Dalla lotta tra Sparta e Atene alle conquiste romane: la nuova collana del «Corriere»
di Luciano Canfora
Gli antichi ritenevano attendibili solo i testimoni oculari
Diodoro di Sicilia, vissuto al tempo di Giulio Cesare, scrisse una Biblioteca storica, cioè un’opera che, già nel titolo, rivelava di essere fondata sulla lettura di altre opere: una summa delle opere storiche più accreditate, compattata in un’unica narrazione. Il più intenso elogio dell’impresa di Diodoro lo fece, al tempo di Vespasiano, Plinio il Vecchio, quando scrisse che, finalmente, con l’opera di Diodoro, i Greci avevano «smesso di scherzare». Ad un gigantesco compilatore come Plinio quella doveva sembrare la ricetta giusta anche nel campo dello scrivere storia. Ma a lungo la convinzione opposta aveva prevalso. E anche dopo, persino chi scriveva storie universali sapeva che la parte più impegnativa e più vera era quella in cui il narratore parlava di cose del tempo suo, possibilmente viste direttamente.
Addirittura, con la consueta sua durezza, Polibio diceva in tono di scherno che, se lo storico è un pigro o un parassita, si trasferisce in biblioteca e racconta daccapo ciò che già altri hanno narrato prima di lui. Una volta compiuto il non faticoso spostamento, non gli resta che mettersi comodamente disteso e darsi alla caccia degli errori dei suoi predecessori. Sembra la caricatura della moderna fabbricazione di titoli concorsuali. La distinzione che Polibio ha in mente non è necessariamente tra chi ha assistito direttamente ai fatti che racconta e chi lo fa di seconda mano, ma piuttosto tra lo storico che ha una profonda e personale esperienza politico-militare e lo storico da biblioteca. Polibio di esperienza politica e militare non difettava: aveva combattuto; era stato anche preso come ostaggio e trasportato con altri notabili achei a Roma; in tale scomoda posizione aveva visto e frequentato il «circolo degli Scipioni»; aveva accompagnato Scipione Emiliano nelle campagne spagnole (culminate, nel 133, nell’assedio terribile di Numanzia). Ma messosi a scrivere una grande storia di come Roma aveva «unificato il mondo» — e perciò storia universale — aveva incominciato con la prima guerra punica, di cui non poteva certo avere nozione diretta essendosi quel conflitto concluso (241 a.C.) ben prima che lo storico nascesse. Ciò non toglie che, con la sua grande esperienza della guerra e della politica, Polibio si sentisse ben in grado di padroneggiare anche quella remota materia per raccontar la quale ha dovuto anche lui «recarsi in biblioteca».
Vi è però, nella mentalità antica, soprattutto nella Grecia classica ma anche nelle epoche successive, la convinzione radicata secondo cui solo il racconto di ciò che è stato direttamente visto può essere considerato vero. È la ben nota superiorità dell’occhio sull’orecchio di cui parla Erodoto nella «novella di Gige» posta subito al principio della sua opera. Da questo convincimento discende, conseguentemente, l’idea — molto radicata nel mondo classico — che la storia contemporanea, dei fatti contemporanei, è quella che può davvero aspirare ad essere considerata vera. Massimo teorico di questa concezione fu Tucidide, vissuto nella seconda metà del V secolo a. C. e narratore analitico della grande guerra (27 anni!) tra Atene e Sparta che torna oggi ad essere studiata da politologi e polemologi anglosassoni, non di rado appassionati fautori della «scoperta dell’ombrello».
Tucidide addirittura teorizza che la storia passata non si può nemmeno scrivere, la si può al più arguire per «indizi». Tucidide fu protagonista in prima persona e con alte responsabilità di comando in operazioni militari di grande rilievo e foriere di conseguenze gravi (la caduta di Amfipoli, 424/423 a. C.). E nondimeno fu diretto testimone di una necessariamente piccola parte dei fatti che si svolsero, in tutti i teatri di operazioni, nel corso dei 27 anni dell’interminabile conflitto. Perciò egli elabora una ben articolata teoria su come si debbano vagliare le fonti: o meglio le testimonianze di altri testimoni oculari ai quali lo storico, quantunque protagonista egli stesso, deve necessariamente ricorrere. Diversamente da Erodoto però, egli non descrive il processo di verifica che ha via via attuato: si limita a darne il risultato. Solo una volta dice esplicitamente dov’era mentre si svolgevano i fatti: ma noi possiamo sospettare che numerose altre volte egli parla di cose viste. Ci tiene però affinché il lettore consideri vero il suo racconto in ogni sua parte. E il suo grandissimo prestigio già presso gli antichi è dovuto, tra l’altro, anche a questo.
Anche Cesare nei suoi Commentarii tende a dare l’impressione di un racconto tutto vero e tutto fondato su cose viste. A ciò contribuisce il suo ruolo di capo indiscusso e stratega dell’intera campagna (sia in Gallia che nella guerra civile). E nondimeno i suoi collaboratori non acriticamente subalterni sapevano che molte delle cose che narrava erano fondate sui rapporti dei suoi ufficiali. Asinio Pollione, che pure era un cesariano (quantunque critico e spiritualmente indipendente), scrisse che Cesare aveva «a torto creduto» una serie di fatti che aveva perciò narrato in modo inesatto. E se fosse vissuto di più — soggiungeva — si sarebbe corretto riscrivendo i Commentarii. Cosa incredibile a dir vero, dato il loro obiettivo innanzi tutto di strumento di propaganda. E Cicerone, in una maliziosa pagina del Brutus, si spinge a dire che quei Commentarii sono talmente perfetti che nessuno avrebbe osato utilizzarli come base per una propria opera storica!
Se l’autopsia non è costantemente integrata dall’indagine sul non visto, gli inconvenienti possono essere addirittura paradossali. Il caso più famoso è quello dei «Diecimila» mercenari greci che nel 401 a. C. combatterono a Cunassa, nel cuore della Mesopotamia, per scalzare Artaserse e portare sul trono di Persia il fratello di lui — e rivale — Ciro il giovane. Uno di quei mercenari, l’ateniese Senofonte, ha raccontato quella epopea, in un libro, l’Anabasi, che già gli antichi consideravano con qualche cautela. Nella battaglia il fronte di combattimento era stato così ampio che i Greci poterono credere davvero di aver vinto (e nel loro settore effettivamente avevano vinto), ma solo il giorno seguente appresero che invece la battaglia era persa.
L’impresa dei «Diecimila» era stata una imprevista e sconcertante prova generale di come si potesse con relativa facilità penetrare sin nel cuore dell’impero persiano senza trovare resistenza fin quasi alle porte della capitale. Un sapiente politologo — l’ateniese Isocrate —, il quale caldeggiava un’impresa panellenica contro la Persia, se ne rese conto e lo scrisse in un importante intervento propagandistico, il Panegirico. Poi cominciò a suggerire l’impresa a importanti leader, e finalmente a Filippo re di Macedonia, padre di Alessandro Magno. Ma Filippo, quando ormai progettava seriamente l’impresa, fu fatto fuori da una congiura di palazzo capeggiata dalla moglie, protesa ad accelerare l’ascesa al trono del giovanissimo Alessandro. Il quale effettivamente, e con rapidità «napoleonica», realizzò l’impresa. Per eternarla, volle al suo seguito squadre di storici «di corte». E così nacque un genere particolarmente insidioso, quello degli storici che avevano, sì, visto e magari partecipato all’impresa che narravano, ma scrissero non solo da storici bensì anche da cortigiani. Con quale danno per la verità ognuno può intendere.
Addirittura, con la consueta sua durezza, Polibio diceva in tono di scherno che, se lo storico è un pigro o un parassita, si trasferisce in biblioteca e racconta daccapo ciò che già altri hanno narrato prima di lui. Una volta compiuto il non faticoso spostamento, non gli resta che mettersi comodamente disteso e darsi alla caccia degli errori dei suoi predecessori. Sembra la caricatura della moderna fabbricazione di titoli concorsuali. La distinzione che Polibio ha in mente non è necessariamente tra chi ha assistito direttamente ai fatti che racconta e chi lo fa di seconda mano, ma piuttosto tra lo storico che ha una profonda e personale esperienza politico-militare e lo storico da biblioteca. Polibio di esperienza politica e militare non difettava: aveva combattuto; era stato anche preso come ostaggio e trasportato con altri notabili achei a Roma; in tale scomoda posizione aveva visto e frequentato il «circolo degli Scipioni»; aveva accompagnato Scipione Emiliano nelle campagne spagnole (culminate, nel 133, nell’assedio terribile di Numanzia). Ma messosi a scrivere una grande storia di come Roma aveva «unificato il mondo» — e perciò storia universale — aveva incominciato con la prima guerra punica, di cui non poteva certo avere nozione diretta essendosi quel conflitto concluso (241 a.C.) ben prima che lo storico nascesse. Ciò non toglie che, con la sua grande esperienza della guerra e della politica, Polibio si sentisse ben in grado di padroneggiare anche quella remota materia per raccontar la quale ha dovuto anche lui «recarsi in biblioteca».
Vi è però, nella mentalità antica, soprattutto nella Grecia classica ma anche nelle epoche successive, la convinzione radicata secondo cui solo il racconto di ciò che è stato direttamente visto può essere considerato vero. È la ben nota superiorità dell’occhio sull’orecchio di cui parla Erodoto nella «novella di Gige» posta subito al principio della sua opera. Da questo convincimento discende, conseguentemente, l’idea — molto radicata nel mondo classico — che la storia contemporanea, dei fatti contemporanei, è quella che può davvero aspirare ad essere considerata vera. Massimo teorico di questa concezione fu Tucidide, vissuto nella seconda metà del V secolo a. C. e narratore analitico della grande guerra (27 anni!) tra Atene e Sparta che torna oggi ad essere studiata da politologi e polemologi anglosassoni, non di rado appassionati fautori della «scoperta dell’ombrello».
Tucidide addirittura teorizza che la storia passata non si può nemmeno scrivere, la si può al più arguire per «indizi». Tucidide fu protagonista in prima persona e con alte responsabilità di comando in operazioni militari di grande rilievo e foriere di conseguenze gravi (la caduta di Amfipoli, 424/423 a. C.). E nondimeno fu diretto testimone di una necessariamente piccola parte dei fatti che si svolsero, in tutti i teatri di operazioni, nel corso dei 27 anni dell’interminabile conflitto. Perciò egli elabora una ben articolata teoria su come si debbano vagliare le fonti: o meglio le testimonianze di altri testimoni oculari ai quali lo storico, quantunque protagonista egli stesso, deve necessariamente ricorrere. Diversamente da Erodoto però, egli non descrive il processo di verifica che ha via via attuato: si limita a darne il risultato. Solo una volta dice esplicitamente dov’era mentre si svolgevano i fatti: ma noi possiamo sospettare che numerose altre volte egli parla di cose viste. Ci tiene però affinché il lettore consideri vero il suo racconto in ogni sua parte. E il suo grandissimo prestigio già presso gli antichi è dovuto, tra l’altro, anche a questo.
Anche Cesare nei suoi Commentarii tende a dare l’impressione di un racconto tutto vero e tutto fondato su cose viste. A ciò contribuisce il suo ruolo di capo indiscusso e stratega dell’intera campagna (sia in Gallia che nella guerra civile). E nondimeno i suoi collaboratori non acriticamente subalterni sapevano che molte delle cose che narrava erano fondate sui rapporti dei suoi ufficiali. Asinio Pollione, che pure era un cesariano (quantunque critico e spiritualmente indipendente), scrisse che Cesare aveva «a torto creduto» una serie di fatti che aveva perciò narrato in modo inesatto. E se fosse vissuto di più — soggiungeva — si sarebbe corretto riscrivendo i Commentarii. Cosa incredibile a dir vero, dato il loro obiettivo innanzi tutto di strumento di propaganda. E Cicerone, in una maliziosa pagina del Brutus, si spinge a dire che quei Commentarii sono talmente perfetti che nessuno avrebbe osato utilizzarli come base per una propria opera storica!
Se l’autopsia non è costantemente integrata dall’indagine sul non visto, gli inconvenienti possono essere addirittura paradossali. Il caso più famoso è quello dei «Diecimila» mercenari greci che nel 401 a. C. combatterono a Cunassa, nel cuore della Mesopotamia, per scalzare Artaserse e portare sul trono di Persia il fratello di lui — e rivale — Ciro il giovane. Uno di quei mercenari, l’ateniese Senofonte, ha raccontato quella epopea, in un libro, l’Anabasi, che già gli antichi consideravano con qualche cautela. Nella battaglia il fronte di combattimento era stato così ampio che i Greci poterono credere davvero di aver vinto (e nel loro settore effettivamente avevano vinto), ma solo il giorno seguente appresero che invece la battaglia era persa.
L’impresa dei «Diecimila» era stata una imprevista e sconcertante prova generale di come si potesse con relativa facilità penetrare sin nel cuore dell’impero persiano senza trovare resistenza fin quasi alle porte della capitale. Un sapiente politologo — l’ateniese Isocrate —, il quale caldeggiava un’impresa panellenica contro la Persia, se ne rese conto e lo scrisse in un importante intervento propagandistico, il Panegirico. Poi cominciò a suggerire l’impresa a importanti leader, e finalmente a Filippo re di Macedonia, padre di Alessandro Magno. Ma Filippo, quando ormai progettava seriamente l’impresa, fu fatto fuori da una congiura di palazzo capeggiata dalla moglie, protesa ad accelerare l’ascesa al trono del giovanissimo Alessandro. Il quale effettivamente, e con rapidità «napoleonica», realizzò l’impresa. Per eternarla, volle al suo seguito squadre di storici «di corte». E così nacque un genere particolarmente insidioso, quello degli storici che avevano, sì, visto e magari partecipato all’impresa che narravano, ma scrissero non solo da storici bensì anche da cortigiani. Con quale danno per la verità ognuno può intendere.
«Corriere della sera» del 21 agosto 2010
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