«E' scomparsa la figura simbolica che rappresenta l'autorità, quella che dice ai figli cosa devono fare». L'autore parla del suo nuovo romanzo
di Michele Brambilla
Domani arriva in libreria Cose che nessuno sa (Mondadori, 332 pagine, 19 euro), il secondo romanzo di Alessandro D'Avenia. Il primo, Bianca come il latte rossa come il sangue, uscito nel gennaio del 2010, è stato un successo strepitoso: quattrocentomila copie vendute in Italia, venti traduzioni all'estero, un film che uscirà l'anno prossimo. Parlava di quell'età meravigliosa e difficile che è l'adolescenza, ed era riuscito nel miracolo di farsi leggere sia dai ragazzi, sia dai genitori. Cose che nessuno sa va ancora più nel profondo, e scava in una delle grandi colpe rimosse del nostro tempo: l'assenza del padre, o la sua sciatta presenza, che è quasi la stessa cosa.
Trentaquattro anni, insegnante di lettere in un liceo di Milano, Alessandro D'Avenia ci racconta di una mail che dice molto dell'attesa che s'è creata su questo suo secondo romanzo: «Una ragazza mi ha scritto che non vede l'ora di leggerlo perché ha un padre che torna a casa dal lavoro tardi, è sempre stanco, non parla, e appena trova un po' di tempo va a curare un campo dove ha piantato degli olivi. Così lei si chiede se è meno importante di un pezzetto di terreno».
Quanti ragazzi si possono ritrovare in una mail come questa?
«A volte mi chiedo perché non vedo mai i padri ai colloqui a scuola. Vengono sempre le mamme. Perché? Perché gli uomini sono al lavoro? Ma no, questo valeva una volta, non adesso che lavorano anche le donne. Credo che i padri non si rendano conto di quanto i ragazzi abbiano questo desiderio, questo bisogno. Dovreste vederli, in classe, come sono orgogliosi quelle rare volte che i papà vengono ai colloqui. Glielo leggi in faccia che pensano: per mio padre oggi sono stato più importante io del suo lavoro».
Chi, fra noi padri, non si sente chiamato in causa? Forse siamo la prima generazione che ha abdicato al compito di educare la successiva: educare nel senso etimologico, cioè «condurre, trarre fuori» dai figli le potenzialità, il tesoro che hanno dentro, per aiutarli ad affrontare la vita. «In questo momento - ci dice D'Avenia - la nostalgia della società intera è quella dell'assenza di un padre, con la minuscola e con la maiuscola. Non parlo solo dei padri biologici. Anche nel mondo del lavoro soffriamo e paghiamo l'assenza di padri, intesi come maestri. Perché il mio primo libro ha avuto così tanto successo? Perché uno dei protagonisti, il professore, è uno che vuole fare il padre, che si fa carico dei ragazzi che gli sono stati affidati.
«Oggi i due profili dell'adolescente sono: o Narciso, o la totale disistima di sé. Sono due poli che dipendono entrambi dall'assenza di un padre. Se io oggi credo in me, non è perché sono presuntuoso, ma perché sono stato amato moltissimo. Innanzitutto dai miei genitori, e poi da altri che si sono presi cura di me. Penso a due miei professori del liceo di Palermo: uno era quello di lettere, l'altro era padre Puglisi. Tutti e due hanno dato la vita per i loro ragazzi, padre Puglisi addirittura fino a farsi ammazzare.
«Oggi non è solo un problema di assenza fisica. è scomparsa la figura simbolica del padre, quello che rappresenta l'autorità, che dice ai figli che cosa devono fare senza aprire una trattativa. Il padre è quello che quando ti insegna ad andare in bicicletta, sta a qualche metro di distanza e ti dice "se hai bisogno, io sono qua, ma tu vai da solo". Molti uomini oggi fanno cose che un tempo i padri non facevano, cambiano i pannolini e fanno i bagnetti, e se devono insegnare al figlio ad andare in bicicletta, lo tengono per un braccio perché hanno paura che cada: ma così non si fa il padre, si fa la mamma-bis».
Poi c'è il dramma delle assenze più, come dire, carnali. La protagonista di Cose che nessuno sa è una ragazza di quattordici anni, Margherita, che decide di andare alla ricerca del padre fuggito da casa. Affascinata dal suo professore che gli presenta l'Odissea come se fosse proprio la sua storia, come Telemaco Margherita va alla ricerca del genitore, e alla fine sarà lei, non il padre, a portare la ferita di Ulisse.
«Quando entri in classe» racconta D'Avenia, e qui a parlare è più il professore che lo scrittore, «vedi subito la differenza tra gli occhi di chi ha i genitori separati e quelli di chi una famiglia ce l'ha: magari tribolata, ma ce l'ha». Ed è qui che Cose che nessuno sa passa inevitabilmente dal tema del padre a quello dell'amore: se tanti padri scappano come il papà di Margherita, è perché abbiamo smarrito la percezione della bellezza del «per sempre». «Oggi i ragazzi danno per scontato che un amore sia necessariamente "a tempo". E io dico loro: scusate, ma voi quando fate una dichiarazione d'amore che cosa dite, voglio stare con te fino al 2013? Tutti mi rispondono "Nooo, sarebbe bruttissimo!". E allora io dico: visto che lo intuite anche voi? Il bello dell'amore è la durata, è il resistere».
E' il punto di vista di un credente? «In un libro a me molto caro, Lettera a D., André Gorz, ateo, arrivato alla fine dei suoi anni, scrive alla compagna della sua esistenza che "se per assurdo avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme". è partendo dall'umano, e non da un Dio, che si percepisce quanto, come diceva Nietzsche, l'amore voglia profonda eternità». Ma non pensate che il romanzo di D'Avenia sia un sermone sui doveri del padre e sulla fedeltà. Al contrario, alla fine quel che prevale è uno sguardo di misericordia sull'uomo, alle prese con l'incompiutezza di un mondo che non si può definire in uno schema perché ci sono troppe «cose che nessuno sa». Misericordia, e un grande amore per la vita nonostante le sue ombre.
Trentaquattro anni, insegnante di lettere in un liceo di Milano, Alessandro D'Avenia ci racconta di una mail che dice molto dell'attesa che s'è creata su questo suo secondo romanzo: «Una ragazza mi ha scritto che non vede l'ora di leggerlo perché ha un padre che torna a casa dal lavoro tardi, è sempre stanco, non parla, e appena trova un po' di tempo va a curare un campo dove ha piantato degli olivi. Così lei si chiede se è meno importante di un pezzetto di terreno».
Quanti ragazzi si possono ritrovare in una mail come questa?
«A volte mi chiedo perché non vedo mai i padri ai colloqui a scuola. Vengono sempre le mamme. Perché? Perché gli uomini sono al lavoro? Ma no, questo valeva una volta, non adesso che lavorano anche le donne. Credo che i padri non si rendano conto di quanto i ragazzi abbiano questo desiderio, questo bisogno. Dovreste vederli, in classe, come sono orgogliosi quelle rare volte che i papà vengono ai colloqui. Glielo leggi in faccia che pensano: per mio padre oggi sono stato più importante io del suo lavoro».
Chi, fra noi padri, non si sente chiamato in causa? Forse siamo la prima generazione che ha abdicato al compito di educare la successiva: educare nel senso etimologico, cioè «condurre, trarre fuori» dai figli le potenzialità, il tesoro che hanno dentro, per aiutarli ad affrontare la vita. «In questo momento - ci dice D'Avenia - la nostalgia della società intera è quella dell'assenza di un padre, con la minuscola e con la maiuscola. Non parlo solo dei padri biologici. Anche nel mondo del lavoro soffriamo e paghiamo l'assenza di padri, intesi come maestri. Perché il mio primo libro ha avuto così tanto successo? Perché uno dei protagonisti, il professore, è uno che vuole fare il padre, che si fa carico dei ragazzi che gli sono stati affidati.
«Oggi i due profili dell'adolescente sono: o Narciso, o la totale disistima di sé. Sono due poli che dipendono entrambi dall'assenza di un padre. Se io oggi credo in me, non è perché sono presuntuoso, ma perché sono stato amato moltissimo. Innanzitutto dai miei genitori, e poi da altri che si sono presi cura di me. Penso a due miei professori del liceo di Palermo: uno era quello di lettere, l'altro era padre Puglisi. Tutti e due hanno dato la vita per i loro ragazzi, padre Puglisi addirittura fino a farsi ammazzare.
«Oggi non è solo un problema di assenza fisica. è scomparsa la figura simbolica del padre, quello che rappresenta l'autorità, che dice ai figli che cosa devono fare senza aprire una trattativa. Il padre è quello che quando ti insegna ad andare in bicicletta, sta a qualche metro di distanza e ti dice "se hai bisogno, io sono qua, ma tu vai da solo". Molti uomini oggi fanno cose che un tempo i padri non facevano, cambiano i pannolini e fanno i bagnetti, e se devono insegnare al figlio ad andare in bicicletta, lo tengono per un braccio perché hanno paura che cada: ma così non si fa il padre, si fa la mamma-bis».
Poi c'è il dramma delle assenze più, come dire, carnali. La protagonista di Cose che nessuno sa è una ragazza di quattordici anni, Margherita, che decide di andare alla ricerca del padre fuggito da casa. Affascinata dal suo professore che gli presenta l'Odissea come se fosse proprio la sua storia, come Telemaco Margherita va alla ricerca del genitore, e alla fine sarà lei, non il padre, a portare la ferita di Ulisse.
«Quando entri in classe» racconta D'Avenia, e qui a parlare è più il professore che lo scrittore, «vedi subito la differenza tra gli occhi di chi ha i genitori separati e quelli di chi una famiglia ce l'ha: magari tribolata, ma ce l'ha». Ed è qui che Cose che nessuno sa passa inevitabilmente dal tema del padre a quello dell'amore: se tanti padri scappano come il papà di Margherita, è perché abbiamo smarrito la percezione della bellezza del «per sempre». «Oggi i ragazzi danno per scontato che un amore sia necessariamente "a tempo". E io dico loro: scusate, ma voi quando fate una dichiarazione d'amore che cosa dite, voglio stare con te fino al 2013? Tutti mi rispondono "Nooo, sarebbe bruttissimo!". E allora io dico: visto che lo intuite anche voi? Il bello dell'amore è la durata, è il resistere».
E' il punto di vista di un credente? «In un libro a me molto caro, Lettera a D., André Gorz, ateo, arrivato alla fine dei suoi anni, scrive alla compagna della sua esistenza che "se per assurdo avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme". è partendo dall'umano, e non da un Dio, che si percepisce quanto, come diceva Nietzsche, l'amore voglia profonda eternità». Ma non pensate che il romanzo di D'Avenia sia un sermone sui doveri del padre e sulla fedeltà. Al contrario, alla fine quel che prevale è uno sguardo di misericordia sull'uomo, alle prese con l'incompiutezza di un mondo che non si può definire in uno schema perché ci sono troppe «cose che nessuno sa». Misericordia, e un grande amore per la vita nonostante le sue ombre.
«La Stampa» del 1 novembre 2011
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