La morte di "Sic", le domande dei ragazzi
di Alessandro D'Avenia
Quando sono entrato in classe poco prima dell’inizio delle lezioni ho trovato i miei ragazzi, i maschi, già in classe. Non erano in giro per i corridoi cercando di sfruttare sino all’ultimo qualche boccata di libertà prima della prigione di sei ore di lezione. Erano seduti e parlavano sottovoce. Ho chiesto cosa fosse accaduto, mi hanno risposto: «Simoncelli». Alcuni di loro il giorno prima avevano pianto, guardando e riguardando video più volte, quasi a volersela far raccontare bene questa brutta favola.
Mi ha colpito che fossero i maschi della classe, così poco disposti a manifestare i propri sentimenti, e che partecipassero in modo così personale a quel lutto, come si trattasse di un amico. Che cosa c’era sotto? Il loro sconforto andava di là dai confini della morte di uno sportivo impegnato in uno sport pericoloso. Che cosa era accaduto veramente? Nei loro occhi spenti e in qualche parola smozzicata emergeva il punto con evidenza smagliante: una promessa interrotta. Il dramma non era quello della morte, ma quello dell’ingiustizia della vita, se non è eterna.
Simoncelli più che un campione era una promessa di campione. Eravamo tutti in attesa che realizzasse il suo sogno e tifavamo per lui. Ma la morte gli ha fatto lo sgambetto a quella curva. I miei ragazzi non ce l’avevano con la morte, ma con l’ingiustizia della vita se finisce qui e così. Nell’età fatta per decidere per cosa mi gioco la vita, la morte li risvegliava con la sua cruda verità: anche se lo scopri io ti porto via tutto, quando dico io. I miei alunni erano arrabbiati, frustrati, abbandonati. A che serve impegnarsi, professore, se poi finisce così? Anche io covavo quel pensiero, ma contemporaneamente ero salvato da un altro, più profondo e meno emotivo. In fondo Sic non ha subito nessuna ingiustizia. La morte è un fatto della vita, non un’ingiustizia. Sic è morto facendo quello che amava. Se proprio si deve morire, non c’è modo migliore di morire. Se potessi scegliere la mia morte vorrei arrivasse all’improvviso mentre spiego il Paradiso di Dante: morì facendo ciò che amava. Mi sono scoperto libero, grazie al fatto che credo che la morte sia un passaggio non la fine, in my end is my beginning, ma allo stesso tempo non mi voglio perdere la vita e rifiuto Nietzsche che accusava i cristiani di disprezzare la vita, perché puntavano sull’aldilà. No, in my beginning is my end (nel mio inizio c’è la mia fine). Il paradiso c’è e lo voglio proprio perché amo la vita e la vita sa essere amabile.
I miei ragazzi avrebbero dato ragione a Cioran che a proposito della morte scriveva: «Non c’è un altro problema. Non ho fatto niente nella mia vita proprio perché ero al tempo stesso liberato e paralizzato da quel pensiero della morte. Non si può avere un mestiere quando si pensa alla morte, si può soltanto vivere come ho vissuto io, al margine di tutto, come un parassita». Mi permetto di dissentire. Proprio perché c’è la morte voglio vivere fino in fondo ogni secondo della mia vita per ciò e per chi amo. Se fossimo immortali, ci sveglieremmo la mattina e non ci scolleremmo dal letto, consolati dal pensiero di avere a disposizione tutto il tempo che vogliamo. Invece per fortuna la morte ci incalza, ci sfida a sconfiggerla amando, perché l’amore è l’unica forza forte come la morte e solo amando la morte diventa «nostra sora», come la definì un innamorato della Vita. Certo la morte paralizza chi non si aspetta da lei il dono più grande, quello della rinascita a una vita indistruttibile e da perenni innamorati.
Questo sconcertava me e i miei alunni: perché tutti questi sforzi, se poi finisce così. Però ho ribadito loro che proprio perché finisce così non possiamo rimanere paralizzati, è proprio il fatto che Sic fosse una promessa che mostra l’esistenza della vita eterna: nessuna promessa può rimanere incompiuta, nessun amore interrotto, nessuna passione spenta, nessun male non curato, nessuna ingiustizia non riparata.
Ma tutto si gioca nell’aldiqua, che può essere già paradiso. Un brano del Talmud dice: «Se stai piantando un albero e ti dicono che il Messia sta arrivando, prima finisci di piantare l’albero» e Charles Peguy racconta che un giorno Luigi Gonzaga stava giocando a palla con i suoi compagni di seminario. I superiori li interruppero e chiesero cosa avrebbero fatto se di lì a poco, venticinque minuti per l’esattezza, ci fosse stato il Giudizio. Tutti risposero che si sarebbero dedicati a qualche penitenza, preghiera, confessione... Luigi rispose: «Io continuerei a giocare a palla».
Mi ha colpito che fossero i maschi della classe, così poco disposti a manifestare i propri sentimenti, e che partecipassero in modo così personale a quel lutto, come si trattasse di un amico. Che cosa c’era sotto? Il loro sconforto andava di là dai confini della morte di uno sportivo impegnato in uno sport pericoloso. Che cosa era accaduto veramente? Nei loro occhi spenti e in qualche parola smozzicata emergeva il punto con evidenza smagliante: una promessa interrotta. Il dramma non era quello della morte, ma quello dell’ingiustizia della vita, se non è eterna.
Simoncelli più che un campione era una promessa di campione. Eravamo tutti in attesa che realizzasse il suo sogno e tifavamo per lui. Ma la morte gli ha fatto lo sgambetto a quella curva. I miei ragazzi non ce l’avevano con la morte, ma con l’ingiustizia della vita se finisce qui e così. Nell’età fatta per decidere per cosa mi gioco la vita, la morte li risvegliava con la sua cruda verità: anche se lo scopri io ti porto via tutto, quando dico io. I miei alunni erano arrabbiati, frustrati, abbandonati. A che serve impegnarsi, professore, se poi finisce così? Anche io covavo quel pensiero, ma contemporaneamente ero salvato da un altro, più profondo e meno emotivo. In fondo Sic non ha subito nessuna ingiustizia. La morte è un fatto della vita, non un’ingiustizia. Sic è morto facendo quello che amava. Se proprio si deve morire, non c’è modo migliore di morire. Se potessi scegliere la mia morte vorrei arrivasse all’improvviso mentre spiego il Paradiso di Dante: morì facendo ciò che amava. Mi sono scoperto libero, grazie al fatto che credo che la morte sia un passaggio non la fine, in my end is my beginning, ma allo stesso tempo non mi voglio perdere la vita e rifiuto Nietzsche che accusava i cristiani di disprezzare la vita, perché puntavano sull’aldilà. No, in my beginning is my end (nel mio inizio c’è la mia fine). Il paradiso c’è e lo voglio proprio perché amo la vita e la vita sa essere amabile.
I miei ragazzi avrebbero dato ragione a Cioran che a proposito della morte scriveva: «Non c’è un altro problema. Non ho fatto niente nella mia vita proprio perché ero al tempo stesso liberato e paralizzato da quel pensiero della morte. Non si può avere un mestiere quando si pensa alla morte, si può soltanto vivere come ho vissuto io, al margine di tutto, come un parassita». Mi permetto di dissentire. Proprio perché c’è la morte voglio vivere fino in fondo ogni secondo della mia vita per ciò e per chi amo. Se fossimo immortali, ci sveglieremmo la mattina e non ci scolleremmo dal letto, consolati dal pensiero di avere a disposizione tutto il tempo che vogliamo. Invece per fortuna la morte ci incalza, ci sfida a sconfiggerla amando, perché l’amore è l’unica forza forte come la morte e solo amando la morte diventa «nostra sora», come la definì un innamorato della Vita. Certo la morte paralizza chi non si aspetta da lei il dono più grande, quello della rinascita a una vita indistruttibile e da perenni innamorati.
Questo sconcertava me e i miei alunni: perché tutti questi sforzi, se poi finisce così. Però ho ribadito loro che proprio perché finisce così non possiamo rimanere paralizzati, è proprio il fatto che Sic fosse una promessa che mostra l’esistenza della vita eterna: nessuna promessa può rimanere incompiuta, nessun amore interrotto, nessuna passione spenta, nessun male non curato, nessuna ingiustizia non riparata.
Ma tutto si gioca nell’aldiqua, che può essere già paradiso. Un brano del Talmud dice: «Se stai piantando un albero e ti dicono che il Messia sta arrivando, prima finisci di piantare l’albero» e Charles Peguy racconta che un giorno Luigi Gonzaga stava giocando a palla con i suoi compagni di seminario. I superiori li interruppero e chiesero cosa avrebbero fatto se di lì a poco, venticinque minuti per l’esattezza, ci fosse stato il Giudizio. Tutti risposero che si sarebbero dedicati a qualche penitenza, preghiera, confessione... Luigi rispose: «Io continuerei a giocare a palla».
«Avvenire» del 31 ottobre 2011
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