Tanti matrimoni si potrebbero salvare se ci fossero coppie esperte capaci di accompagnare le coppie in crisi; se ci fosse una preparazione al matrimonio capace di calarsi nelle sfide della modernità. La Chiesa deve imparare a preparare e accompagnare. Vale per la famiglia come per la formazione dei nuovi sacerdoti. Vivere il celibato in solitudine risulta difficile. E la mia esperienza in Germania con i preti protestanti sposati (anche fra omosessuali) e divorziati mi rende certo di una cosa: non è l’abolizione del celibato che risolve il problema».
Professor Demmer, nell’immagine del Sacro Cuore, Gesù indica se stesso come fulcro della vita del cristiano. Oggi lo si considera un linguaggio superato dai tempi.
«Si tratta di una devozione sviluppatasi fra ’700 e ’800, ma se compresa, ancora oggi apre un accesso molto umano al mistero inscrutabile di Dio. Tendiamo a dimenticarci che il centro gravitazionale del cristianesimo è l’amore di Dio per l’uomo. Nell’immagine del Sacro Cuore si rende visibile il mistero del Dio onnipotente che ama l’uomo in maniera incondizionata. Come dice Eberhard Jungel, in questo miracolo è l’eccellenza del cristianesimo».
Come può comprendere queste cose l’uomo di oggi, sempre più lontano dalla spiritualità?
«Il problema non riguarda solo questa devozione, ma è tutto l’accesso al mistero cristiano che risulta ostacolato e difficile. Oggi è come se l’uomo fosse monodimensionale, succube della dittatura di un’unica forma di pensiero, legata a ciò che è concreto, scientificamente dimostrabile. Ciò che riguarda lo spirito viene denigrato, escluso».
Conta solo ciò che si spiega attraverso la scienza...
«E così tutti i fenomeni che hanno una parvenza di spiritualità vengono tacitamente "naturalizzati", resi dimostrabili. Ecco allora che le neuroscienze riducono l’essere umano ai suoi soli processi cerebrali. L’uomo e quindi la sua morale, è il semplice prodotto del suo cervello, dei suoi geni. E anche per la libertà non c’è più spazio».
Per la libertà?
«Sì! Perché se tu sei in quanto funzione dei tuoi geni e dei tuoi collegamenti neuronali, sei automaticamente chiuso nella gabbia di una sorta di predestinazione secolarizzata. La tua vita, le tue scelte, anche quelle morali e della fede, tutto di te si può spiegare in termini biologici, tutto è già scritto nel tuo Dna. E quel che è più grave è che insieme alla libertà soggettiva svanisce anche il concetto di colpa, di responsabilità».
Quale impegno ci aspetta per uscire da questo collo di bottiglia?
«Prima di tutto penso sia fondamentale una filosofia sensibile alle sfide del nostro tempo e finalmente capace di dialogare con la teologia. La collaborazione fra teologia e filosofia è fondamentale per riesaminare tutte le categorie essenziali, a cominciare dai concetti di finalità, ordine, sostanza... Del resto è insito nella storia del cristianesimo: il teologo ha bisogno del filosofo. Oggi serve una teologia arricchita da concreti elementi filosofici».
Questo come si traduce in termini pastorali?
«Prima di tutto è necessario un clero capace di combinare una profonda devozione con un alto livello di cultura. E questo deve trasparire. Il fedele deve percepire che il sacerdote è uomo di cultura capace di competere con gli intellettuali. Ciò che assolutamente non serve è un clero semplicista, bigotto».
E i laici?
«La Chiesa deve prendersi cura di una forte educazione teologica del laicato. I laici sono impreparati alle sfide del nostro tempo, confusi dalla massiccia quantità di messaggi in contrasto con le ragioni della fede. Per la Chiesa è una sfida essenziale».
C’è bisogno di far conoscere nuovamente chi è il vero Dio?
«Molte volte la gente ha un’idea infantile di Dio. Coloro che combattono la fede hanno spesso una concezione bigotta e falsa di Dio. Per questo c’è urgenza di preti e laici preparati».
Ma la fede non passa solo attraverso la cultura.
«La cultura è una via, un accesso. La fede passa attraverso la testimonianza di vita di uomini convinti».
Quindi la cultura senza testimonianza...
«Non vale nulla. Ma la testimonianza si deve adeguare ai tempi che corrono. Per questo dico che il prete moderno deve essere pio e colto».
In una società che non sa più interpretare il male deve essere anche capace di insegnare il discernimento?
«È essenziale. Per troppo tempo si è insegnato a valutare la colpa e il peccato come qualcosa che si misura a peso, quando invece la malizia del cuore non si può misurare. I confessori devono tornare a prendere sul serio questa malizia, che è diabolica e se non lo si comprende non si riesce a spiegare come riesca a generare assenza di spirito di riconciliazione e di perdono. Come produca una generalizzata durezza di animo, che è l’esatto contrario del Cristo che ama offrendo il suo cuore».
Senza perdono non si costruisce la società?
«Nemmeno la famiglia. Molti matrimoni falliscono per questo motivo. Ci sono aspettative deluse, non si perdona e ci si separa, secondo il significato della parola "Diavolo": ciò che divide. Tanti matrimoni si potrebbero salvare se ci fossero coppie esperte capaci di accompagnare le coppie in crisi; se ci fosse una preparazione al matrimonio capace di calarsi nelle sfide della modernità. La Chiesa deve imparare a preparare e accompagnare. Vale per la famiglia come per la formazione dei nuovi sacerdoti. Vivere il celibato in solitudine risulta difficile. E la mia esperienza in Germania con i preti protestanti sposati (anche fra omosessuali) e divorziati mi rende certo di una cosa: non è l’abolizione del celibato che risolve il problema».
«Avvenire» del 9 novembre 2011
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